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Milano alta

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A cura di Fulvio Irace Federico Ferrari

L’edificio “alto” ha da sempre rappresentato uno dei temi della modernità: simbolo di una “tensione verso il cielo” come prometeico sforzo per annullare i vincoli imposti dalla forza di gravità, «il grattacielo può essere ritenuto testimone esemplare della grandiosità costruttiva propria dell’homo faber del XX secolo». La cultura italiana, che ha sicuramente in Milano la sua punta avanzata, ha spesso mostrato una certa riluttanza, se non proprio una netta avversione, nei confronti di questa contemporaneità verticale, in base alla quale ha potuto sviluppare una sua specificità nella risposta al tema. Torre Velasca e Grattacielo Pirelli possono essere considerati casi emblematici, proprio in virtù della loro alterità formale, ma certamente non esauriscono una ricerca che il professionismo milanese ha saputo declinare in innumerevoli modalità.

(Materiale protetto da copyright, vietata la riproduzione)

L’edificio “alto” ha da sempre rappresentato uno dei temi per eccellenza della modernità. La suggestione esercitata dagli esempi americani è stata uno dei cavalli di battaglia del Movimento Moderno, almeno a partire dal celebre viaggio di Le Corbusier negli Stati Uniti. Inebriato dal sogno di una metropoli verticale che riscattasse l’uomo dalla soffocante densità della città tradizionale, l’architetto svizzero spronò l’umanità ad abbracciare senza riserve la tipologia del grattacielo. Rappresentazione simbolica di una “tensione verso il cielo” come prometeico sforzo per annullare i vincoli imposti dalla forza di gravità, «il grattacielo, dunque, può essere ritenuto testimone esemplare della grandiosità costruttiva propria dell’homo faber del XX secolo»(1).

La cultura italiana, che ha sicuramente in Milano la sua punta avanzata – già a partire dagli anni Venti è crogiuolo delle più aggiornate esperienze architettoniche nazionali – ha spesso mostrato una certa riluttanza, se non proprio una netta avversione, nei confronti di questa contemporaneità verticale. Se si esclude la retorica futurista di Sant’Elia, a testimonianza di un’ambiguità che ha costantemente tentato di conciliare il carattere di rottura rispetto al contesto, proprio del grattacielo classicamente inteso, con il recupero di un generico rapporto con una tradizione nei fatti ineludibile, sta anche una questione terminologica: nei casi di “edifici alti” milanesi che qui analizzeremo ricorrerà spesso la denominazione “torre”. Assai più raramente quella di grattacielo. E si vedrà come tale variazione semantica sia non tanto legata a fattori dimensionali, quanto piuttosto a caratteristiche formali, che intendono mettere l’accento volta a volta sulle continuità o sulle rotture. Anche a Milano, capitale economica del paese, una sorta di timore ha sempre contraddistinto il dibattito pubblico sull’opportunità o meno di punteggiare la città di edifici alti, tanto che una legge di epoca fascista imponeva che la Madonnina costituisse il punto più elevato dell’edificato urbano. La torre Littoria – poi Branca – eretta da Gio Ponti al Parco Sempione in occasione della V Triennale del 1933, dovette attestarsi su un’altezza massima di 108 mt., mezzo metro in meno rispetto alla guglia della cattedrale. Nel 1954 la torre Breda di Luigi Mattioni,  con i suoi 116 mt., contravverrà per prima a questo divieto stabilendo un nuovo record, pochi anni dopo infranto dai 127,10 mt. del Pirelli, consentiti a patto di accogliere alla sua sommità una riproduzione della Madonnina.

