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Ma l'architettura non è feticcio

Dal 28.11.2008 al 28.11.2009

da il Corriere della Sera - NAZIONALE - sezione: Terza Pagina - data: 2008-11-28 - pag: 57 di Pierluigi Panza - Il nuovo libro di Vittorio Gregotti

Divide il nuovo libro del progettista. Dorfles: «Ripartiamo dall'invenzione»; Campos Venuti: «No, dalla politica»
Ma l'architettura non è feticcio
Gregotti: «Impossibile costruire se tutto è immagine o evento»

Più e più volte i solerti seguaci di Hegel hanno annunciato la «morte dell'arte», che poi l'ha sempre scampata. Ma di recente, in Italia, è il De profundis dell'architettura a tener banco, a man sinistra con l'antropologia apocalittica di La Cecla ( Contro l'architettura) e l'ambientalismo mistico-pop di Celentano; a man destra con la difesa identitaria anti-grattacieli di Berlusconi e del «ritorno ai valori» dei conservatori. Se La Cecla aveva diagnosticato il male dell'architettura nella sua «riduzione a griffe», e il curatore della Biennale, Aaron Betsky, aveva già liquidato la disciplina con un paradossale «gli edifici sono tombe», Vittorio Gregotti lancia invece un appello Contro la fine dell'architettura (Einaudi, pp.134, e 10), l'arte alla quale ha dato una vita.
Il cardiogramma che Gregotti fa alla disciplina ricorda in parte quello di La Cecla: il sistema delle comunicazioni ha fagocitato il vitruvianesimo, l'architettura è stata ridotta a oggetto d'arte, l'immagine prevale sulla composizione, lo stile formale sull'istanza sociale. Oggi il carattere di rappresentazione — pubblicitario e comunicativo — travalica l'analisi territoriale (la cosiddetta indifferenza al contesto) e ciò porta a una liquidazione generale dell'idea di opera. «Oggi è la riproducibilità alla diffusione dell'immagine, la moltiplicazione del suo valore espositivo » che conta, «e questo è precisamente il contrario di un atto di scelta politica. Sono questi valori che decretano il successo mediatico», denuncia. Al valore culturale, sociale e religioso delle opere si è sostituito «il solo valore espositivo che vanifica in modo diverso le specificità disciplinari», anche se bisogna sottolineare che già nel Settecento e nell'Ottocento l'attività espositiva era propria dell'arte. «Oggi le pratiche artistiche tentano di far coincidere con la nozione di comunicazione il tutto» (a dire il vero identificava l'architettura con la comunicazione il «semiologo» Umberto Eco in La struttura assente del '66) invece la nozione di comunicazione «è solo una componente». Tutto ciò spinge alla feticizzazione dell'architettura, dalla quale pensavamo di esserci liberati con L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin del 1936.
Ma come uscire da quello che appare a Gregotti un territorio di liquefazione? Partendo dalla definizione dell'identità disciplinare. L'architettura è «una pratica artistica del tutto particolare », afferma, «che vive sul crinale di diverse discipline», è caratterizzata «da tempi lunghi di realizzazione» e «richiede autonomia del progetto», punti cardinali del vitruvianesimo, questi, messi in crisi dal consumo «evenemenziale». La rifondazione va effettuata partendo da un «punto interno », che deve poi aprirsi verso le altre discipline (specie le tecniche assunte criticamente all'interno del progetto) mantenendo una sua autonomia.
E' una prospettiva possibile? «Una disciplina — diceva Michel Foucault in una Lezione al Collège de France nel 1970 — si definisce per un dominio di oggetti, un insieme di metodi, un corpo di proposizioni considerate come vere, un gioco di regole e di definizioni, di tecniche e di strumenti che si costituisce come una sorta di sistema anonimo»: ma oggi è ancora pensabile un recinto disciplinare fatto di invarianti e non di contaminazioni dissolutorie? Si possono pensare l'architetto come garante della genesi dell'opera; il labirinto, la capanna o il ponte come archetipi e l'edificazione come luogo del «disvelamento» grazie alla tecnica?
«Io credo che il lavoro di fantasia sia ciò che salva l'architettura e ciò da cui ripartire — afferma Gillo Dorfles —. Anche se talvolta scade come nei casi di Gehry. Liberarsi dal dogma della Razionalismo, ad esempio dal vetro e cemento come sua espressione, è stato positivo, come dimostra la Fiera di Milano realizzata da Fuksas, dove elementi come la tecnologia e la comunicazione hanno avuto ruoli fondamentali per differenziarsi dalla tradizione. Credo che sia possibile anche continuare a confrontarsi con gli elementi pubblicitari, ma solo nell'architettura transitoria». E aggiunge il 97enne Dorfles: «Anche il sovrapporsi della figura dell'architetto a quella dello stilista non mi disturba: il sapere sul quale non bisogna dimenticarsi di rifondare una disciplina come l'architettura è quello dell'inventiva ». «Sono totalmente d'accordo con Vittorio Gregotti — afferma invece l'urbanista Giuseppe Campos Venuti —: comunicazione e pubblicità hanno rovinato il mondo dell'architettura. Ma quello che più di ogni altro lo ha distrutto è la speculazione, alla quale l'architettura ha fornito anche una copertura, come dimostra ancora oggi il grottesco progetto City Life a Milano: l'architettura talvolta copre la speculazione e ciò avviene, naturalmente, anche per la comunicazione ». E aggiunge: «Non mi disturba la ricerca formale: Zaha Hadid ha grande forza; ma poi la disciplina risulta sempre subalterna sul piano pratico alla forza dell'economia, di un capitalismo che ormai punta solo sui valori d'uso e di scambio e mai sulla qualità: è così che un ipermercato diventa una pubblica piazza». Ma se si dovesse passare dalla diagnosi alla cura, Campos Venuti non pensa possibile alcuna rifondazione della disciplina: «Si deve combattere la patologia caso per caso sul piano politico e anche su quello comportamentale: basta con le archistar che si "prostituiscono" ».
Particolarità
«La nostra pratica artistica è caratterizzata da tempi lunghi di realizzazione e richiede autonomia del progetto» Pubblicità su un edificio di architettura moderna a Milano.
Qui a fianco Vittorio Gregotti. A destra (dall'alto): Gillo Dorfles e Giuseppe Campos Venuti

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