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L'Architetto, il senso di un mestiere

Dal 01.01.2008 al 31.12.2008

Torna un saggio ormai classico di Vittorio Gregotti che risale al 1966 e rispecchia tensioni e pensieri di quegli anni Erano gli anni d´oro del design industriale dal cucchiaio alla città


UMBERTO ECO

Pubblichiamo la prefazione di , finora inedita in Italia, all´edizione francese del 1982 del libro di Vittorio Gregotti "Il territorio dell´architettura". Il saggio del 1966 riesce domani per Feltrinelli (pagg. 196, euro 10).

Il libro di Vittorio Gregotti è stato pubblicato in Italia nel giugno del 1966: era stato scritto nel 1965 e riflette le esperienze degli anni precedenti. Se insisto su queste date non è per mettere in discussione l ‘attualità del libro: i problemi trattati mi sembrano ancora attuali, e l´autore probabilmente avrà poi apportato diversi aggiornamenti al testo. Il fatto è che questo libro, per le discussioni a cui fa riferimento, per il suo orientamento metodologico e la tensione interdisciplinare che lo anima, deve essere letto nel contesto del dibattito culturale italiano (e in larga misura "milanese") degli anni sessanta. Si tratta di un contesto che in parte può sfuggire al lettore francese, che potrebbe rischiare di essere vittima di certi effetti di trompe-l´œil. Per esempio, i riferimenti al dibattito strutturalista in corso allora in Francia o le allusioni alla possibilità di una semiotica dell´architettura potrebbero apparire il risultato di un opportuno aggiornamento di certi problemi "di moda ". Mentre questi riferimenti non sono che la naturale conclusione di un discorso più antico ed elaborato, e devono essere visti in una prospettiva precisa, che tenterei di definire secondo due assi della storia della cultura italiana del dopoguerra: 1) il sogno leonardesco dell´architetto degli anni cinquanta; 2) l´atmosfera interdisciplinare e critica della nuova avanguardia.

In apparenza questi due filoni procedono indipendentemente l´uno dall´altro. Il primo appartiene in effetti alla storia del pensiero e della pratica dell´architettura ed è davvero caratteristico del clima milanese, mentre il secondo è un fenomeno che ha riguardato la cultura italiana nel suo insieme. Ma vedremo che certi punti di congiunzione esistono, e che sono abbastanza evidenti.

L´architetto milanese del dopoguerra (e per architetto intendo anche l´urbanista, il disegnatore industriale così come il grafico pubblicitario e editoriale) è stato formato da maestri che, pure durante il periodo fascista, avevano costituito cenacoli di sperimentazione e di discussione critica di importanza considerevole. Già a quest´epoca, notiamo, tali cenacoli non erano formati soltanto da architetti: costituivano strani agglomerati di intellettuali che comprendevano un critico dell´architettura come Eduardo Persico, editori quali Rosa e Ballo (i quali in periodo fascista avevano introdotto in Italia autori come Brecht), storici del cinema come Luigi Rognoni che attraversava la città in bicicletta sotto i bombardamenti per salvare una pellicola di René Clair o di Renoir, e un gruppo di filosofi, anzitutto Antonio Banfi che, contro l´influenza dell´idealismo di Benedetto Croce (il quale dominava la cultura liberale centro-meridionale) da un lato e l´idealismo di Gentile, divenuto la filosofia quasi ufficiale del fascismo, dall´altro, discuteva con i suoi studenti e amici di temi come il marxismo, la fenomenologia di Husserl, le filosofie delle scienze. Questo polo di interessi era conosciuto sotto il nome di illuminismo lombardo (secondo una tradizione che risaliva al diciottesimo secolo - e non è un caso se, come vedremo, la prima rivista nella quale si sono presentati i teorici e gli scrittori della nuova avanguardia ha preso per titolo il nome di un illuminista di quest´epoca, ossia il Verri).