Ufficialmente, il primo “grattacielo” milanese in ordine di tempo è l’edificio Snia Viscosa progettato nel 1935-37 da Alessandro Rimini in piazza San Babila. Ad esso spetta il primato, nonostante la Casa-Torre Rasini (1933-34) sia in verità anteriore di due anni. Se questa è a destinazione esclusivamente residenziale, l’edificio progettato da Rimini incarna, non tanto da un punto di vista architettonico, quanto per la posizione e la destinazione d’uso mista, la vera essenza degli archetipi d’oltreoceano. Merita infatti l’appellativo di grattacielo in virtù del suo carattere auto promozionale, essendo un elemento autoreferenziale e pubblicitario, funzionale ad esprimere i valori di potenza economica, conoscenze tecnico-scientifiche e tensione verso il futuro propri del committente. Da un punto di vista espressivo non vi è tuttavia nessun intento di svincolarsi da una classicheggiante gravitas. Questo “grattacielo” si presenta infatti come un massiccio volume, in cui un castigato linguaggio modernista, ancora memore di stilemi novecentisti, si combina con una simmetria la cui sintassi obbedisce a principi non certo avanguardisti. Definito grattacielo dai critici dell’epoca, viene tuttavia lodato per il suo «carattere torriforme a massa chiusa […], senza aggiunte od affastellature utilitarie»(2). Ecco che l’archetipo d’oltreoceano, pur mantenendosi nella denominazione, viene immediatamente ricondotto all’interno di una tradizione, che nega quella che, almeno a partire dal progetto di Walter Gropius per il Chicago Tribune, era diventata la cifra distintiva del grattacielo International Style: la modularità del piano tipo, la cui iterazione, contestando la tradizionale tripartizione ancora presente, seppur esasperata al limite delle sue possibilità, negli esempi della scuola di Chicago, simboleggiava l’aspirazione ad un’infinita progressione verso l’alto. La negazione della forma chiusa, la cui più frequente caratterizzazione formale si esplica nella serrata dialettica tra maglia strutturale e smaterializzazione della parete nel curtain wall, era infatti uno dei topos della modernità.

Nell’indagare le molteplici potenzialità espressive del telaio e della parete divenuta diaframma, la tradizione lombarda mostra sin dagli anni Trenta una spiccata ambiguità. In generale, nella cultura italiana, l’esibizione della struttura, resa possibile dall’uso del calcestruzzo armato, si colora – si pensi al caso paradigmatico della Casa del fascio di Giuseppe Terragni a Como – di dichiarate reminiscenze classiche, alla ricerca di un’espressività metafisica in cui rimane ben poco della retorica macchinista d’oltralpe. Ad esempio, la parete trasparente, lungi dal voler negare l’intimità dell’abitazione attraverso il sovvertimento delle nozioni di dentro e fuori, viene declinata da Gio Ponti secondo una personale interpretazione. La “casa all’italiana”, pur abbracciando senza esitazione le potenzialità offerte dalla industrializzazione, mantiene il suo carattere di “domesticità”: «Oggi non v’è più facciata, l’esterno della casa è tutt’uno con l’organismo che la costruzione rappresenta, e questo organismo è tutto inteso a offrir agio e piacere all’abitazione, con verande, terrazze, con grandi vetrate. Questi elementi […] sono la casa stessa e su questi sfoghi verso l’aria e il sole si aprono le più belle stanze […]»(3). Se consideriamo il primo in ordine di tempo degli edifici qui presi in esame, la Casa-Torre Rasini ai Bastioni di Porta Venezia (1933-34), quest’affermazione potrebbe sembrare del tutto incoerente. Ma se ci concentriamo sul carattere fondamentalmente ambiguo delle parole di Ponti, possiamo rinvenire, anche nell’esempio precoce dell’ edificio di Porta Venezia, per certi aspetti eccentrico nell’ambito della produzione pontiana, quella ricerca sui «valori di piano e il gusto grafico di superficie»(4), scevra da ogni dogmatismo formale tipico di molta produzione europea. Sia nel caso del blocco collocato a testa di ponte su corso Venezia che nell’episodio verticale della vera e propria torre affacciata sui retrostanti giardini – al di là dei dubbi e a lungo discussi contributi personali di Lancia e Ponti – la tessitura dei materiali, siano essi levigata pelle marmorea o materici corsi di clinker, dà corpo ad una composizione libera e disinvolta. Nella sua originalità Ponti intercetta comunque certe suggestioni del razionalismo – i temi della leggerezza e del disegno fra gli altri – ma li declina in modo del tutto personale, giocando sulla fondamentale ambiguità dei «materiali di rivestimento esibiti come struttura dell’immagine più che come decorazione»(5). Si tratta insomma di una modernità diversa, che avrà nel dopoguerra la sua più compiuta concretizzazione nell’impresa del Pirelli.

