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Settimana del 4 maggio 2009

Dal 11.05.2009 al 13.05.2009

Ecco la consueta rassegna stampa settimanale dei principali quotidiani nazionali

Contratti Nuove regole per le opere sponsorizzate. Mura Spagnole, verso il rinvio della fine cantieri
Restauri, stop agli appalti lampo «Gare pubbliche per 5 monumenti»
Controlli sulla pubblicità e «oblò» per verificare i lavori

Stallo. Il calendario dei lavori è al giorno zero: in attesa delle «delucidazioni richieste al ministero per i Beni culturali», il Comune ha «sospeso» i progetti di restauro di cinque dei dieci monumenti affidati alla società Impredcost. Finché Roma non risponde, in sintesi, non partono le autorizzazioni per gl’interventi di recupero sulla statua a Vittorio Emanuele in piazza Duomo, sul Missori a cavallo, su Napoleone III nel Parco Sempione, sul monumento a Cavour e sulla fontana di San Francesco in piazza Sant’Angelo. La decisione è stata presa dall’assessore al Decoro urbano, Maurizio Cadeo, su proposta della stessa Impredcost. Ma l’accordo prevede già una svolta di sostanza: i poster sui ponteggi, se e quando i cantieri dovessero partire, saranno venduti sulla base di una gara bandita da Impredcost, controllata dal Comune e aperta a tutte le imprese del settore. Addio, dunque, alle procedure lampo. Di più, assicura Cadeo: «Saremo noi a valutare la stima pubblicitaria e a vigilare sugli inviti alle ditte».
È l’ennesimo atto di un appalto controverso, annunciato dal Comune il 3 luglio 2008 e martellato dalle polemiche. Il sistema è semplice: i privati restituiscono l’arte alla città (a costo zero per i cittadini) e in cambio fanno affari con i teloni pubblicitari sui cantieri. Impredcost, grazie a una convenzione con il ministero («Progetto monumenti Italia») ha ricevuto una lista di dieci statue (poi modificata) da rimettere in sesto. Due interventi sono finiti (Musocco e Colonna di San Pietro Martire). Altri tre sono in corso: la statua a Garibaldi in Cairoli, Cesare Correnti e la fontana di Aldo Rossi in via Croce Rossa (non presente nella prima lista). Il restauro dei cinque monumenti mancanti è previsto nel 2010: Impredcost non ha ancora richiesto le autorizzazioni.
Il documento che ha riaperto la vicenda è datato 3 aprile. È una lettera con cui il ministero risponde ai dubbi dell’Associazione grandi impianti pubblicitari riguardo alla convenzione «Progetto monumenti Italia». Si legge che la direzione dei Beni culturali, «al fine di procedere » alla «sospensione dell’efficacia della Convenzione», ha «chiesto alla Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di pronunciarsi in merito». Il Comune aspetta proprio la decisione dell’Autorità prima di «sbloccare » gli ultimi cinque monumenti. Mentre i tre cantieri già aperti proseguono sì i restauri, ma con una correzione: l’impresa dovrà aprire alcune finestre tra i ponteggi. Oblò con vista sui lavori, Cadeo? «È una questione di trasparenza e correttezza ». Non basta. L’elenco comunale dei «monumenti bisognosi di restauro» conta 14 opere non inserite in questo lotto: «L’idea — annuncia l’assessore — è di fare una gara comunale per tutte le statue». Una svolta. E un ritardo. Il restauro delle Mura spagnole e dell’Arco di Porta Romana avrebbe dovuto concludersi a maggio, da convenzione tra Palazzo Marino e Tmc Pubblicità. Problema: il Comune ha chiesto alla società di eseguire nuove opere per circa 300 mila euro (dalla copertura dello sterrato delle terme di piazza Medaglie d’Oro alla recinzione dell’area). Giovanni Mongini, procuratore di Tmc, avvisa Cadeo: «Niente lavori senza nulla in cambio». In sostanza, la società chiede la «proroga » fino a dicembre delle concessioni per i 46 megaposter sulle strade e un mese in più per la pubblicità sull’Arco: «I lavori saranno finiti tra fine giugno e metà luglio». Oltre la scadenza della convenzione, dunque. Per questo Cadeo frena: «Serve una delibera di giunta, le autorizzazioni pubblicitarie non possono superare la durata dei lavori». Altro stallo.
Armando Stella

