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Amato a New York, snobbato a Salerno

Dal 30.06.2008 al 30.06.2009

Intervista a Frank O' Gehry, fresco vincitore del Leone d'Oro alla carriera alla Biennale di Venezia

Intervista: Parla l'architetto che con il Guggenheim di Bilbao ha cambiato la storia. Il suo grattacielo segna la rinascita dopo l'11 settembre

Frank O. Gehry: incredibile, mi hanno usato per farsi pubblicità sul «termovalorizzatore opera d'arte»

LOS ANGELES — «Sono cresciuto prendendo come modello le archistar del mio tempo: si chiamavano Le Corbusier, Alvar Aalto, Frank Lloyd Wright. Quello che sono oggi, lo devo anche a loro. Se possono spingere un giovane architetto a migliorarsi, ad essere sé stesso, ben vengano le archistar». Poi precisa: «Naturalmente, quando parlo di archistar, non parlo certo di me». L'incontro con Frank O. Gehry, probabilmente l'architetto più conosciuto del mondo (tanto da finire persino tra i Simpson) nonché freschissimo vincitore del Leone alla carriera della prossima Biennale di Venezia, comincia con una difesa a sorpresa di una categoria, quella appunto delle archistar, sempre più spesso nel mirino per atteggiamenti, costi, progetti: «Se oggi si parla così tanto di architettura — dice — è merito anche loro». Gehry, divo

malgré lui, è un ometto piccolo, vestito molto semplicemente in maglietta e pantaloni blu da lavoro. Ha i capelli bianchi, porta occhiali da vista leggerissimi che però nascondono uno sguardo chiaro che ti attraversa come un laser. Nato a Toronto (Canada) il 28 febbraio 1929 da una famiglia di origini ebraiche, si chiama in realtà Ephraim Owen Goldberg, poi trasformato in Frank Owen Gehry nel 1954 dopo la nascita della prima dei suoi quattro figli avuti da due mogli («per evitarle la vita dura che io avevo provato » ha più volte detto).

Tutti o quasi hanno imparato a conoscerlo grazie al suo progetto per il Guggenheim di Bilbao, inaugurato nel 1997, quando Gehry (comunque già premiato con il Pritzker nel 1989) non era più un giovanetto. Da allora, nell'immaginario collettivo, l'architettura moderna sembra dividersi in due epoche: «prima » e «dopo» il Guggenheim. Un progetto rivoluzionario che ha trasformato una piccola, e nemmeno tanto bella cittadina industriale dei Paesi Baschi, in uno dei luoghi cult del turismo di massa (un milione di visitatori all'anno solo per il museo) mentre dopo Bilbao il contenitore (il museo) è spesso diventato addirittura più importante delle stesse collezioni. Logico quindi tornare a parlare con Gehry (che si è appena cimentato con i gioielli per Tiffany, presto lo farà con le barche) proprio di Bilbao: «Se dovessi trovare una spiegazione a questo successo non saprei darmela nemmeno oggi. Penso che nessuno, all'epoca, si sia minimamente reso conto delle potenzialità del Guggenheim».

Oggi lo rifarebbe? «Chissà. Perché, vede, mi chiamano per lavori sempre molto importanti, ma raramente c'è una seconda volta» (a quanto pare glielo diceva spesso anche il suo amico Peter Sellers). Forse i suoi progetti sono impegnativi? «Quali non lo sono?». È successo così dopo Bilbao: non a caso l'appena annunciato nuovo padiglione che sorgerà nella riserva naturale di Urdabai non sarà firmato da Gehry (che però si sta occupando del nuovo Guggenheim di Abu Dhabi liberamente ispirato alle «torri del vento» degli antichi arabi). E Gehry teme succederà anche a Los Angeles nonostante la già visitatissima «icona» della Disney Hall inaugurata nell'ottobre 2003 (lui avrebbe voluto farla in pietra perché «di acciaio poteva sembrare un frigorifero », alla fine hanno vinto i committenti).

Ed ecco che, a proposito dei cattivi rapporti con le committenze più o meno pubbliche, entra in gioco l'Italia, dove Gehry non ha praticamente mai lavorato («per la Biennale — annuncia — ho progettato una porta d'acqua che collegherà la città all'aeroporto»). Basta, appunto, parlare del termovalorizzatore di Salerno e il sempre tranquillo Gehry («non si fidi — aveva appena detto — è solo apparenza») si infuria: «Lo scriva, mi hanno convocato, hanno chiamato i fotografi per annunciare che l'avrei progettato io, poi più nulla. Si sono solo fatti pubblicità sfruttando il mio nome». Niente più speranze, a quanto pare, di vedere una «Salerno come Bilbao».

