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3 Serate, 4 Architetti, tra Fondazioni e Archivi

Dal 16.04.2012 al 26.05.2012

Come tutti gli anni per la settimana di Fuorisalone, l’Ordine degli Architetti di Milano ha organizzato mostre, presentazioni e serate, per tutti i pellegrini del Salone

Come tutti gli anni, per la settimana di Fuorisalone, l’Ordine degli Architetti di Milano ha organizzato una bellissima mostra dedicata a Gio Ponti, presentazioni e serate per tutti i pellegrini del Salone accolti nella corte predisposta ad area lounge e wifi.

Quest'anno la Fondazione ha voluto ricordare con 3 serate consecutive il lavoro di alcuni grandi maestri del '900 milanese e in particolare alle Fondazioni a loro dedicate: Franco Albini Martedì 17 aprile, Gio Ponti Mercoledì 18, i Castiglioni e Vico Magistretti il 19 aprile. Numerosi gli ospiti coadiuvati da un instancabile Franco Raggi: di seguito il resoconto delle serate.

Martedì 17 aprile allineati di fianco a Franco ‘Baudo’ Raggi numerosi gli ospiti invitati a parlare della Fondazione Franco Albini, che da 5 anni si dedica a divulgare catalogare conservare il lascito del grande architetto milanese.

Con queste iniziative, così come con gli Itinerari di Architettura che vengono organizzati tutti gli anni, consapevoli della necessità di tornare a parlare di architettura non dal punto di vista finanziario come spesso avvenuto negli ultimi 20 anni, intenzione dell’Ordine è dare supporto alla lezione della scuola milanese, una ricerca per molti versi sommessa e il cui esito sono opere spesso laconiche, sicuramente non ‘archistar’ mood: anche per questo dunque una lezione assolutamente attuale.
Come suggerisce introducendo il tema, il carattere meritorio delle attività di queste fondazioni ed archivi è nullo se non circola e si da visibilità.

Marco Albini parla dell’allestimento come anima della modernità. Forse la gente, dice, non sa che Milano è stata l’eccellenza nell’esporre degli anni ’30, una importanza che travalica il contenuto estetico, pregno com'è di significato politico ideologico.
Gli allestimenti di quegli anni raccontano altro da se, sono espressione di vie alternative al loro presente, occasione per esprimere la rivoluzione del moderno, in contrapposizione alla cultura novecentista e classicista imperante. Il loro non essere permanente e solido permette di radicalizzare il manifesto ideologico.
Alla ridondanza autocelebrativa novecentista si contrappone leggerezza e modestia, anche attraverso il massimo rispetto per gli artigiani allestitori. Non si tratta di architettura di interni, ma di vere e proprie architetture che creano uno spazio nuovo.
Tre elementi base: punto linea superficie (Kandinsky scrive l’opera omonima nel ’23 e lo pubblica nel ’26 a Monaco per il Bauhaus; tradotta in inglese nel ’47 a NY, Adelphi in italiano nel ’68, a significare i collegamenti internazionali diretti vissuti allora n.d.r.).
Le opere d’arte negli allestimenti di Albini galleggiano nel vuoto, vengono porte, e l’arte di porgere spinge ad estraniare gli oggetti dallo spazio, in un rapporto di astrazione tra contenitore ed opera d’arte.
Per tutte queste ragioni la Fondazione ha proposto di riprodurre gli allestimenti di allora. Una lezione attuale, non solo per i giovani: perchè mostrare come lavorare sul proprio mestiere è un modo di sviluppare una ricerca, perfezionare soluzioni, è mostrare un metodo.

Paola Albini, vicepresidente e anima della fondazione –come nelle parole del padre Marco- racconta la storia della Fondazione.
Nel 2007 in occasione del centenario e della mostra alla Triennale ‘Zero gravity’, curata da Renzo Piano e Franco Origoni, nasce l’esigenza di riordinare e inventariare l’archivio, che inizia allora ad essere informatizzato. In tale occasione l’incontro con Accenture, società di consulenza informatica e direzionale,  avviato con la creazione del sito e la costruzione dei primi modelli 3D degli allestimenti, oltre che la digitalizzazione dell’archivio determinante per la divulgazione e la consultazione del materiali senza problemi di deterioramento.
Sostanzialmente la fondazione compie azioni di:

  • divulgazione, attraverso le formule tradizionali di Mostre, pubblicazioni ed eventi, e altre più originali, quali appunto la creazione del Museo Virtuale, presente nel sito e in occasione di mostre, o nel nuovo sito di federlegno Exporre, mirato a mostrare l’eccellenza di Milano nell’arte di esporre.

  • riedizione di disegni sia storici che inediti, con Cassina già in produzione 7 pezzi.