Più in generale, il tema dell’ “architettura ascensionale” si presta dunque ad essere metafora di una modernità alla ricerca continua e affannosa delle proprie radici, nella consapevolezza di una continuità storica che assumerà via via diverse declinazioni. La cultura milanese si è infatti «tenuta distante dalla decisa frattura tra passato e presente che, nell’operato degli artisti e degli architetti europei, aveva prodotto inedite forme espressive e configurazioni abitative del tutto diverse dal contesto urbano preesistente»(6). Dopo i tentativi anteguerra, sovente ancora impregnati di certo monumentalismo, ma anche contenenti in nuce una sensibilità peculiare che avrà modo di esplicarsi alla caduta del regime fascista, è solo negli anni Cinquanta che vediamo espresso il carattere più specificamente “meditativo” di questa reinterpretazione della modernità. Borghesia e industria assorbono quasi totalmente il mercato edilizio privato. La ricerca di un’identità nuova ed aggiornata trova nell’architettura il suo momento più rappresentativo: «americanismo […] e milanesità sono le due complementari facce di una modernità che chiede il massimo delle prestazioni tecnologiche e funzionali, ma che presenta anche un acuto desiderio di decoro, esprimentesi in una cauta pretesa di “nobiltà psicologica e di decoro” in tutte le possibili gamme della sua estensione, dalla casa per abitazione all’oggetto d’uso»(7).

È dunque solo negli anni del miracolo economico che, sulla scorta dell’entusiasmo di una società desiderosa di identificarsi in nuovi e più aggiornati immaginari, vedono la luce la maggior parte dei “grattacieli” milanesi: del 1947-1951 è la casa albergo di Luigi Moretti in via Corridoni; del 1947-1952 la torre dell’Istituto Svizzero di Armin Meili in piazza Cavour; del 1951-1953 il complesso per abitazioni, negozi ed uffici per la Società Palmolive sempre di Moretti in corso Italia; del 1955-1957 la Torre Tirrena di Eugenio ed Ermenegildo Soncini in piazza Liberty; del 1951-1958 la Torre Velasca dei BBPR; del 1950-1955 la Torre Breda di Luigi Mattioni in piazza Repubblica; del 1953-1956 la torre ad appartamenti di Vico Magistretti in via Revere; del 1956-1961 il grattacielo Pirelli di Gio Ponti in piazza Duca d’Aosta; del 1956-1959 la Torre Galfa di Melchiorre Bega in via Fara; del 1962-1963 la Torre per abitazioni di Paolo Chiolini in Porta Romana; del 1963-1967 la Torre di Giovanni e Lorenzo Muzio in piazza Repubblica. Ovvia e naturale è la preponderanza di tipologie destinate a funzioni terziarie, nell’ottica di una nuova rappresentatività urbana cui le maggiori aziende affidano un fondamentale compito promozionale. Ma è piuttosto frequente anche la destinazione mista, che nelle aree centrali di maggior pregio unisce residenza alto borghese e uffici. La destinazione esclusivamente residenziale è ovviamente più rara. Ma sorprende, soprattutto in confronto all’oggi, che in un ambito come quello abitativo caratterizzato sovente da modelli inerziali, il numero di “torri ad appartamenti” sia relativamente alto. Una “predisposizione alla modernità” tipica della borghesia milanese, sicuramente condizionata da una tradizione professionale che aveva già indagato a partire dagli anni Trenta un tema come quello della “villa sospesa” o delle “ville sovrapposte”.

