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Settimana del 26 novembre 2007

Dal 01.01.2008 al 31.12.2008

La Repubblica
26-11-07, pagina 2, sezione MILANO
Il dibattito
E' il contesto che fa belli i grattacieli
Fulvio Irace*


A Milano quello dell' altezza è un morbo antico che risale agli anni in cui il grattacielo si chiamava ancora grattanuvole. Nel 1923, il primo sostenitore fu Benito Mussolini intervenendo a favore del progetto dell' architetto Arata per un colosso "all' uso americano" in via Leopardi, alle spalle di Cadorna: «Sempre più in alto deve essere la divisa potente dei costruttori moderni - scriveva il Duce sull' Ambrosiano - invece di deturpare i sobborghi milanesi con quella distesa di ridicole conigliere che umiliano gli uomini». Le perplessità rimasero e il grattacielo non si costruì, ma la smania di alzarsi non cessò di tormentare l' opinione pubblica e il dibattito degli specialisti. Se l' autore della Borsa, Paolo Mezzanotte, ne contestava ad esempio l' assurdità rispetto al modo di vita tradizionale e allo stesso pretesto dell' economicità, architetti e amministratori non smisero di sognare la modernizzazione di Milano che già nel 1937 punteggiava viale Vittorio Veneto, corso Venezia, piazza San Babila, corso di Porta Vittoria e piazza cinque Giornate di "audaci" costruzioni di 50 metri. Negli anni 50 Gio Ponti esaltava nella sua Guida di Milano Moderna la città " in quota" che alzava i suoi livelli con piazze-terrazze dalla Montecatini alla Torre Velasca. Lo stesso decano dell' architettura milanese - Luigi Caccia Dominioni - non ha mai nascosto il rimpianto per il mancato sogno di una manciata ben ordinata di grattacieli nel verde della cintura oltre il centro storico della città. Un' occasione mancata l' ha sempre definita, quella che avrebbe consentito a Milano di rimanere intatta nel suo cuore tradizionale e "spericolata" nei grattacieli "altissimi e bellissimi" del suo nuovo peace maker oltre i Navigli. Ciò che è accaduto invece è sotto gli occhi di tutti e a sentire le polemiche che si scatenano ogni volta che si esce fuori della norma, viene fatto di pensare a un peccato d' origine mai risarcito. Il grattacielo infatti - in Europa come in America - è fatto per dividere: ispira venerazione e timore, scatena ambizioni e paure. Può essere olimpico o orwelliano: dipende dai punti di vista. Se si analizza però la questione senza il filtro dell' ideologia o della mitologia, il problema rimane, ma può essere affrontato. La sua pertinenza, innanzitutto, a una visione strategica e complessiva della città, oggi di fatto contestata da una pratica urbanistica a pezzi e bocconi, che agisce sul caso per caso - oggi la Fiera, domani quella delle Varesine o di Garibaldi, etc. - come se fossero esperimenti senza legami col resto. Stare a discutere se un grattacielo sia bello o brutto è di per sé cadere nel gioco di chi sposta la questione dall' uso della città ai gusti del linguaggio. è chiaro che Milano ha vocazione e tradizione per volare alto (la città che sale non nacque qui?), ma il tema è dove e come. L' ostilità preconcetta al grattacielo è un atto di fede come rinunciare all' elettricità per l' ecologia. La discussione sulla legittimità di un certo grattacielo in una certa zona è invece un atto di responsabilità cui nessuno può sottrarsi. In primo luogo gli amministratori, evidentemente. *(docente di Storia dell' architettura contemporanea al Politecnico)


Sezione: arte architettura - Pagina: 046
(28 novembre, 2007) - Corriere della Sera
Indice *** MANUALE DAL CINQUECENTO A OGGI
Storia dell' architettura: cinque secoli d' imitazione


Cinque secoli di architettura europea raccolti in un manuale diviso in 25 capitoli, corredato da 700 fotografie di Patrick Giromini e alcuni approfondimenti tematici (chiamati «intersezioni»). È la Storia dell' architettura moderna in due volumi dello storico Giorgio Pigafetta, che si confronta, sin dal titolo, con alcuni «monumenti» della storiografia del settore, come quello di Bruno Zevi del 1950, quello di Leonardo Benevolo del 1960, evitando invece il confronto con la contemporaneità, le cui letture più tematiche restano ferme agli anni Settanta con Renato De Fusco, Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co. Se da tempo la storiografia architettonica schivava i grandi impalcati, Pigafetta mostra coraggio nel ritorno all' «enciclopedismo»; lo fa con una scrittura chiara, a tratti confidenziale e non solo per specialisti (il testo è senza note) leggendo alcuni aspetti del passato con gli occhi del presente, con quanto di attrattivo e anche di «eversivo» ciò comporta. Si rifiutano le periodizzazioni tradizionali (Rinascimento, Barocco ) e si assume quale la bussola l' elemento di più «lunga durata» tra quelli che hanno caratterizzato la metodologia progettuale: quello della «mimésis». All' esaustività dell' insieme fa riscontro una minor forza nelle «intersezioni» affidate a specifici curatori, che potevano adoperare uno stacco metodologico, presentando approfondimenti tematici meno esplorati. *** GIORGIO PIGAFETTA Storia dell' architettura moderna BOLLATI BORINGHIERI 2 VOLUMI PAGINE 938
Panza Pierluigi