  • promozione di giovani designer cui affidare curatela e allestimento di mostre

Francesco Moneta, oggi direttore di Cultura+Impresa, è impegnato a mettere in sinergia operatori culturali, sistema d’impresa e fondazioni.
La cultura come ‘driver’ del sistema Paese, è considerato un investimento interessante anche in tempi di crisi come oggi dall’86% degli operatori.
Franco Raggi
gli oppone come fare cultura d’impresa non passi attraverso sponsorizzazioni esterne quanto in ciò che fa: Olivetti sponsorizzava se stessa, facendo cultura attraverso il proprio agire, consapevole di non appartenere solo alla sfera del mercato.

Gianpiero Bosoni
, chiamato a compiere l'analisi critica del materiale d’archivio, racconta della profezia del design in cui Albini “rinunciò a elaborare strutture autonome a favore di cavità come aggettivi che facevano vibrare”. Racconta fondamentali gli incontri con Gio Ponti e Edoardo Persico.

Quindi la testimonianza di Chiara Lecce, dottoranda che ha prestato servizio presso la Fondazione per la messa a punto dei materiali e dei dettagli necessari per la costruzione dei modelli 3D elaborati da Accenture, volto a chiarire il lavoro sulle fonti. Commenti e didascalie di foto e disegni degli allestimenti originari determinanti per le ricostruzioni dei modelli realizzate da Accenture.

Infine il professor Corrado Levi,  allievo a Torino e assistente al Politecnico di Milano, propone testimonianze inedite del Maestro, per cui la trasmissione del sapere era prima di tutto compito etico, attraverso un insegnamento che non passava solo attraverso le parole.
Racconta di come in questi anni trascorsi in America abbia potuto cogliere molto interesse riguardo la figura di Albini, tanto che al MOMA vorrebbero una sua mostra. Ricorda Philip Johnson nel ’51 all’inaugurazione di Palazzo Bianco a Genova, incantato dai ferri neri, a testimonianza di come la sua influenza non sia limitata solo all’Italia.
Come i montagnini parlano poco e sono attenti a dove mettono i piedi, Albini casto e attento disegnava il noto Rifugio Pirovano, come Mollino: si mangiava con le posate di Mollino, da Albini.
Studente a Torino, decise di essere suo allievo vedendo la riproduzione della sedia “Adriana” su Domus, in cui la didscalia riportava una frase di Albini: 'mi fanno i complimenti ma vorrei mi facessere osservazioni'.
La sua prima lezione consisteva nel disegno 1:1 della sedia di Chiavari. E poi 1:5, mai 1:2, scala che tradisce la realtà.
“non esistono oggetti brutti, basta saperli esporre”.
Da assistente, con Gardella jr, Fredi Drugman e Giuseppe Gambirasio, all'università di S.Trovaso a Venezia, si facevano 8 ore continuate di confronto con gli studenti. Avevano 10 allievi per assitente, cui spettava 1 revisione con Albini: per gli assistenti era come sostenere l’esame.
Parlava poco del suo lavoro.
Un suo compagno di corso, figlio di operai, Domenico Prola, diceva “Albini è così liberale che sembra comunista”.

A chiusura il professor Augusto Rossari, tra il pubblico, ricordandone la ritrosia, lo descrive fautore del metodo dei ‘perchè?’.

Mercoledì 18 aprile serata di presentazione della mostra “Vivere alla Ponti”, curata e allestita ancora una volta da Franco Raggi, che ribadisce l’intento dell’Ordine di compiere opera di sensibilizzazione riguardo il patrimonio architettonico cittadino moderno.
La sensazione è che l’architettura sia percepita come distante, a volte inopportuna. Il Sunday Times inserisce la Torre Velasca tra gli edifici più brutti del mondo, e in città nessuno dice niente. Un paradosso, visto che l’architettura è l’arte permanente per definizione –un quadro o un film puoi non vederli, ma un edificio lo hai davanti per decenni-, eppure così distante.
Le Fondazioni milanesi – tra cui Albini, Magistretti, Castiglioni, Portaluppi- e gli archivi –cita Sottsass e altri- vanno messi in sinergia. Da cui lo sforzo dell’Ordine di presentarne il lavoro.

Francesca Molteni legge una nota di Lisa Ponti, impossibilitata a esserci: avete sccelto una bella immagine, la foto in cui appare anche Giulia. Che era disubbidiente: alla regola, al lavoro, autonoma. Attorno a sé un disordine spontaneo e istintivo, allegro. La vita come bellezza e non come disciplina.