Nel suo studio di Los Angeles, tra Santa Monica e il Lax (l'aeroporto internazionale), l'Italia fa così «bella figura» soltanto quando si citano «modelli eccellenti » come Borromini o Bernini e «carissimi amici » come Bruno Zevi, Ettore Sottsass, Francesco Dal Co (autore dell'unica monografia in lingua pubblicata a suo tempo da Electa Mondadori). «I love Italy» dice banalmente, ma nel vecchio magazzino della Cloverfield (ristrutturato nel 1996) si sta lavorando ad altro. Ad esempio al Padiglione della Serpentine Gallery di Londra, l'installazione provvisoria che verrà inaugurata nei giardini di Kensington il prossimo 20 luglio: legno e vetro per «qualcosa di più di un semplice anfiteatro». Non c'è davvero niente di eclatante in questo edificio molto semplice dall'intonaco grigiastro. Affacciato su una strada leggermente in salita piena di macchine («quella Porsche non è la mia» si affretta a precisare), poco lontano da un grande magazzino che propone «californian style» per tutti e da un negozio di «delicious» che offre breakfast burritos, cappuccino e insalata Sopranos. Sorprendente è invece la folla giovane e multirazziale (duecento persone in tutto, c'è anche uno dei suoi figli impegnato nella realizzazione di un modellino per il nuovo museo d'arte contemporanea di Parigi, al Bois de Boulogne) che si ritrova dietro un portone che in realtà è solo una tenda, tra maquettes, disegni, fotografie del «Gehry che verrà», da Mosca a Filadelfia («sono tanti progetti, ma sempre meno di quelli del mio amico Piano»).

E poi ci sono le opere d'arte che testimoniano lo stretto rapporto intrattenuto ieri con Jasper Johns, la Pop, Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen (insieme a loro ha realizzato il Chiat Building) e oggi con lo scultore Peter Alexander e con il pittore Chuck Arnoldi («la mia architettura deve molto anche a loro »). E le fotografie, a cominciare da quelle che tappezzano lo studio privato di Gehry (tutto a vetro) affollato dal prototipo della sua poltrona di cartone (la

Little Beaver di cui però finge di non ricordare il nome) e da ninnoli vari (un pesce di legno, il modellino di una coppa disegnata per i California Lakers). E ancora quelle con l'appena scomparso Sydney Pollack, regista di Sketches of Frank Gehry («un vero amico» dice commosso); con un'altra «archistar» come Philip Johnson («lo riconosce?» domanda con orgoglio); con Esa Pekka Salonen direttore della Los Angeles Philharmonic Orchestra («era un ragazzino quando l'ho incontrato»). Perché tanta modestia, almeno in apparenza? «Forse sono le mie radici canadesi che mi spingono a stare tranquillo, a rimanere sempre sottotono. Ma le ripeto, non si fidi». Un consiglio ai giovani che l'hanno preso a modello: «Quando mi capita di incontrarne, metto la mia firma su un foglio di carta, poi faccio mettere la loro e dico "non copiate la mia, date dignità alla vostra"».

Se è vero che qui vicino (a Downtown) c'è la Disney Hall simbolo del «decostruttivismo alla Gehry», in questo studio c'è un altro Gehry: quello che dopo la prima diffidenza ti fa amabilmente visitare lo studio o quello che ti parla della seconda moglie («conosce lo spagnolo, sicuramente un po' di italiano lo capirà»). Per fortuna questo studio pieno zeppo di cose e persone, ti racconta come anche per Gehry ci sia stato un «prima di Bilbao». Quando, ad esempio, andava contro al rigore del Movimento Moderno, scatenando l'ira dei vicini con la sua prima casa a Santa Monica (così sventrata, sgangherata e oltretutto trasparente rovinava il paesaggio).

Come vede il futuro della politica il quasi ottantenne Gehry: «Per chi voterò? Per Obama, senza esitazione ». I suoi progetti più recenti a New York (città che gli è stata a lungo ostile) sono stati visti come diversi, addirittura «low profile», quasi austeri. Dalla Iac (palazzo per uffici sulla 19esima West a Chelsea) alla Beekman Tower (in fase di costruzione) che il critico del New York Times ha definito «il primo segnale che la Grande Mela ha finalmente superato la paura dell'11 settembre» («Le sembra austero questo? » dice, con un mezzo sorriso, esibendo proprio il modellino della Beekman Tower). Eccolo, dunque, l'uomo che ha cambiato l'architettura che gioca ancora una volta a fare il modesto: «Perché sono l'architetto più famoso del mondo? Non lo so. E poi, mi creda, è solo l'illusione di un momento, poi passa». Sembra quasi voler dire: per fortuna.

Mi fanno fare progetti sempre molto importanti, ma raramente c'è una seconda volta È successo dopo Bilbao, è stato così anche dopo la Disney Hall Il modellino per la Beekman Tower di Gehry a New York: il via libera al grattacielo è il segnale di una recente passione della metropoli per l'architetto dopo una lunga ostilità

STEFANO BUCCI

Corriere della Sera

data: 2008-06-30 num: - pag: 29

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