Sezione: arte architettura - Pagina: 026
(28 novembre, 2007) - Corriere della Sera
Architetto Progettista della Fiera
Fuksas: è l' unico centro a saper cogliere il nuovo


MILANO - «Là dove c' era l' erba ora c' è una città»: e questa città è la Milano diffusa, spesso mal costruita. Ma il pezzo di città con la quale l' altra sera Adriano Celentano se l' è presa nel suo show televisivo non è questa, frutto anche di speculazione, ma quella che c' era prima di lui, ovvero la città dentro le mura o prossima ad esse e i nuovi interventi che qui si stanno conducendo. C' è molta nostalgia in Celentano per la «vecchia Milano» e nessun sforzo di comprensione per quella che «cambia per farsi migliore» (Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, 1956). «Ci sono molte amenità e ingenuità nel discorso di Celentano - afferma Massimiliano Fuksas, una delle nostre firme più conosciute nel mondo, progettista a Milano della nuova Fiera di Rho-Pero e politicamente collocato in area progressista -. La nuova Bocconi è un' opera moderna piuttosto interessante. Nel discorso di Celentano ci sono molte genericità contro gli architetti». Ma a lei la Milano che si va costruendo piace? «Ho letto che il sindaco di Tel Aviv parlava di opere a Milano che fanno parte della cultura internazionale. Intorno alla mia nuova fiera c' è molto consenso, è un luogo dove si sta bene. Milano sta facendo uno sforzo enorme di modernizzazione. È l' unica città italiana che può cogliere il moderno. Le altre città devono trasformarsi, Milano può provare a dare risposte». E le risposte sono «fatte di economia e di architettura. L' unico difetto è che Milano deve superare la fase dell' immobiliarismo e coniugare meglio pubblico e privato; si deve trovare una nuova sintesi economica». Il linguaggio formale delle nuove architetture che si contesta è, per Fuksas, «il linguaggio tipico della contemporaneità. Quella di Celentano è nostalgia, lui guarda a ieri. Inutile criticare all' infinito le uniche tracce che si propongono. Meglio criticare i grandi quartieri nati senz' anima dall' utilizzo di aree dimesse». Forse pensa alla Bicocca, ma non lo dice. Anche se siamo di fronte a un' architettura che è diventata quasi design. «Possiamo criticare i tre oggetti di Libeskind, Isozaki e Hadid, quelli di Cesar Pelli a Garibaldi, la Bocconi o quello di I.M.Pei per la Regione fin che vogliamo, ma fanno parte del linguaggio contemporaneo». Insomma, è inutile sognare città alla Oxford e Cambridge, «che poi sono dei falsi storici del periodo vittoriano» e quindi la costruzione di una città in stile vecchia Milano; magari con vere o finte riaperture dei Navigli. Il problema non è il moderno in centro, «ma come si costruisce fuori, ai margini della città: e lì che si costruisce su grande scala». E si costruisce male «anche per il groviglio di leggi. Le leggi italiane non permettono di fare nulla: bisogna sfoltire la giungla delle norme. Questa sì è scandalosa».
Panza Pierluigi

Sezione: scuola universita' - Pagina: 026
(28 novembre, 2007) - Corriere della Sera
Urbanistica La progettista Shelley McNamara: se la visitasse con me cambierebbe idea. Ma Sgarbi dà ragione al cantante
Bocconi, studenti e prof contro Celentano
Milano, polemiche sulle critiche in tv all' università. Salvemini: è una sede rock