Le due possibili ed emblematiche declinazioni dell’edificio alto nell’epoca del miracolo economico sono ovviamente rappresentate dal Pirelli e dalla Velasca. Le figure di Gio Ponti ed Ernesto Nathan Rogers incarnano meglio di tante altre due atteggiamenti progettuali peculiari spesso giudicati antitetici. Nel primo caso viene perentoriamente affermata, nel tour de force ideativo che porta a sintesi arditezza strutturale e politezza figurativa, la natura precipua del grattacielo come forma isolata dal contesto, altera e scintillante nella sua modernità esibita. Nel secondo caso, la “torre”, sin dalla sua denominazione, fa delle forme tormentate e corrugate l’esito di un iter progettuale che si mostra estraneo alla ricerca di “immagini forti” date a priori. Ne sono testimonianza le numerose ipotesi preliminari, attraverso le quali è possibili leggere un’evoluzione da primigenie forme aderenti ad un’estetica genericamente International Style sino ad arrivare, per variazioni successive, a proposte che progressivamente abbandonano il curtain wall, optando per un’architettura di “pieni” piuttosto che di “vuoti”. La dicotomia fra questi due modelli ha da sempre costituito un topos della critica architettonica, in ciò rafforzata dal ruolo da protagonisti del dibattito teorico che Rogers e Ponti incarnarono rispettivamente dalle pagine di Casabella e di Domus. Tuttavia, proprio in quanto edifici carichi di interpretazioni che ne hanno negli anni oscurato la reale consistenza, una contrapposizione manichea non giova certo ad una loro vera comprensione. Il Pirelli come emblema di una modernità esibita, oltre ad essere il punto d’arrivo del tutto personale di molte delle riflessioni pontiane attorno al tema della forma pura e “cristallina”, la cui tappa intermedia è rappresentata dalla «superificie artica»(8) del primo palazzo Montecatini (1936), a uno sguardo non superficiale si caratterizza per essere molto più che un semplice «oggetto di design alla scala urbana», espressione con cui molta parte della critica ha inteso ridimensionarne nel dopoguerra l’effettivo valore. Esso è un grattacielo il cui rapporto col suolo è paradossalmente molto più articolato rispetto alla “neogotica” Torre Velasca. Il sistema di piani inclinati che ne costituiscono l’accesso cela il corpo basamentale, espanso in diverse direzioni a saturare il lotto poligonale, su cui svetta la sottile lama trasparente del grattacielo. Un radicamento estraneo al per altri versi ricercato rapporto con l’intorno tipico della Velasca. Tema, questo del rapporto con l’urbano, che vedremo diversamente declinato in molti esempi milanesi, sovente attraverso la bipartizione fra piastra in fregio all’isolato e fusto sovrastante, come è evidente nella già citata Torre Breda di Luigi Mattioni in piazza della Repubblica (1950-1955). Tornando all’esempio pontiano, le sottili costolonature complanari, che la sapienza ingegneristica di Nervi assottiglia progressivamente verso la sommità, ne denunciano il carattere di forma conclusa, ulteriormente ribadito dall’ ”aureola” che protegge il piano attico configurato come un aereo belvedere sulla città. Anche il curtain wall viene reinterpretato originalmente: pur nella bidimensionale complanarietà rispetto ad esso, le due fasce opache che lo inquadrano instaurano un rapporto dialettico fra superfici piene – strutturali – e settori trasparenti, vanificando in gran parte il carattere di pelle applicata ed avvolgente tipico della parete vetrata. Ancora una volta uno degli stilemi tipici dell’internazionalismo modernista viene reinterpretato e variato, configurando un edificio che ha più della lanterna magica che dell’algido palazzo per uffici.