Gli architetti milanesi (e parlando di Gregotti bisognerà ricordare il suo maestro, Ernesto Rogers) nascono in questo clima e divengono nel dopoguerra gli interpreti e i critici di una borghesia industriale, di tendenza radical-socialista (mentre un filosofo come Banfi aderisce invece al Partito Comunista), che da un lato cercano di tenere conto dei problemi della scienza, della tecnica, della programmazione industriale, e dall´altro compiono la propria opera di ammodernamento della cultura visiva italiana conservando un rapporto molto stretto con gli artisti, gli scrittori, i filosofi. Si capisce perché un libro come questo, che parla di architettura, sia tutto costellato di riferimenti a Heidegger, Merleau-Ponty, Wittgenstein, Whitehead, Sartre. Non si tratta di interessi culturali personali dell´autore, bensì di un´attitudine diffusa, di uno stile intellettuale. A quell´epoca gli architetti si ritrovano a fianco Enzo Paci, un pensatore della scuola di Banfi, e occorre notare subito come buona parte della tematica del significato e del senso dell´architettura, che in questo libro si aggancia alle prime riflessioni di semiotica degli anni sessanta, nasca in un ambiente fenomenologico. Dietro la linguistica si trovano le Logische Untersuchungen di Husserl, dove il problema del significato (non solo linguistico) era già stato posto in maniera superba e che varrebbe ancora la pena meditare. Ho parlato prima del sogno leonardesco dell´architetto milanese del dopoguerra: l´ideale di un progetto totale che investa la società a ogni livello e di cui l´architettura sembra essere la via maestra. L´architetto milanese degli anni cinquanta riflette l´ideale rinascimentale dell´intellettuale completo, che cerca di armonizzare attraverso il proprio progetto tutti i problemi e tutte le risposte della cultura del suo tempo.

Utopia, certamente, i cui limiti sono delineati già nei libri di Gregotti (il 1968 non è lontano, l´architetto sa ormai che architettura e progetto non possono da soli cambiare il mondo).

Ma ciò spiega perché nel libro di Gregotti il problema architettonico si inserisca tanto nettamente in quello del territorio della città, del paesaggio, del tessuto regionale. L´architettura degli anni cinquanta non si poneva in genere il problema della "città ". Il territorio dell´architettura poneva, emblematicamente, fin dal suo titolo, la questione dei confini disciplinari. Di tutto ciò restano, negli anni sessanta, alcuni tentativi di comunicazione globale, di esplorazione teorica e sperimentale. In tal senso, voglio ricordare l´interessante esperienza in cui Gregotti e io abbiamo collaborato strettamente: la Triennale milanese del 1964. La Triennale era un´esposizione di arti applicate (erano, ricordiamolo, gli anni d´oro del design industriale italiano che, dalle automobili alle macchine per scrivere e ai posacenere, dal cucchiaio alla città, si stava imponendo nel mondo e lasciava i suoi prodotti, come opere d´arte, al museo d´arte moderna di New York), ma per quei tre anni il progetto fu più ambizioso. La Triennale doveva parlare (e non solo attraverso l´esposizione di oggetti e progetti infrastrutturali) dello "svago ". Era anche questo un tema utopista, tipico del boom del dopoguerra, la conquista del tempo libero come liberazione (o pausa) dall´alienazione del lavoro. Decidemmo, all´epoca della Triennale del 1964, di far accedere il pubblico alle esposizioni propriamente dette attraverso - come dire? - un percorso labirintico, una serie di condotti audiovisivi, dove l´architettura, le arti applicate, la pittura, la scultura, il cinema, la televisione si unissero in un discorso critico sull´idea di svago: si utilizzava l´architettura come progetto globale per discutere e chiamare in causa le utopie dell´architettura come progetto globale.

Persino artisti come Fontana costruirono camere di decompressione per astronauti da dove proveniva una voce che recitava testi di Marcuse (il quale non aveva ancora scritto L´uomo a una dimensione) ; c´erano percorsi decorati con un bricolage di Del Pezzo che mostravano su grandi quadri dei testi di Gramsci sulla situazione della società italiana; venivano proiettate diapositive che parlavano dei ritmi di lavoro; un luogo concepito da Baj serviva da contrappunto, attraverso specchi rotti e robot fantascientifici, a una serie di riflessioni di Schiller sul gioco.