MILANO - «Mr Celentano? I know». Shelley McNamara ha progettato la nuova sede dell' università Bocconi a Milano. Del molleggiato non ha mai ascoltato le canzoni. In compenso da ieri conosce il Celentanopensiero sull' architettura. «So che il vostro showman ha criticato il progetto. Peccato. Se potessi fargli vistare l' edificio di persona... Sono certa che cambierebbe idea». Insieme con Yvonne Farrell, Shelley McNamara è l' anima di Grafton Architects, la società che si è aggiudicata la progettazione della nuova Bocconi. Il fortino della ricerca di viale Bligny sarà inaugurato in primavera. Celentano e i milanesi per ora l' hanno visto solo dall' esterno. Quello che ha colpito i più è la quasi assenza di finestre. «La nostra esigenza era creare un ambiente protetto, in cui si lavori senza distrazioni», spiegano all' università. Celentano non vuole aggiungere nulla al suo pensiero catodico. La moglie, Claudia Mori, si permette una sottolineatura: «Il fatto che si stia parlando di un' università non è un dettaglio. La nostra responsabilità è formare i giovani al bello». Dal canto suo l' università Bocconi ha già ribattuto ieri attraverso il rettore: «Quello di Celentano è un parere tra tanti - ha detto Angelo Provasoli -. Mi sarei preoccupato se l' edificio non fosse stato funzionale ai bisogni degli studenti». Meno distaccato Severino Salvemini, direttore del corso di laurea in Economia per le arti: «La nuova sede è rock, peccato che Celentano non l' abbia capito - punzecchia il professore -. Questa costruzione è quanto di più avanzato ci si poteva aspettare dalla Milano degli anni ' 90». A sorpresa Mr Azzurro trova un alleato nell' assessore alla Cultura del Comune di Milano. Anzi, Vittorio Sgarbi va oltre: «Sulla Bocconi Celentano ha ragione. Tutti i nuovi progetti, da Citylife a Milano Porta Nuova, sono figli della vanità del modernismo architettonico. Per non parlare della Bicocca. E dell' arredo urbano: dalla distruzione di corso Garibaldi all' illuminazione di corso Como. A Milano l' ultimo progetto degno di nota è il Pirellone». A difesa delle scelte architettoniche della Bocconi si schiera il consiglio d' amministrazione dell' ateneo. «Non ha senso nessun giudizio estemporaneo - taglia corto Carlo Sangalli, presidente della Camera di Commercio cittadina (oltre che di Confcommercio) -. Anche perché abbiamo a che fare con una realtà che da sempre offre un contributo inestimabile alla modernizzazione del Paese». «Il bello e il brutto architettonico cambiano rapidamente e sono sempre opinabili - aggiunge Bruno Ermolli, presidente di Promos -. La Bocconi è invece una certezza, il che supera qualsiasi recente qualunquismo». L' ultima imprevista difesa arriva dagli studenti. «Bocciare la nuova sede? Non è il caso - smorza Giampaolo Lecce, rappresentante degli universitari in consiglio di amministrazione -. Bisogna dare una chance anche al bello che va oltre l' architettura più tradizionale».
Querze' Rita

Sezione: varie - Pagina: 027
(28 novembre, 2007) - Corriere della Sera
Intervista Il critico d' arte attacca i progetti del futuro
Dorfles: grattacieli balordi in una città senza coraggio