Nel caso della Velasca la banalizzazione della sua immagine, secondo una lettura che ne ha ridotto la reale complessità, ha inteso presentarla come il frutto di una malintesa interpretazione formale del carattere storico dell’intorno. La più vera lezione della torre dei BBPR è invece un’altra, per certi versi non dissimile dall’esempio pontiano del Pirelli, pur nei rispettivi e differenti orizzonti espressivi: il tentativo di declinare una tipologia, per eccellenza moderna, come quella dell’edificio alto, senza darne per scontata una caratterizzazione formale ormai globalizzata, nell’obiettivo di affermare la propria individualità creatrice. E il rapporto con la storia non è in nessun modo in contraddizione con questo assunto. Anzi, come afferma Rogers,«[…] il presente è, a sua volta, una creazione originale; ciò, invece che disintegrare la storia, la unifica in un sentimento di continuità dove il passato si proietta negli accadimenti attuali e questi si ricollegano radicandosi negli antefatti. Essere moderni significa semplicemente sentire la storia contemporanea nell’ordine di tutta la storia […]. Costruire un edificio in un ambiente già caratterizzato dalle opere dì altri artisti impone l’obbligo di rispettare queste presenze nel senso di portare la propria energia come nuovo alimento al perpetuarsi della loro vitalità»(9). Al di là delle generiche e approssimative definizioni con cui si è tentato di etichettare la Velasca – neogotica, neoliberty, neomedievale – queste parole chiariscono in che senso andrebbe interpretata la tanto celebre, quanto spesso travisata, teoria rogersiana delle “preesistenze ambientali”. Essa è piuttosto l’affermazione di un’estetica del tutto individuale, per certi versi brutale e “antigraziosa”, paradossalmente ben più spuria rispetto al contesto di quanto lo siano le algide forme del Pirelli. Il tentativo di arricchire lo skyline di Milano, secondo quell’andamento frastagliato tipico delle metropoli contemporanee, negli anni Cinquanta si arricchisce dei numerosi esempi già citati. Velasca e Pirelli possono essere considerati casi emblematici, proprio in virtù della loro alterità formale, ma certamente non esauriscono una ricerca che il professionismo milanese ha saputo declinare in innumerevoli modalità. Come tipologia rappresentativa per eccellenza del tumultuoso boom economico, i grattacieli si addensano nelle aree terziarie, spesso caratterizzando come segnali urbani, non alieni da intenti monumentali, snodi viabilistici importanti. È il caso di piazza Repubblica, punteggiata, sui quattro vertici, da altrettante torri. L’idea, ancora debitrice di una cultura urbana di matrice beaux-arts, era già stata adombrata negli anni Venti. L’impianto planimetrico del piazzale, informato infatti ad una rigida simmetria, intendeva marcare via Turati come monumentale ingresso al cuore della città per chi provenisse dalla neonata – e arretrata – nuova Stazione Centrale. Nei fatti, queste torri saranno tuttavia realizzate in un arco di tempo molto lungo. Ad eccezione della torre di Mario Bacciocchi (1936-1939), le rimanenti saranno edificate tutte nel dopoguerra, con un’adesione più esplicita al carattere modernista proprio di una zona eletta a city finanziaria della città. È il caso della Torre Breda di Luigi Mattioni (1950-1955) e, ultima in ordine di tempo, della torre di Giovanni e Lorenzo Muzio (1963-1967). Poco distante, in piazza Cavour, troverà posto l’Istituto Svizzero di Armin Meili (1947-1952). Un volume basso continuo sormontato da un corpo a torre: uno schema consueto, rinvenibile, oltre che nella Torre Breda, anche nell’edificio a destinazione mista di Piero Bottoni in corso Buenos Aires (1947-1949) e nella casa-albergo di via Corridoni di Luigi Moretti (1946-1951). Quest’ultima – fra le tre case – albergo realizzate da Moretti, assieme alle altre di via Bassini e di via Zarotto, forse la meglio riuscita – condivide con Meili un’estetica asciutta ed un’espressività concisa. Anche se in entrambi i casi le peculiari sensibilità dei rispettivi progettisti garantiscono un’adesione tutt’altro che acritica ai formalismi International Style, esse rappresentano pregevoli esempi dell’assimilazione in ambito milanese di stilemi schiettamente internazionali.

