Dal 06.04.2016 al 06.05.2016
Giovedì 31 marzo si è svolto all'Ordine un incontro dedicato alla pratica di cantiere e la tutela del progetto moderno, attraverso la presentazione di 3 casi molto diversi tra loro. Proponiamo il video e una sintesi
Giovedì 31 marzo 2016, ore 21.15
via Solferino, 17 - Milano
Restauro del moderno a Milano
Tra pratica di cantiere e tutela del progetto d’autore
Negli anni l'Ordine di Milano ha dedicato al tema del restauro del moderno numerosi incontri; si tratta infatti di un tema controverso e di difficile generalizzazione. Per questo ci appare utile mostrare, attraverso esempi concreti, come sia la pratica che la tutela seguano strade spesso molto distanti tra loro, pur nell'intento comune di preservare al futuro importanti testimonianze del nostro tempo. Vediamo cosa è emerso dall'incontro del 31 marzo.
Appare utile tornare periodicamente a parlare di restauro del moderno, anche grazie alle segnalazioni che il nostro Ordine riceve dagli iscritti, poichè come sottolinea l'ottimo padrone di casa Paolo Brambilla - consigliere e segretario del nostro Ordine e per l'occasione moderatore della serata - far circolare le informazioni significa sensibilizzare e creare consapevolezza tra i vari interlocutori del processo edilizio.
Passano in carrellata alcuni efficaci esempi: nella villa von Saurma a Termini di Sorrento di Bruno Morassutti e Aldo Favini del 1962-64 vi è, nel recente restauro, un'approssimazione nei dettagli cruciali pensati dagli autori - in particolare l'attacco alla copertura del serramento vetrato - per non parlare degli arredi; la villa Carlevaro a Segrate del '70 è stata completamente stravolta; infine una villa del '68, segnalata da un iscritto, pare diventerà un Mac Drive...Il tema cruciale è quindi la comprensione di ciò su cui si lavora.
"La consapevolezza e conoscenza del progetto prima di tutto" diceva Cesare Brandi nel 1977 a proposito del restauro: gli obiettivi e le finalità devono anticipare l'azione.
Maria Vittoria Capitanucci, docente di storia dell'architettura al Politecnico di Milano e autrice del primo volume della nostra casa editrice Solferino edizioni, dedicato al professionismo colto del dopoguerra, riporta le parole di Cesare Brandi in Teoria del restauro del '77, più che mai attuali soprattutto per il moderno, dove la rifunzionalizzazione spesso stravolge l'originale. Magari con opere conclamate, come nel caso di Carlo Scarpa alla Fondazione Querini Stampalia o al Museo di Castelvecchio. Dunque, è proprio tutto da salvaguardare?
Dei casi studio oggetto della serata, quello della chiesa di Baranzate di Mangiarotti-Morassutti-Favini è stato un successo. Come racconta anche nel libro ad essa dedicato, edito recentemente da Electa, Giulio Barazzetta, docente del Politecnico di Milano ed autore del restauro, ritiene cruciale la particolarità degli autori, in particolare di Bruno Morassutti. Nel 2008 si è iniziato a parlare di un suo restauro (l'opera è stata vincolata nel 2003); Anna Mangiarotti e Tito Negri formano un team di lavoro che riesce ad arrivare alla realizzazione, conclusasi nel 2014; tutto nasce da una serata tenuta all'Ordine nel 2003.
Il lavoro compiuto sulle fotografie di Giorgio Casali è stato cruciale poichè basato sul principio di verosimiglianza. L'immagine che ha reso famoso l'edificio, fortemente rappresentativa, non dichiara in realtà la verità dell'edificio in quanto frutto di alterazioni, grazie a filtri e ad illuminazione artificiale. Nonostante ciò anche gli autori sono stati costretti a confrontarsi, seguendo a ritroso il percorso fotografico compiuto da Casali sul cantiere, grazie alla collaborazione di Marco Introini.
La chiesa è un edificio concepito con pezzi di ricambio, una copertura con sotto una vetrata; per molti aspetti, afferma Giulio Barazzetta, si è trattato di restaurare un effetto.
La chiesa fu oggetto di restauro da parte degli autori negli anni '80, dove le vetrate con il polistirolo vennero sostituite con del policarbonato alveolare di scarso filtraggio, che causò un difficile uso della chiesa per l'effetto serra cui era soggetta.
Nel 2004 inizia il progetto, si decide di eliminare qualunque materiale plastico, giungendo infine a una vetrata a quattro strati e tre camere, in cui lavorano filtri basso emissivi, esternamente bianchi su vetro rigato, onde evitare, come nell'originale, effetti di abbagliamento e bugnato all'interno. La sensazione è alla fine molto vicina all'originale anche se la materia è completamente diversa.
Il progetto di recupero dell'Istituto Marchiondi di Vittoriano Viganò è stata una vicenda di cui Simona Pierini, professore associato del Politecnico di Milano, ha vissuto per l'intero corso attraverso i suoi diversi gradi di negatività. Simona Pierini è autrice del progetto insieme al professore Massimo Fortis - allora direttore del dipartimento di progettazione del Politecnico di Milano - su incarico del rettore Giulio Ballio. L'esecutivo viene redatto tra il novembre del 2007 e il febbraio del 2012, quando il cambio di amministrazione della facoltà decide di accantonare il progetto.