MILANO - L' ultima stroncatura l' ha distillata al Piccolo Teatro, davanti agli studenti delle università, in anticipo su Raiuno e Celentano. «Milano è rimasta indietro, ferma a quando era capitale morale, culturale e finanziaria, il riferimento dell' Italia moderna. La morale è scomparsa, la cultura è trascurata: ci resta la finanza. Ma i nostri mecenati sono un disastro, la città è disordinata, la classe politica non ha coraggio e i sindaci degli ultimi anni sono stati uno peggio dell' altro. Oggi, senza fare paragoni con Barcellona e Berlino, sono più attrattive Roma, Torino e Genova ». Non sta di qua né di là, Gillo Dorfles: lui Celentano non l' ha visto perché non guarda la tv e Letizia Moratti non l' ha mai chiamato per sentire un suo parere, al contrario di altri sindaci europei. Ma a 97 anni è il testimone storico di una città che dal Dopoguerra ha attraversato in ogni sua fase, come pittore, critico, esteta, filosofo dell' arte e del design. E quando legge sui giornali di Celentano che predica contro i progetti «che stanno rovinando Milano» dice che in qualche modo ha ragione, perché i parcheggi si fanno in periferia, in corrispondenza dei metrò, e i box in Sant' Ambrogio «sono una follia», ma non si può additare ad un sindaco la sommatoria di errori che viene da lontano, «come il teatro Arcimboldi», quello che per due anni è stato l' altra Scala e oggi appare una cattedrale nel deserto del quartiere Bicocca «nato nel posto meno indicato con una programmazione sbagliata». E i grattacieli, professor Dorfles, sono anche quelli un errore della Milano di oggi? «Di grattacieli Milano ha bisogno, ma non ne serve uno più balordo dell' altro come quelli progettati nell' area della vecchia Fiera, nel centro della città». D' accordo con Celentano? «No, i grattacieli vanno bene in certe zone. Possono stare nell' area Garibaldi-Repubblica, dove lo spazio è tanto. O nel quartiere di San Siro. La città ha bisogno di una nuova skyline, di un' impronta di modernità. Milano però non è Shanghai». Anche lei vede troppo cemento nel futuro di Milano? «Vedo tante distrazioni, tante cose inutili, la mancanza di una visione generale. Per esempio, a Milano manca un piano regolatore. Una volta gli stranieri venivano qui a studiare l' architettura. Oggi siamo noi ad andare fuori. La critica di un cantante può servire a qualcosa? «Quel che ha detto Celentano lo dicono da anni in molti, senza cadere nel catastrofismo. Ma nessuno li ascolta. È triste vedere la città che hai conosciuto per la sua vitalità cadere nella routine, nel conformismo. Eppure la Milano di oggi è così: invisibile, nascosta, clandestina». Allora l' allarme c' è? «Milano ha tutto per essere grande. Non è chiusa come Torino, non è estesa come Roma, non è disordinata come Napoli. Ma sta perdendo la sfida. A parte quel poco Naviglio stracarico, è triste vedere che non ci sono posti dove andare la sera. Non per gozzovigliare, ma per vedere quell' entusiasmo che trovi a Barcellona, o a Berlino, o a Parigi». Eppure le offerte culturali sono infinite, la programmazione teatrale è ampia, ci sono mostre, gallerie... «Milano offre una serie infinita di opportunità culturali. Ma nessuna di queste esplode veramente. Avvengono molte cose, ma restano lì. Milano è clandestina come nei suoi vizi, come nel consumo di cocaina: c' è ma non si vede. Il male è che è clandestina anche la cultura». Con tutto il can-can che fa Vittorio Sgarbi? «No comment. L' unica eccezione la faccio per la Triennale. È davvero rinata. Attira i giovani, si è ripresa un ruolo e uno spazio. A Milano c' è interesse per la cultura, ma non c' è un Museo d' arte contemporanea». Se ne parla da cinquant' anni. «Ecco, se ne parla e non si vede. È quasi ridicolo. Roma, Torino, Napoli ci hanno surclassato. Nei sotterranei di Palazzo Reale ci sono duemila opere già pronte, ma ancora una volta si è sbagliata la scelta della sede». Sarà a due passi da piazza Duomo, all' Arengario. «Un errore: allora era meglio una vecchia caserma, non un posto dove ci possono stare poco più di trecento dipinti. E gli altri chi li vede?». Celentano ha parlato anche di città brutta, ha criticato la nuova sede dell' università Bocconi. «Nel corso degli anni certe vie si sono imbruttite, inzeppate di cose inutili. Nelle capitali europee si toglie. Qui si mette. E scompaiono i negozi storici. Io difendo la nuova architettura, ma bisogna conservare gli elementi del passato che meritano di restare». C' è una Milano che butta via la sua storia? «Vedo l' incapacità di legare tradizione e innovazione. La Milano che cresceva, di cui si parla speso con rimpianto, univa queste caratteristiche: locali e globali. Il Piccolo di Grassi e Strehler è l' esempio più evidente. Era europeo e andava nelle periferie». Che cosa impedisce il vero rilancio? «Milano si è chiusa nel suo baricentro. I confini della città sono anacronistici, antistorici. L' amministrazione è concepita come se la città fosse quella del Dopoguerra. Invece c' è una metropoli di tre milioni e mezzo di abitanti. Finché non emergerà questo, e non ci saranno dieci linee metropolitane, Milano sarà in difficoltà». Qualcosa da salvare? «La nuova Fiera. È l' unica grande opera visibile, fatta da un grande architetto come Fuksas. Ma è poco». Pessimista o ottimista sul futuro? «Se penso al design, dove facciamo scuola nel mondo, o alla moda, sono ottimista. Ma se non si risolve il caos urbanistico, se non si punta sulla vivibilità e non si fa una scelta culturale forte, penso che in Europa resteremo indietro».
Schiavi Giangiacomo

Sezione: varie - Pagina: 052
(29 novembre, 2007) - Corriere della Sera
Le Corbusier e i suoi Dipinti in una Mostra ad Alessandria
la tavolozza di Le Corbu
La pittura, una passione tenuta segreta Nei quadri le intuizioni del grande architetto