La figura di Luigi Mattioni rappresenta invece un caso emblematico: formatosi negli anni immediatamente a ridosso della seconda guerra mondiale, laureatosi con Piero Portaluppi, partecipa da protagonista alla VIII Triennale del 1948. Egli è insomma pienamente immerso in quell’ “ambiente milanese” che univa pratica professionale e impegno culturale (10). Ma, sul finire degli anni Quaranta, Mattioni imbocca decisamente la strada della professione a tempo pieno. Fra i suoi edifici più emblematici troviamo proprio due “grattacieli”: la già citata torre Breda e il centro Diaz (1953-1957), con l’alta torre posta ad ideale punto di fuga della Galleria. Egli è inoltre progettista di una serie di “Case alte”, riproduzione del modello sperimentato del grattacielo Breda, destinato ad un’utenza ad alto reddito, nella variante di torri residenziali per un’utenza media. Ne saranno realizzate diverse: il complesso Pollux in via De Amicis-via Caminadella (1952-1955), il complesso Elios in piazza Amendola (1952-1954), la torre Domus in viale Zara (1954), le torri in largo V Alpini (1960). In tutti questi casi «il linguaggio scarnificato dell’International Style serve a ridurre ulteriormente il costo di costruzione»(11). Nel momento in cui Mattioni sceglie di buttarsi a capofitto nel turbinio della frenetica attività edilizia caratterizzante il capoluogo lombardo, la sua figura tenderà a scomparire dal novero dei protagonisti della ricostruzione. La sua presenza sulla pubblicistica è scarsa, per non parlare dell’oblio a lui destinato dalle storie dell’architettura. Un destino curioso, se si pensa che «per quantità e per dimensione, i progetti elaborati dallo studio Mattioni tra il 1950 e il 1960 non troveranno alcun paragone nel panorama professionale di Milano». Il paradosso è a questo punto evidente: questa sorta di ostracismo da parte del professionismo impegnato avviene nei confronti di chi non aveva mostrato alcuna incertezza nel concepire la sobrietà formale del modernismo come fondamentale presupposto per un’architettura che fosse veramente “per tutti”. Il blocco a torre era la risposta più radicale e funzionale, coerente peraltro con quanto Pagano aveva sostenuto a proposito della scarsa salubrità di un’edilizia organizzata attorno a cortili chiusi e chiostrini, agli altissimi indici di densità previsti dai piani urbanistici degli anni Cinquanta. Mattioni aderisce senza riserve a tale modello, portando agli estremi la retorica della modernità che lo contraddistingueva: piano tipo  e modularità diventano l’occasione per sperimentare su larga scala i sistemi di prefabbricazione. Sono dunque figure come quella di Mattioni a incarnare l’ortodossia modernista, sia nei suoi esiti migliori che nelle inevitabili degenerazioni speculative. Ed è l’ambito residenziale a costituire un ulteriore campo di riflessione attorno al tema dell’edificio alto.