Il progetto di Vittoriano Viganò fu inaugurato nel 1957 e venne abbandonato dal 1978 con la legge Basaglia (in parte era presente una ASL). Occupato abusivamente da rom a metà 2000, il complesso di edifici venne sgomberato nel 2009 con l'avvio dei lavori di progetto.
La struttura è in cemento armato a vista, con velette di 8 centimetri e dunque molti ferri scoperti e serramenti in ferro su disegno. Il progetto di restauro, strettamente conservativo per le parti di soggiorno e foresteria, prevede la rifunzionalizzazione delle cellule del dormitorio in adeguamento alla nuova funzione di casa dello studente.
Sono rispettate e mantenute le geometrie e dimensionamenti del c.a., coordinate dal professore Pier Giorgio Malerba, attraverso casserature - sul disegno originario! - e nuovo getto, mentre viene aggiunto un ascensore con l'involucro è rivestito in corten, a denunciarne l'alterità. Viene fatto un attento lavoro di documentazione tra rilievi, archivi, campionature e ipotesi, anche per gli arredi, per gli elementi di illuminazione e per le pavimentazioni in gomma. L'archivio fotografico Casali viene consultato per i colori, materia intrinseca al progetto originario, e per gli intonaci. Per i serramenti - originariamente in ferro presso piegato - con Foster si è trovata una soluzione di pari sezione ma maggior spessore. In vista dell'appalto il consiglio di amministrazione blocca tutto, portando così l'edificio in uno stato di degrado che ancora prosegue e difficilmente sarà recuperabile.
Dopo l'episodio negativo del Marchiondi viene presentato un caso recentemente assurto alle cronache. Le case di Cusago progettate da Renzo Piano nel '72 sono l'oggetto della presentazione di Simonetta Bernardi, architetto e committente dell'opera insieme ad altri tre gruppi di amici, e dell'architetto Ottavio Di Blasi, storico collaboratore dello studio di Renzo Piano.
La storia è figlia di quel periodo storico: un gruppo di amici acquista un lotto per edificare quattro case e affida l'incarico ad un giovane assistente di Marco Zanuso al Politecnico di Milano, fresco vincitore - insieme a Richard Rogers - del concorso per il Centre Georges Pompidou a Parigi. I soldi sono pochi ma la voglia di sperimentare è tanta. Attorno al centro abitato di Cusago sono presenti solo attività agricole; il gesto di Piano è netto sin da subito: degli elementi prefabbricati per la struttura e all'interno liberi tutti, a seconda delle esigenze di ognuno. Nel '74 il progetto vede la realizzazione: quattro volumi a pianta quadrata composti da copertura ventilata in travi reticolari continue, appoggiate alla muratura piena in vibrapack su due lati verso strada e i due lati verso il giardino in vetro e scorrevoli in glasal (eternit! smaltato) a tutta altezza. I volumi sono tutti uguali per facilitare la loro realizzazione in serie.
Oggi delle quattro case originarie ne sono rimaste solo due, di cui una in asta fallimentare. I due corpi demoliti hanno lasciato spazio a nuove costruzioni con maggiori indici volumetrici riconosciuti: delle case in stile con tanto di portichetto e cancelletti a lancia.
La difficoltà è che se anche scattasse un vincolo da parte della Soprintendenza aumenterebbero di fatto le difficoltà alla vendita, per cui il problema non sarebbe risolto. Se invece il vincolo è richiesto dall'autore, le pratiche per la tutela passano attraverso di lui; in questo senso Renzo Piano si è detto disponibile a dare una consulenza gratuita sulla progettazione per chi acquista la casa.
In generale, continua Ottavio Di Blasi, la rifunzionalizzazione fa parte della storia degli edifici. Viene mostrato il progetto per la sede B&B, sempre del '72, dove il sistema a travi reticolari viene ridipinto di grigio qualche anno dopo: per il soprintendente non sarebbe così ovvio, mentre per l'autore si può fare. Lo stesso accade per le case del '77 a San Luca di Molare per il fratello; alcune oramai sono dotate di tetto a falda.
A chiusura della serata interviene Andrea Canziani, membro dell’International Specialist Committee on Education and Theory di DOCOMOMO International, docente di restauro architettonico al Politecnico di Milano e architetto della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio della Liguria, che ritorna sul tema della consapevolezza del progettista. Si parte dalla storia, non solo del manufatto ma anche del contesto del tempo. Cruciale, se non voglio lavorare solo su una icona, la conoscenza ci libera dallo stereotipo legato all'icona, ma l'invecchiamento del moderno non si riesce a tenere, sempre consapevoli che si cancella qualcosa di autentico.
L'antico si è selezionato da solo, il moderno lo dobbiamo selezionare noi: qui la difficoltà, perchè si impone una scelta che farà la storia.
Ma come progettisti, soprintendenti o storici siamo in grado di compierla?