«Sarà l' occasione buona per scoprire un aspetto di Le Corbusier messo in ombra dalla sua grandezza di architetto». Per Achille Bonito Oliva, uno dei curatori (con Erich Mouchet e Vincenzo Sanfo) della mostra che si apre il primo dicembre ad Alessandria, l' esposizione di Palazzo Monferrato rappresenta dunque un' opportunità unica per avvicinarsi all' universo di Charles-Edouard Jeanneret. «Le Corbusier è stato un' artista totale, quasi leonardesco che ha coltivato un rapporto continuo con il disegno, con la pittura - dice Bonito Oliva -. E in questo rapporto ha saputo trovare nutrimento costante alla sua ispirazione, ma anche disciplina, esercizio spirituale». Dalla Natura morta purista del 1922 al graffito di Cap Martin del 1937, dalla Donna e il toro del 1951 allo studio di scultura del 1962, dal Ritratto di Vonvon all' Icone au guéridon, dai dipinti ai collage (a cui Le Corbusier dedicherà «una buona parte del proprio impegno figurativo»), dalle litografie alle gouache: in questi lavori sempre contrassegnati dall' «uso gioioso del colore e dalla libertà delle forme» l' uomo che inventò «la machine à habiter» troverà così, durante tutti i suoi sessant' anni di attività «ininterrotta e feconda», anche «una valvola di sfogo e spesso un motivo di ispirazione per i suoi progetti architettonici». Casa Ozenfant, Ville Savoye, le Unità abitative di Marsiglia, la Cappella di Ronchamp, il convento de La Tourette, i palazzi di Cahndigarh: Le Corbusier è stato certamente uno dei grandi maestri dell' architettura, un maestro che nascondeva una grande passione per la pittura e per l' arte figurativa («nell' uso dei colori puri si avverte la lezione del neoplasticismo ma anche quella di un pittore come Léger»). Una passione che trova iniziale espressione nel legame con quell' Amedée Ozenfant con cui Le Corbusier fonderà il movimento «purista» che, derivato da una forma del tutto particolare di cubismo, poneva l' accento «sulla purezza delle forme e sulla loro incidenza formale». A questa esperienza si legherà anche la fondazione (con Ozenfant e Dermée della rivista d' avanguardia «L' Esprit Noveau»). «Meno nota, ma allo stesso modo importante», la passione per l' arte di Le Corbusier è alla base di una concezione del tutto personale dell' architettura e dell' organizzazione degli spazi, propria di una sensibilità derivata da interessi formali nati appunto «non all' interno delle scuole di architettura, ma piuttosto nell' alveo di quelle sperimentazioni e curiosità artistiche che hanno solcato il secolo scorso e di cui Le Corbusier si è fortemente imbevuto». E c' è anche qualcosa d' Italia in questo «amore» del giovane Charles-Edouard, nato in un piccolo paesino svizzero (Le Chaux-de Fonds): perché non solo il suo primo successo pubblico, a soli 15 anni, sarà un premio per un orologio da taschino presentato all' Esposizione di Arti decorative di Torino del 1902. Ma, nel 1907, ci sarà anche un Grand Tour che lo porterà per oltre due mesi a dividersi tra Milano, la Toscana e il Veneto. In qualche modo sarà proprio il successo, il fatto di essere diventato un «mito» già in vita, che costringerà Le Corbusier ad abbandonare, almeno all' apparenza, la pittura o almeno rendere «secondario» questo aspetto della propria creatività. Tuttavia, anche se in forma decisamene più intima e spesso riservata più agli amici ed estimatori che al grande pubblico, continuerà a coltivare questa passione riempiendo centinaia di fogli di schizzi e dipinti (molti dei quali oggi conservati alla Fondazione Le Corbusier) che finiscono per definire uno stile del tutto personale e riconoscibile. Uno stile che non nasconde le assonanze con Miró, Léger e con Picasso (a cominciare dalla contiguità di soggetti quali le donne e i tori che Bonito Oliva definisce «un omaggio all' eterno femminino ma anche ai miti della cultura mediterranea»). E che farà nascere le forme sinuose delle bagnanti, le nature morte, il ciclo dedicato ai Tori o gli straordinari carnet di viaggio. La mostra di Alessandria (che presenta anche alcuni oli su tela di grandi dimensioni, sculture e arazzi) celebra dunque «questo lavoro segreto, intimo, paziente ed ostinato» ma anche raccontando la «quotidianità» di questo amore continuo, quotidianamente coltivato nel segreto della sua «serra», a cui il grande architetto amava abbandonarsi «alla ricerca di una sua serenità e identità interiore». Ma i grandi dipinti e le sculture presenti in mostra sono la testimonianza della serietà con cui Le Corbusier affrontava questa sua passione di pittore, ma ancor più lo dimostrano le libertà comprese nelle centinaia di fogli che egli ci ha lasciato, intrisi di segni, colori, o solcati da sorprendenti collage. Fogli che, come spiegano i curatori, «nella loro capacità di essere non necessariamente opera finita, mantengono una spontaneità che ci fa comprendere il processo creativo del grande architetto e in cui possiamo ritrovare alcune delle sue grandi intuizioni».
Bucci Stefano