Lunedì 4 maggio 2009
Corriere della Sera - Sezione Milano


Expo, addio referendum l'Ortomercato a Rho-Pero
IL Comune e la società Expo hanno cambiato idea: addio al referendum per decidere che cosa fare a Rho-Pero dopo l'Esposizione universale. Ai milanesi non si chiederà più di scegliere l'eredità del 2015 tra tre possibili destinazioni, ovvero la nuova Città del gusto, il trasloco del tribunale e del carcere di San Vittore, l'apertura dell'Agenzia dell'Innovazione. Ai voti andrà un solo progetto: il trasloco dell'Ortomercato sull'area che ospiterà i padiglioni del 2015. Il trasferimento di tutti i mercati generali da via Lombroso a Rho-Pero, ormai, per il Comune e per la società Expo è l'unica riconversione possibile per il milione di metri quadrati che verranno infrastrutturati con l' Expo. L'unico progetto a cui si lavori davvero, anche se non sarà né facile né indolore arrivarci: i grossisti dell'Ortomercato non vogliono il trasloco, la Lega con Matteo Salvini già fa da sponda dicendo che «il trasferimento dei mercati ucciderebbe l'Ortomercato e l'attività di centinaia di grossisti e di migliaia di commercianti e ambulanti». In Comune, però, ormai il trasloco dell'Ortomercato è rimasto l'unico progetto per il dopo-Expo. Da qui il cambio di strategia comunicativa deciso in una recente, e riservatissima, riunione tra Palazzo Marino e Lucio Stanca, l'amministratore delegato della Spa per l'Esposizione. «Stiamo riflettendo per sfruttare al meglio l'occasione di ascoltare i milanesi - taglia corto Stanca - Cosa uscirà da questa riflessione è troppo presto per dirlo». Non scopre le carte, l' amministratore delegato della società Expo. Nella riflessione in corso con il Comune, però, le indiscrezioni dicono che il ragionamento condiviso da entrambi è suonato così: una volta che è già stata decisa la destinazione per Rho-Pero, diventava irriverente chiedere ai milanesi di scegliere tra un progetto vero (il trasloco dell'Ortomercato) e due impossibili (la nuova Cittadella della giustizia e il quartiere dell'innovazione). Da qui il nuovo programma, niente referendum ma una «consultazione» online dei milanesi su come vorrebbero la Città del gusto a Rho-Pero con l' allegato trasloco dei mercati generali. Un indice di gradimento, appunto. Che si allungherà nei tempi: non prima del 15. Ma che soprattutto dovrà servire per fare «marketing» su Expo, presentando il progetto del nuovo polo della gastronomia con i mercati generali che accorciano la filiera alimentare. E cogliendo l' occasione per ribadire che l' operazione Expo porterà nuove metropolitane in città, nuove strade, nuovi parcheggi. La Lega, si diceva, ufficialmente rema contro al trasloco dell' Ortomercato. Ma «il Comune deve chiarire in fretta la destinazione dell' area Expo», ha strigliato Palazzo Marino il presidente leghista della Provincia di Como Leonardo Carioni. Assicurando di parlare come membro del consiglio d' amministrazione della società Expo. Ma pesa su quella stilettata l' evidente conflitto di interesse di Carioni, che è anche presidente di Sviluppo sistema Fiera, la società «immobiliare» di quella Fiera che possiede circa metà del milione di metri quadrati di RhoPero su cui si farà l' Expo. È con i proprietari dell' area (Fiera e Cabassi) che proprio la società Expoe il Comune devono trattare il grande business del dopo-2015.
GIUSEPPINA PIANO
La Repubblica
04-05-09, pagina 2 sezione MILANO

 

Mediazione Costruzioni limitate alle aree già edificate e recupero delle ex fabbriche
Urbanistica, tregua Pdl-Lega
Via libera al Pgt. Masseroli: «Niente cemento sulle zone verdi» L' impegno per il futuro «Il territorio di Milano è urbanizzato al 78%. Nel 2030 la percentuale scenderà a quota 68»