Racconta poi in prima persona l’esperienza dell’incontro con questi mobili, bellissimi, visti a casa di Paolo Rosselli (noto fotografo, figlio del socio di Ponti), di una libreria costruita originariamente per via Dezza, da cui nasce l’idea della riproduzione per Molteni&co.
Inizia così, con Salvatore Lincitra, la ricerca delle immagini di archivio che la riguardano, con l’intenzione di far rivivere una casa non in senso nostalgico. Sono tanti i progetti mai prodotti in serie.
Per la realizzazione, il gruppo Molteni si è avvalso dello studio Cerri per attualizzarne la produzione.
La sedia Ponti, in alluminio, nata per la Montecatini –che l'alluminio lo produceva- ha una linea contemporanea e versatile.

Per il resto, tutti pezzi provenienti dalla casa di via Dezza.
Il tavolino –prima in radica, poi in ottone- aggiornato per via di togliere: un'esatta proporzione, eleganza mai fine a se stessa.
È facendo questo lavoro, dice, che abbiamo capito il senso del “vivere alla Ponti”.
I materiali di archivio non sono mai stati esposti: le foto, tratte dagli album di famiglia di Letizia, come quelle dedicate alla casa di Civate –incontri di persone che si piacciono e che fa cose assieme-.
Lo studio di via Dezza era un Loft ante litteram.

Salvatore Licitra racconta la scelta delle immagini, di taglio domestico, sempre con la presenza di persone, perchè il lavoro di Ponti sulle sue case è di autosperimentazione: come in via Dezza, dove le stanze poste in infilata erano divise solo da soffietti, dove i litigi erano sopiti per non farsi sentire.

Consapevoli che la mostra/album di famiglia rischiasse la mummificazione, il museo delle cere. Ma non è successo, grazie ai disegni, per il modo di gestire la vita da Ponti, in cui l’abitare è perno del percorso.

In molti progetti si vedono pezzi di casa che diventano progetti pubblici:
- in via Randaccio la ribaltina poi diventa la domus nova della Rinascente
- Via Brin poi sarà alla Triennale
- Via Dezza ancora alla Triennale
Senza soluzione di continuità arredo ed architettura si compenetrano tra loro.
Alcune foto hanno un punctum, come diceva Roland Barthes. In particolare ne ricorda una importante, con la madre, lui guarda verso la luce, il punctum sono le scarpe di entrambi. La lettura della classicità è disinvolta, guardando avanti, come questa mostra.

Il progetto della Montecatini è un'espressione tipica di Ponti: ne ha disegnato tutto, dai portaceneri ai serramenti –in alluminio- in modo coordinato, come chiestogli da Donegani, un'immagine del futuro.

Franco Raggi nel chiedere ad Alessandro Mendini un suo contributo, lo carica di suggestioni. Ricorda la scrittura, le lettere e i messaggi che assumevano attitudine decorativa. Il modo tutto ‘Ponti’ per superare l’aporia modernista/post-modernista. E poi l’amore per l’artigianato, la ricerca misurata ma vulcanica nel design, fatta di continue variazioni, che ha portato il design da fenomeno professionale a fenomeno culturale. Sintomatica la mostra da lui curata per il Fuorisalone alla Fabbrica del Vapore dedicata alla varietà degli approcci al design, specchio di un'anarchia sociale da lui appassionatamente perseguita.   

Alessandro Mendini diachiara fin da subito la resa a tante suggestioni. Ma sicuramente, afferma, se guardo al Salone di oggi non mi viene in mente Gio Ponti.
In Europa Hoffmann, Nizzoli, l’amato (da lui medesimo) Portaluppi sono stati capaci di lavorare a tutte le scale del progetto: come Ponti.
Racconta di come conobbe Ponti alla fine degli anni ’60, quando con Mario Brunacci proposero a Ponti la fondazione di un museo moderno. Ponti lavorò parecchio a quel progetto che gli era piaciuto. Per cercare il denaro ad esso necessario scriveva, a mano, lettere seducenti alla borghesia milanese, ma in realtà non ebbero particolare esito. Ponti lavorava per 10: racconta come lo incontrassero o alle 7 di mattina, o alle 10 di sera, e quando se ne andavano lui proseguiva nel lavoro. Il museo venne progettato sulla collina del QT8, ma non ebbe alcun esito.
Quando poi venne chiamato da Pierre Restany nel ’79 alla direzione di Domus, lo andarono a trovare in via Dezza, pochi mesi prima della morte. Avvolto in coperte e con una bottiglia di champagne: "ti affido la mia Domus".
La visione utopica teneva insieme tutto quello che faceva. Ma non la visione utopica tecnologica contemporanea, tendente alla rovina, ma l’utopia umanistica, quella che mi fa sentire suo allievo.

Con malizia Franco Raggi gli chiede perchè non si fossero rivolti a Rogers/Casabella invece che a Ponti/Domus? Mendini risponde con l’eterno confronto Velasca/Pirelli: la storia contro l’ottimismo dello stile internazionale.
Ringraziamenti


Giovedì 19 aprile infine l'incontro con le Fondazioni Castiglioni e Magistretti: terza serata dedicata ad archivi e Fondazioni intitolate al lavoro di alcuni grandi maestri milanesi.