Sezione: arte architettura - Pagina: 055
(30 novembre, 2007) - Corriere della Sera
Compleanni Gli ottant' anni della progettista che conquistò Parigi con la Gare d' Orsay
Gae Aulenti, donne fuori dal ghetto
«Architetti al femminile? Difficile, ma siamo sempre di più»


A proposito della sua vita passata dice: «Ne ho viste davvero di tutti colori». Poi, lontana dalla snobberia di un Niemeyer centenario che si dichiara «solo sessantenne», aggiunge: «A questi miei ottant' anni ci penso in continuazione, è diventato un chiodo fisso». La speranza più grande? «Mi auguro che la testa tenga». Gae Aulenti, l' architetto che conquistò Parigi con la Gare d' Orsay, si prepara al suo prossimo compleanno (lo festeggerà martedì 4 dicembre) tenendo prima di tutto in esercizio la testa: con i libri («Ho finito con fatica Le benevole, preferisco la leggerezza della Sovrana lettrice di Bennett») e la matematica («il pensiero razionale ci aiuta sempre»). Ma soprattutto con il lavoro: esaurite le polemiche sull' Istituto italiano di cultura di Tokio adesso dal suo studio milanese affacciato su San Marco si occupa dei nuovi aeroporti di Perugia e di Aosta, del Lungolago di Meina. L' architetto Aulenti («Gae è il diminutivo di Gaetana, un nome che fu imposto da una nonna terribile, ma in casa sono sempre stata Gae») è stata una delle prime donne «vincenti» in un mondo molto maschile («della mia generazione eravamo solo in due: io e Cini Boeri») dove «la misoginia esiste ancora, ma fortunatamente sono aumentate le donne-architetto». Di Zaha Hadid, prima donna a vincere il Pritzker, dice: «Mi piacciono la sua volontà e la sua determinazione, un po' meno le sue architetture troppo astratte». E precisa: «Lei ha vinto il Pritzker, io il Praemium Imperiale, però c' è sempre tempo». Giacca verde su cui spicca il nastrino rosso della Legion d' honneur concessale da Mitterrand, pantaloni neri, golfino grigio, capelli corti e sigaretta sempre accesa: così si presenta al primo impatto l' architetto che ha ristrutturato le Scuderie del Quirinale e Palazzo Grassi, che ha ridisegnato Piazza Cadorna a Milano, che ha inventato oggetti cult come la lampada Pipistrello e il dondolo Sgarsul. Poi ti colpiscono quello sguardo attento e curioso, da ragazzina, e quel suo continuo tornare sull' idea dell' impegno politico, sulla necessità «di essere prima di tutto cittadini». Non a caso è stata a suo tempo (con Eco, Biagi, Guido Rossi, Umberto Veronesi) tra i garanti di Libertà e Giustizia. Del Partito democratico di Veltroni dice: «Serve a sbilanciare il centrodestra di Berlusconi, colpevole dell' attuale debolezza del nostro Paese». Mentre, andando indietro negli anni, parla del «craxismo che ha rovinato Milano». Il viaggio di Gae comincia da lontano: «La mia era una tipica famiglia borghese del Sud, un po' calabrese e un po' pugliese, fatta di professionisti, intellettuali, piccoli proprietari». Il padre sbarca prima a Palazzolo dello Stella (in provincia di Udine) dove Gae nascerà e poi a Biella. La guerra la porterà in collegio a Torino e Firenze: «Appena ho potuto ho scelto Milano e il Politecnico». Sono gli anni Cinquanta e il futuro architetto conosce Vittorio Gregotti, suo coetaneo, e tramite lui arriva alla «Casabella-Continuità» di Ernesto Nathan Rogers. «Mi fa ridere - dice - che i cinquantenni di oggi ci vedano come concorrenti. Anche Gardella, Albini, Rogers erano ingombranti ma noi li abbiamo ammirati molto e da loro abbiamo molto imparato. Questi cinquantenni, oltretutto, non sono nemmeno dei rivoluzionari e avrebbero tutto da guadagnare a non considerarci dei nemici». Lei, così defilata che ama Louis Kahn («ha saputo rendere leggibile la complessità»), cosa pensa delle archistar? «Sono il frutto dei nuovi linguaggi della comunicazione, io preferisco cercare l' essenza del progetto». In teoria non sarebbero nemmeno pericolosi: «Il brutto è che quando mi trovo nella giuria di un concorso ormai mi trovo davanti solo delle brutte caricature di Gehry». Gli stranieri accusano che in Italia è difficile fare architettura perché c' è troppa politica. Vero o falso? «Non è colpa della politica, ma delle nostra burocrazia imperfetta. Il mio progetto per il Museo di Barcellona è andato avanti per diciotto anni, sono cambiati i governi ma nulla è cambiato, da noi non sarebbe potuto mai succedere». Lei, grande divoratrice di libri più che di film, è sicura che i giovani non leggono abbastanza o meglio che leggono solo al computer, «una lettura breve, dove manca la parte analitica». Definisce l' esperienza con Luca Ronconi (dall' Anitra selvatica al Viaggio a Reims) «splendida, perché mi ha arricchita moltissimo, in fondo in architettura una porta è solo una porta, sulla scena è molto di più, è un limite o un confine». Eppure, nonostante le fantasie pensate per Ronconi (la tavola sospesa dello Zar Saltan), continua a preferire la realtà e la continuità, come cittadina e come architetto. Proprio la sua voglia di concretezza la spinge a dire, a proposito dei Grandi concorsi: «Non si può far vincere un gruppo solo perché offre un prezzo superscontato. Prenda la nuova Fiera di Milano, il progetto più bello era quello di Piano, si è premiato invece il progetto più "lontano" dalla città. E solo perché costava meno».
Bucci Stefano