In giunta arriverà solo dopo le elezioni, più precisamente a luglio. Nel frattempo sul Piano generale del territorio, il documento che «pensionerà» il vecchio piano regolatore, è arrivato ieri il primo sì dai partiti della maggioranza. La condivisione - arrivata dopo l' ennesimo vertice con il sindaco Moratti - è limitata per ora agli obiettivi di massima. Quindici punti nei quali si dice che la città dovrà crescere, ma «senza consumare ulteriore suolo». «Una scelta rivoluzionaria - esulta l' assessore Carlo Masseroli -: non ci saranno altri interventi se non su aree dismesse da riqualificare e in zone dove è già stato costruito». A confermare la volontà di evitare colate di cemento in zone attualmente a verde, Masseroli indica un numero: «Attualmente il territorio di Milano è urbanizzato al 78%. Nel 2030 la percentuale scenderà a quota 68». Si costruirà nella aree «più infrastrutturate», già servite cioè da metropolitane e servizi. E - questo però l' assessore non lo conferma - si costruirà in altezza, proprio per risparmiare suolo e metri quadrati. Di tutto il resto, e in particolare di quali potranno essere le future «aree di trasformazione urbana», nel vertice di ieri non s' è discusso. Tutto rinviato a dopo le elezioni, visti anche i mal di pancia della Lega sulla destinazione dell' Ippodromo. L' opposizione però non si «fida». «Il centrodestra sta preparando una nuova colata di cemento», attacca Pierfrancesco Majorino, capogruppo pd.
Andrea Senesi
Pagina 4
(5 maggio 2009) - Corriere della Sera


Come cambia la città Il sorpasso fissato per venerdì. Ne «La vita agra», Bianciardi pensò di farlo saltare in aria
Il Pirellone perde il primato Milano ricomincia a salire
Battuto il record di Gio Ponti. In costruzione altri «giganti»

Milano e l’altezza sono stati un connubio inscindibile. Senza rovine paragonabili a quelle di Roma e delle Due Sicilie, in una pianura resa «magnificente dal lavoro dell’uomo» (Carlo Cattaneo, «Notizie naturali e civili su la Lombardia ») solo un segno verticale che poteva stagliarsi sopra gli abitati, i campi coltivati e le risaie poteva rendere identificabile il luogo. Per questo, lo stile gotico della cattedrale e un «cantiere permanente» come quello della Veneranda Fabbrica del Duomo sono stati, e sono, i simboli identificativi di Milano, espressioni dello spirito umano di costruire verso l’alto lavorando incessantemente.
Simboli tutt’altro che del passato, tanto che l’affermazione futurista di Boccioni, del cui movimento si celebra il centenario, avviene nel 1910 proprio con la tela «La città che sale», inno alla metropoli del futuro che si sviluppa in altezza attraverso il lavoro. Ovvero la Milano di sempre. La Milano che venerdì, con il secondo grattacielo della Regione Lombardia salirà ancora.
Nessuno violò il record in altezza della Madonnina (108,5 metri; altezza della st­tua 4,16) realizzata dal Giuseppe Perego e posta sulla più alta guglia che l’architetto Francesco Croce costruì nel 1769 sino al grattacielo Pirelli di Gio Ponti. Qualche possibilità c’era stata: ma la Torre del Filarete al Castello Sforzesco (70 metri) costruita da Luca Beltrami nel 1900 o la Torre Velasca del gruppo BBPR si erano fermate un po’ al di sotto. La Torre Velasca, del 1958, solo due metri al di sotto. Dunque si era pronti per il sorpasso.
E questo arrivò con Gio Ponti e il suo grattacielo in cemento armato che, con grande scandalo e polemica, nel 1960 raggiunse l’altezza di 127,40 metri. Naturalmente i grandi grattacieli americani cresciuti come funghi di pietra dopo la crisi del ’29 erano già più alti. Ponti, che resta l’architetto italiano del Novecento più noto nel mondo, non aveva però costruito l’edificio più svettante d’Italia, poiché sui due gradini più alti del podio restavano la cupola di Michelangelo di San Pietro (136 metri) e la Mole Antonelliana di Torino (167 metri).
Il Pirellone, inaugurato il 4 aprile del ’60, divenne subito il simbolo della borghesia del Nord e del boom economico. E per questo fu preso letterariamente di mira dall’anarchico protagonista di «La vita agra» di Luciano Bianciardi, che aveva il desiderio di farlo saltare in aria. Ma il grattacielo resistette anche il 18 aprile del 2002 quando Milano visse una pallida, ma pur sempre tragica, imitazione dell’11 settembre, con lo svizzero Gino Fasulo che alle 17.47 lanciò il suo aereo da turismo contro gli ultimi piani del colosso di cemento. Sembrò di assistere a un film già visto, con i nuclei speciali dei vigili del fuoco che si lanciarono su per le scale del Pirellone e si calano dall’alto recuperando vittime, feriti tra uno svolazzare di polvere e fogli e una foresta di macerie e frammenti.
Venerdì prossimo il grattacielo della seconda Sede della Regione Lombardia, progettato da PeiCobb attualmente in costruzione nell’area di via Melchiorre Gioia, raggiungerà e supererà l'altezza del Pirelli diventando il punto più alto di Milano. «Alle 21.30 — ha dichiarato il presidente della Lombardia Formigoni — sulla sommità del cantiere verrà collocata una pietra di quota che segnerà 127,40 metri». E sulla «pietra di quota» verrà poi posizionata la Madonnina di Cantiere, miniatura della Madonnina del Duomo, una cui copia di 85 centimetri è posta sulla sommità del grattacielo Pirelli sin dal 1960. Ma è un primato destinato a non durare. I tre grattacieli di CityLife che sorgeranno sull’area della ex Fiera Campiona­ria saranno alti 170 metri (Libeskind), 185 metri (Hadid) e 215 metri (Isozaki). Non necessariamente una città alta è una grande città. Milano, però, ha storicamente scelto anche questo: costruire vette di pietra sopra la pianura.
Pierluigi Panza
martedì 6 maggio 2009
Corriere della sera – sezione Milano