Se il ruolo di Mattioni è importante nel configurare il condominio modernamente inteso, il tema residenziale costituisce comunque un campo d’applicazione per diversi professionisti milanesi. Anche Piero Bottoni, pur nell’ambito di un esplicito impegno politico e sociale di tutt’altro segno rispetto alla frenetica attività professionale di Mattioni, aveva indagato le possibilità offerte da volumi a sviluppo verticale. Già nel QT8 (1947-1953) il corpo a torre o la stecca isolati erano stati ampiamente sperimentati, rappresentando la tipologia più adatta a evidenziare le potenzialità della “vita immersa nel verde”. Ma anche nel caso del blocco urbano Bottoni non rinuncia all’idea che lo sviluppo in altezza costituisca la risoluzione a molti dei mali della metropoli contemporanea: anche se caratterizzate da altri mondi espressivi e altri intenti rispetto ai casi sin qui esaminati, sono diverse le occasioni in cui Piero Bottoni si cimenta con il “grattacielo”. Fra i due più importanti occorre menzionare l’alta stecca in corso Sempione (1955-1957) e il blocco in corso Buenos Aires, progettato con Guglielmo Ulrich (1947-1949). Se la prima, ad esclusiva destinazione residenziale, solcata dalle lunghe balconature da un lato e inflessa e incisa dall’altro, conferisce al tema strutturale maggior importanza, la seconda è in linea con la compattezza geometrica di molti altri edifici di Bottoni. La torre di corso Buenos Aires, afferma il suo carattere di edificio a destinazione mista attraverso una chiara e compatta articolazione compositiva. Il consueto “piede” come espediente di mediazione con l’intorno urbano – la torre Breda di Mattioni, il Centro Svizzero di Meili e le case albergo di Moretti ne declinano in diverse forme le innumerevoli potenzialità – contiene un cinema, esercizi commerciali e uffici, mentre il volume sovrastante, pur ospitando anch’esso uffici, è destinato in gran parte ad appartamenti.

Per quanto riguarda una pratica dell’architettura piuttosto allergica alle declamazioni, oltre alla figura di Mattioni e di tanti altri professionisti, è scontato richiamare, come esponente di un understatement tipicamente milanese, la figura di Vico Magistretti. Il suo è un caso ancora diverso, concentrato su un segmento di clientela alto-borghese, anche se non bisogna dimenticare le  numerose sperimentazioni nel campo dell’edilizia sovvenzionata svolte nel corso degli anni cinquanta. Per quanto riguarda l’edificio alto, Magistretti ha lasciato poche ma pregevoli realizzazioni. Se negli anni Settanta, ormai spiccato il volo come architetto di riferimento della borghesia, egli ha potuto sperimentare fra i primi, in collaborazione con Caccia Dominioni, il nuovo tema della torre inserita nel quartiere suburbano di pregio come Milano San Felice, già dagli anni Cinquanta la sua ricerca aveva avuto modo di applicarsi alla “torre ad appartamenti”. In un rapporto molto simile a quello instaurato dalla già citata Torre Rasini con i Giardini di Porta Venezia, la Torre di via Revere (1953-1956) assume come dato progettuale imprescindibile il nesso visivo con il Parco Sempione. In tal modo il tema dell’edificio esclusivamente residenziale si presta a diventare strumento per reinterpretare la tipologia del grattacielo. Ed è ancora una volta l’intento, tipicamente milanese, di scongiurare la serialità del piano tipo, a riverberarsi sulla variata composizione dei prospetti. In questo caso, il già menzionato vincolo panoramico con il verde circostante, suggerisce ai progettisti di conferire alle logge un ruolo decisivo nella disarticolazione di un organismo altrimenti compatto in virtù delle sue stesse dimensioni. L’arcigna matericità della Velasca, la cui disposizione delle aperture risponde al medesimo tentativo di rendere leggibile la flessibilità interna della zona residenziale, anche se in modo meno esplicito a causa del preponderante effetto espressivo e “regolatore” dei costoloni verticali, cede il passo a una dialettica quasi paritaria fra pieni e vuoti. Ma l’obiettivo è chiaro: i vuoti, le aeree logge, le finestre di varie dimensioni, le squillanti tende rosse, i serramenti volutamente evidenziati, rubano la scena ai pieni, che nella loro levigata semplicità si ritraggono a sottolineare il carattere “abitato”, e dunque vitalmente variabile, di questa architettura. La Torre al Parco è dunque caso emblematico di come ancora una volta un tema “di rottura”, come quello del grattacielo, diventi occasione per sperimentare nuove modalità abitative, intrecciandosi però con una tradizione locale consolidata. Si tratta del noto e fecondo tema delle “logge” o “ville sovrapposte”: dall’archetipo della Casa alla Meridiana di Giuseppe de Finetti (1925), alle decisive sperimentazioni di Terragni e Lingeri con i condomini milanesi degli anni Trenta – fra gli altri, Rustici, Rustici-Comolli, Ghiringhelli – sino ad arrivare alle sofisticate variazioni sul tema di Ignazio Gardella, che negli anni Cinquanta saprà, con la casa di via Marchiondi (1951-1953) conferire un ulteriore grado di complessità al tema della residenza collettiva borghese. 