La Repubblica
01-12-07, pagina 1, sezione MILANO
L' intervento
Più dei consulenti servono gli impiegati
JACOPO GARDELLA


L' imbarazzante indagine sul sindaco di Milano, Letizia Moratti, è grave non tanto perché sono stati attribuiti incarichi di consulenza in numero eccessivo e non chiaramente giustificati, quanto perché alcuni settori vitali dell' apparato comunale sono ancora carenti e malfunzionanti in modo preoccupante. Che siano stati ingaggiati professionisti esterni all' organico del Comune, per risolvere problemi che dovrebbero essere di ordine eccezionale, non deve destare reazioni scandalizzate: può accadere che in particolari momenti della vita di un Comune siano richiesti personale e tecnici specializzati. SEGUE A PAGINA X Ciò che stupisce e indigna è la constatazione che alcuni normali uffici, destinati a essere in immediato contatto con il pubblico, sono in realtà sguarniti di personale adeguato e tuttora vergognosamente carenti. Ultimamente a Milano si sono verificati inauditi episodi di malcostume edilizio: in molte zone della città sono apparsi progetti sconcertanti per volume e per configurazione architettonica. Così come in molte zone si sono abbattuti senza pietà alberi secolari su aree destinate a futuri parcheggi. Le proteste dei cittadini, le lettere dei comitati di quartiere, i comunicati dei volonterosi non hanno avuto alcun effetto. Se qualcuno si rivolge a un ufficio comunale per avere delucidazioni, che gli spettano per legge, incontra atteggiamenti ostili o assenti; e trova un' esasperante indolenza nel fornire i dati richiesti. Perché questi vengono negati sistematicamente ai cittadini? Il sindaco, invece di arruolare tanti costosissimi dirigenti e consulenti, non avrebbe fatto meglio ad accrescere il numero degli impiegati seduti negli uffici a contatto con il pubblico? Le carenze dell' amministrazione comunale diventano ancora più gravi se si pensa che Milano è un città caotica, governata malissimo, e in grave ritardo organizzativo rispetto al resto dell' Europa: ciononostante ha l' ambizione, anzi la presunzione, di candidarsi per l' Expo 2015. Lo stesso disprezzo per il costume democratico che si nota nel modo di comportarsi con i cittadini, lo si riscontra nel modo di concepire l' organizzazione dell' Expo. Il sindaco chiede di essere nominato commissario con pieni poteri: perché? Un' esposizione non è un alluvione, né un' epidemia; è una normale manifestazione che può essere prevista in tempi adeguati e gestita con organi democratici. Con quale legalità, o meglio con quale prepotenza, viene fatta per l' Expo la richiesta di un commissario straordinario?