Franco Raggi
con rinnovata inossidabile passione ricorda gli esempi mirabili degli allestimenti di questi maestri, e introduce Giovanna Castiglioni, figlia di Achille.
La quale sottolinea con orgoglio la squadra di giovani donne che rappresenta le 3 Fondazioni presentate in questi giorni, ‘che non vogliono solo ricordare ma combattere per la cultura tramandata dai loro padri’.
I 3 fratelli Castiglioni, Livio, Piergiacomo e Achille ereditano dal padre, noto scultore, la passione per i modelli. Nel '62 Piergiacomo e Achille si trasferiscono in Piazza Castello 27, in cui si accumulano 40 anni di storia, come tanti strati geologici.
Quando mancò Piergiacomo nel ’68, Achille cedette documenti e progetti all'archivio Quintavalle a Parma.
Nello studio di Piazza Castello sono conservati una miriade di oggetti, 4 stanze inventariate ma ancora da digitalizzare.
Grazie alle 2 collaboratrici storiche che hanno lavorato con Achille, è stato possibile ricostruire le connessioni tra progetti e oggetti apparentemente scissi tra loro. Una quantità di materiale d’archivio sovrumano, per 24.000 visitatori all’anno. Numeri che incentivano la Fondazione a proseguire nel lavoro.

“Se non siete curiosi lasciate perdere il mestiere di design non fa per voi”.
Il metodo ‘Castiglioni’: scovare oggetti del quotidiano su cui innestare varianti di senso. La raccolta di oggetti anonimi da cui far scaturire scintille di nuove idee. In studio vi sono vetrinette stracolme.
Infine accenna alla volontà di utilizzare lo studio per lanciare giovani designer: per il periodo di salone, ad esempio, è prevista la presenza in Fondazione di oggetti di Lorenzo Damiani.

Franco Raggi accompagna dall’antiretorica massacrante di Achille Castiglioni al segreto dell’eleganza di Vico Magistretti, morto nel 2006, presentato da Margherita Pellino, nipote dell’architetto.
Racconta come le cose trovate ‘correnti’ di studio fossero in ordine e viceversa  quelle concluse fossero un guazzabuglio. Condivisa con il Politecnico una convenzione per il riordino dell’archivio.
Lo studio di via della Passione, precedentemente del padre architetto PierGiulio, viene riorganizzato sotto la supervisione dell’architetto Simona Romano, già curatrice dell’archivio Kartell.
Sponsor principali della Fondazione sono le 7 aziende con cui Magistretti ha lavorato per tutta la vita.
Nei materiali Prevalgono gli schizzi, su qualunque supporto e formato.
Una vita di lavoro condivisa col geometra Franco Montella, e basta.
Lo studio e il regesto delle opere è stato concepito nell’ottica della sedimentazione, successivamente poi ordinato per committenze.
Ulteriore patrimonio sono i prototipi e i fondi fotografici. Numerose foto di Aldo Ballo (noto fotografo di moda). E ancora brevetti, riviste e modelli. Grande impegno nella digitalizzazione.

Ma che farne di una Fondazione? Fulvio Irace cerca di dare significato oltre che all'archivio al luogo, e le due cose assieme li rendono irripetibili.
Numerosi archivi si sono già persi, in Svizzera o altrove: Zanuso, Minoletti, Viganò. ma anche Aldo Rossi. Citando gli ultimi.
I tagli ai finanziamenti alle istituzioni museali le ha costrette a giustificare la loro esistenza, a rispondere di bilanci e numero di visite, a reinventarsi un diritto di esistenza. Una presenza anche virtuale, che implica costi pazzeschi di digitalizzazione, ma che significa diffusionemolto ampia.
Senza sbiadire il mito, mantenendo il filo della continuità.

Franco Raggi solleva un altro compito di queste istituzioni, che è il ruolo di viglilanza sulla produzione dell'autore. Ruolo spesso frustrante, specialmente sule opere di architettura, di cui cita il palazzo di corso Europa in corso di ristrutturazione, con gravi manomissioni.

Il serafico Vanni Pasca rievoca la Milano culturale degli anni '60, centro del mond. Le Fondazioni sono uno strumento di eccezione per renderne merito, testimonianza del processo progettuale ed del suo profondo mutamento nell'era della digitalizzazione.
Intervistando Morrison e Grcic ho scoperto un amore per Magistretti profondo, di cui sono graditi gli approfondimenti.
Questo lavoro è dunque prezioso non per fare (solo) memoria, ma come investimento nel futuro.


Francesco de Agostini


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