L´architettura di Gregotti, fatta di scale e di specchi che moltiplicavano gli effetti visivi, serviva non solo a contenere il discorso critico, ma a produrlo. Il risultato, di cui non restano più che pallide testimonianze fotografiche, era un esempio di macchina audiovisiva integrale, dove l´architettura rappresentava appunto un modo di costruire il senso - e allo stesso tempo di mostrarne i vuoti, le assenze, le fratture. Vi avevano preso parte artisti e scrittori dell´avanguardia storica e della nuova avanguardia.

Eccoci arrivati dunque al tema della nuova avanguardia. Il movimento della nuova avanguardia italiana prende le mosse in gran parte nella cerchia milanese della rivista "Il Verri". In questo ambiente nascono i Novissimi, che costituiranno successivamente il nucleo del Gruppo 63. Alle riunioni del Gruppo 63 non partecipavano solo poeti e romanzieri, ma anche pittori, scultori, uomini di teatro e architetti, o per meglio dire un architetto: Vittorio Gregotti.

Anche questo mi pare un esempio del movimento di idee che ha pesato sulla storia dei rapporti tra le discipline. È in tale contesto che si è sviluppata una discussione sulla critica del linguaggio, sulla trasgressione linguistica come operazione di rottura sociale, e sulle scienze del linguaggio. "Linguaggio " era ancora un termine generale che si applicava tanto ai prodotti della lingua come a quelli dell´architettura. Ma è su questo sfondo che sono penetrate in Italia le prime ricerche di semiotica le quali - e si tratta di un fenomeno specificamente italiano - si sono ben presto e in larga misura orientate verso un´interpretazione semiotica dell´architettura. Studi e ricerche di questo genere erano già state realizzate in Italia prima degli anni sessanta, fondandosi sia sulla sensibilità fenomenologica sia sui testi della semiotica anglosassone: insomma, la prima semiotica architettonica in Italia si è ispirata a Husserl come a Morris, prima di far ricorso allo strutturalismo linguistico.

Questi dati consentono di meglio comprendere il clima nel quale Gregotti ha sviluppato le sue riflessioni sull´architettura come comunicazione, che nello specifico si trovano in due capitoli ma che attraversano tutto il libro. Può darsi che il problema del rapporto tra progetto e costruzione, e poi quello tra la costruzione come forma concreta e il suo significato, siano stati sviluppati più ampiamente in seguito. Un´idea tuttavia mi pare centrale in questo libro, un´idea che non è ancora stata esplorata sino in fondo dalla riflessione semiotica: sapere che l´architettura non deve essere affrontata come una grammatica, come un sistema di articolazione minimo, bensì come un testo, e un testo di cui fanno parte, in maniera difficilmente scindibile, l´edificio, il paesaggio, il tessuto urbano, l´intera dimensione territoriale. "La città non è più qualcosa di così chiaramente isolabile come un tempo; meglio sarà sottrarsi alla sua incerta definizione e far coincidere ambiente fisico totale di una regione formale e corpo linguistico. Tale regione o comprensorio formale [...] può meglio, nella sua globalità, offrirsi ad un´analisi in termini di strutturalismo linguistico ".

Si tratta di un´affermazione importante. Aggiungo subito che nel libro di Gregotti, per evidenti ragioni storiche, la nozione di "lingua " è ancora metaforica (l´autore lo sa e la usa con grande precauzione).

Oggi diremmo che il modello di una analisi della comunicazione in architettura non deve essere preso dalla lingua verbale, bensì presentarsi come modello semiotico più generale e "profondo". Resta però il fatto che tutta la storia posteriore della semiotica dell´architettura, che da allora si è molto sviluppata, non ha ancora trovato risposta a numerose delle domande già lucidamente poste in questo libro. E sarà anche un modo di rispondervi riprendere le domande nella formulazione che avevano qui.

la Repubblica, 10/1/08 pag. 38/39

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