Ma resterà il simbolo del progresso
Il vecchio Pirellone di Gio Ponti forse non verrà affatto superato dalla nuova Torre oggi in costruzione. Ossia: quello che la Torre Pirelli simboleggiò quando fu edificata, e che ancora simboleggia, è indipendente da qualche metro d' altezza in più o in meno. È l' incarnarsi - anzi il «cementarsi» - d' una idea di progresso, di sviluppo industriale e culturale della Milano di ieri che ha effettivamente condotto il vecchio borgo medievale (nonostante lo splendore delle sue basiliche da San Giorgio a San Vincenzo in Prato, da San Simpliciamo a Sant' Ambrogio) a trasformarsi in capitale del design e della moda europea. Dunque , auspichiamo che la nuova Torre serva proprio da emblema per quella rinascita della Milano culturale che negli ultimi anni aveva perso un po' del suo iniziale brillio, lasciando vaste zone edilizie abbandonate e inedificate. Ecco, allora, che i due vecchi edifici simbolici della Torre Pirelli e della Torre Velasca - memori d' una rinascita milanese del dopoguerra e del dopo-fascismo - meritano oggi di essere «superati in altezza» dai nuovi grattacieli (di Zaha Hadid, di Liebeskind e degli altri ) ma purché non si dimentichi che le prime torri (dalla Gaffa alla Pirelli) sono state le testimoni di una grande stagione di fervore economico e di libertà politica e ideologica; e che, non a caso, era auspicabile che la Milano del dopoguerra (capitale del razionalismo architettonico dei Figini e Pollini, Albini, Lingeri, BBPR, ecc.) trovasse una continuità avveniristica nell' architettura della Nuova Fiera di Massimiliano Fuksas e in quella del Nuovo Pirellone e - si spera - degli altri grattacieli del prossimo Expo.
Gillo Dorfles
Pagina 22
(6 maggio 2009) - Corriere della Sera


Premi:
Doppio trionfo dell' architettura scandinava

Dopo i successi del giallo nordico (quello di Larsson, Holt e Mankell) è tornato il tempo dell' architettura scandinava, quella ispirata ad Alvar Aalto e Gunnar Asplund, un' architettura comunque già inondata di Pritzker (da Sverre Fehn a Jørn Utzon). Due premi internazionali sembrano confermarlo: il «Mies Van Der Rohe» (consegna il 28 maggio a Barcellona) è andato all' Opera House di Oslo (foto) dello studio norvegese Snøhetta (quello della nuova Biblioteca di Alessandria); il «Carlo Scarpa per il giardino» del trentennale (consegna sabato prossimo a Treviso) è invece andato alla Cappella di Otaniemi (Helsinki) dei finlandesi Kaija e Heikki Svien. Lo stile resta quello di Aalto: essenziale, rigoroso, attento all' uomo e all' ambiente.