 

Federico Ferrari

 

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(1) Maria Antonietta Crippa, Il grattacielo dal secondo dopoguerra ad oggi, in Maria Antonietta Crippa, Ferdinando Zanzottera, Milano si alza. Torri, campanili e grattacieli in città, Istituto Gaetano Pini, Milano 2004, pp. 49-59.

(2) Ferdinando Reggiori, La casa-torre in piazza San Babila a Milano, in “Rassegna d’architettura” n. 5, 1937.

(3) Gio Ponti, La casa all’italiana, Milano 1933, pp. 42-43.

(4) Fulvio Irace, La casa sospesa, in Anni Trenta. Arte e cultura in Italia, (catalogo della mostra 27 gennaio-30 aprile 1982), Mazzotta, Milano 1982, pp. 217-221.

(5) Ibidem.

(6) Maria Antonietta Crippa, Il problema…, in Maria Antonietta Crippa, Ferdinando Zanzottera, op. cit., 2004, pp. 8-12.

(7) Fulvio Irace, Condominio milanese, in Fulvio Irace, Milano Moderna. Città, critica, architettura negli anni ‘50-’60, Federico Motta, Milano 1996, pp. 50-58.

(8) Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Bompiani, Milano 1944, p. 166.

(9) Ernesto Nathan Rogers, Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei, in «Casabella - Continuità»,  n. 204, febbraio-marzo 1945, ora in Ernesto Nathan Rogers, Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958.

(10) cfr. Guido Zucconi, L’opera di Mattioni nella Milano della ricostruzione, in Giovanna Alfonsi, Guido Zucconi (a c.d.), Luigi Mattioni. Architetto della ricostruzione, Electa, Milano, 1985, pp. 7-26.

(11) Ibidem.

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Riportiamo il video dedicato all'itinerario realizzato in collaborazione con la piattaforma MemoMi - La memoria di Milano 

BIBLIOGRAFIA GENERALE:

 

P. Bottoni

Antologia di edifici moderni in Milano

Editoriale Domus, Milano, 1954.

 

M. A. Crippa, F. Zanzottera

Milano si alza. Torri, campanili e grattacieli in città

Istituto Gaetano Pini, Milano, 2004.

 

F. Irace

Condominio milanese

in F. Irace, Milano Moderna, Federico Motta, Milano, 1996, pp. 50-58

 

F. Irace

La casa sospesa

in "Anni Trenta. Arte e cultura in Italia", Mazzotta, Milano, 1982, pp. 50-58

 

S. Maffioletti

La città verticale. Il grattacielo, ruolo urbano e composizione

Cluva, Venezia, 1990.

 

C. W. Condit

La scuola di Chicago. Nascita e sviluppo del grattacielo

Libreria editrice Fiorentina, Firenze, 1979.

 

G. Veronesi

L'architettura dei grattacieli a Milano

in "Comunità", n° 74, 1959, p. 86

 

P. C. Santini

Deux gratte-ciels à Milan

in "Zodiac", n° 1, 1957, p. 200-205