Sezione: enti locali comuni - Pagina: 007
(1 dicembre, 2007) - Corriere della Sera
Questione Cascinazza
Monza approva il piano regolatore


Ci sono voluti 36 anni, ma alla fine Monza ce l' ha fatta: ieri mattina alle 3 il Consiglio comunale ha votato il nuovo Piano di governo del territorio. Casa delle Libertà e minoranza di centrosinistra hanno votato compatti: 40 votanti, 40 sì. Al centro resta la questione Cascinazza, l' area sottoposta a vincolo agricolo dove Paolo Berlusconi vorrebbe costruire quasi 400 mila cubi di residenziale. Roberto Scanagatti, capogruppo in Consiglio dell' Ulivo per Faglia, ride divertito: «La giunta - commenta - ha già annunciato che elaborerà una variante per cancellarlo ma allo stato attuale la situazione è questa». Il sindaco Marco Mariani e l' assessore all' Urbanistica, Paolo Romani, hanno inserito nella delibera il più classico dei codicilli: un mandato alla giunta di elaborare una variante. Anzi, una maxi variante che raccoglie le osservazioni (fra le quali compare anche Cascinazza) che sono state lasciate fuori. La strada tracciata dal primo cittadino è quella dell' urbanistica negoziata. «Non ce ne facciamo niente di aree agricole o di campi di patate che non possono essere utilizzati dai cittadini - presica Romani -. Il Comune ha bisogno di parchi attrezzati, asili nido e molti altri servizi. Quindi, se qualche imprenditore ha dei progetti validi bisogna solo trovare il giusto equilibrio fra le rispettive esigenze». Riccardo Rosa
Rosa Riccardo

La Repubblica
01-12-07, pagina 11, sezione MILANO
Due palazzi al posto del parco citato nei Promessi Sposi
Addio al giardino del Manzoni
Monza toglie il vincolo storico al luogo dove la monaca tese la trappola a Lucia
GABRIELE CEREDA


A Monza spariranno il giardino e il convento citati nel capitolo 20 dei "Promessi Sposi" e tutelati da un vincolo storico. è una delle conseguenze dell' approvazione del Piano di governo del territorio (Pgt), avvenuta nella notte tra giovedì e venerdì, in una seduta fiume del consiglio comunale. La giunta di centrodestra ha accolto l' osservazione che dà il via libera all' edificazione di due palazzi, di quattro piani ciascuno, nello storico giardino del convento dei Cappuccini citato da Alessandro Manzoni. Varato dalla precedente amministrazione di centrosinistra, il Pgt è stato votato all' unanimità, nonostante la maggioranza abbia sottolineato di aver espresso un parere favorevole «solo turandosi il naso». Il patto di non belligeranza stretto con l' opposizione prima di andare al voto è durato solo qualche ora. La spaccatura è arrivata sulla decisione di permettere l' edificazione di 10.000 metri cubi di appartamenti nei giardini di villa Cappuccini, tra via Marsala e via Mauri. Il convento è citato nel XX capitolo dei "Promessi Sposi", dove la monaca di Monza dice a Lucia: «Ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de' Cappuccini che v' ha condotta qui da me», tendendole in questo modo una trappola. Lucia, che aveva ricevuto la raccomandazione di non uscire perché avrebbe corso dei pericoli, va a chiamare il frate del convento di via Marsala, ma viene rapita dal Nibbio e condotta al castellaccio dell' Innominato. Nell' ultimo secolo, senza cambiare la struttura originaria, il convento è stato trasformato in una residenza che racchiude una decina di alloggi. Ora se ne affiancheranno più del doppio, spazzando via i giardini, che fino a ieri erano classificati di interesse storico. «Non si capiscono i criteri con cui è stata accettata questa modifica - commenta Roberto Scanagatti, ex vicesindaco e capogruppo del Pd - . Non c' è interesse pubblico nella trasformazioni di alcune aree d' utilità pubblica o interesse storico, in zone edificabili con un indice al massimo del consentito». La giunta ha giustificato la scelta compiuta commentandola con un generico «intervento necessario». Il Pgt, che aggiorna il piano Piccinato del 1971, prevede inoltre per la Cascinazza, l' immensa area di proprietà di Paolo Berlusconi accusato di volerci fare una maxi-speculazione edilizia, una destinazione agricola che la toglie dal mercato. Ma per poco. La giunta infatti, per bocca dell' assessore all' urbanistica Paolo Romani, ha fatto sapere di avere in mente «sostanziali varianti al Pgt». In sostanza per il centrodestra approvare il piano degli avversari politici «è stata una scelta politicamente difficile. Un rospo che abbiamo ingoiato. Ma non ci fermiamo qui: entro un anno sarà pronta la variante che coinvolgerà alcune delle aree strategiche della città stralciate dal Pgt. Da lunedì, la direzione delle nostre decisioni urbanistiche sarà diversa da quella adottata in consiglio». I 55 ettari a sud-est della città di proprietà della Istedin di Paolo Berlusconi potrebbero intanto passare di mano: in pista per l' acquisto ci sono i Limonta, proprietari della "Centro Edile", e Francesco Rocca, sovrano brianzolo dei calcestruzzi.

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