Repubblica, 6 maggio 09

Le caste chiuse

 

ROBERTO MANIA

IL MERCATO è passato di moda. E le corporazioni più forti sfruttano l' occasione: si alleano con i parlamentarie si proteggono. Alla Camera non passa una norma per favorire l' accesso alla professione dei giovani notai; al Senato si provaa cancellare le parafarmacie. Gli avvocati rivogliono le tariffe minime e le assicurazioni l' agente monomandatario. La casta dei consumatori non c' è ancora e questa volta subisce l' attacco. Indietreggia. Ora non si cantano più le lodi delle deregulation aggressive di Margaret Thatcher e Ronald Reagan negli anni Ottanta, dei loro vittoriosi duelli con le trade unions, i minatori, i medici o gli uomini radar. Ora è il tempo dei ripensamenti, delle nuove (o vecchie) vie a un capitalismo temperato, con più Stato e più controlli e tanti paletti. Siamo in transizione: il tempo ideale per le corporazioni. Che, appunto, sono tornate, forti e resistenti. Loro - si sa - occupano gli spazi vuoti. Approfittano delle distrazioni. Se di concorrenza non si parla più (non è un caso che solo due giorni fa il Commissario Ue alla Concorrenza, Neeile Kroes, abbia sentito il bisogno di ricordare che lei non è stata messa in quiescenza) vuol dire che questo è anche il momento delle lobby. Basta andare in Parlamento per rendersene conto. È lì, lungo i corridoi, nei conciliaboli, nelle commissionie in Aula, si sta giocando la grande partita: la rivincita delle corporazioni. Contro un pezzo delle liberalizzazioni approvate nella scorsa legislatura. Si annacquano o si cancellano le "lenzuolate" di Bersani. Spesso si torna indietro. COSÌ la "cittadella" dei notai ha chiusoi confini: ingresso vietato ai 66 giovani aspiranti notai che avevano superato l' esame orale al concorso del 2004 ma non erano stati ammessi allo scritto. La Camera dei deputati ha votato no. I notai continuerannoa essere pochi e, diciamo, benestanti. Perlopiù figli di notai. D' altra parte non siamo noi il paese della mobilità sociale: dice la Banca d' Italia che il 75 per cento delle famiglie che nel 1994 si trovava in basso nella scala sociale, nel 2004 (un decennio dopo) è rimasta allo stesso livello. Pure i ricchi hanno mantenuto la posizione. Qui non c' è mai stata la concorrenza. Anche in Parlamento si combatte (per interposta persona) per mantenere la posizione. O i privilegi. Come quello dei farmacisti che la professione la ereditano pure. E cominciano a soffrire la presenza delle "parafarmacie" nei centri commerciali e non solo. Così arriva a sostegno l' emendamento che dovrebbe essere votato proprio in questi giorni. L' ha firmato il senatore Filippo Saltamartini (Pdl) e l' ha presentato (non si sa con quale attinenza) al disegno di legge delega sulla sicurezza sul lavoro: stop ai farmaci da banco venduti fuori dalle farmacie vere e proprie. E chi ha già avviato l' attività potrà proseguirla al massimo per dieci anni ancora. «È uno sconcertante passo indietro, è il blocco delle parafarmacie, è l' abrogazione della legge Bersani», sostiene Camillo De Berardinis, amministratore delegato di Conad che ha aperto 30 parafarmacie nei suoi centri e altre dieci le ha messe sulla rampa di lancio. L' Anpi, l' associazione delle parafarmacie, dice che nell' arco di due anni sono state aperte quasi 3.000 parafarmacie. Con effetti positivi sull' occupazione (soprattutto giovanile) e una diminuzione dei prezzi intorno al 25-30 per cento sui prodotti da banco e sui cosmetici. Effetto della concorrenza. Che alla Federfarma non piace. Perché - a parte l' emendamento Saltamartini - l' operazione è a raggiera. Al Senato sono in discussione un paio di proposte di legge del Pdl contro le parafarmacie alle quali il sottosegretario alla Salute Ferruccio Fazio vorrebbe anche cambiare nome (drugstore?). Le hanno presentate il capogruppo Maurizio Gasparri («bisogna evitare situazioni di stressata competitività commerciale») e il senatore Maurizio Castro (ma il secondo firmatarioè il senatore-farmacista Fabrizio Di Stefano). Spiega Castro: «Dobbiamo rivalutare il ruolo della farmacia tradizionale». È anche una questione culturale, «neo-tradizionale», dice. «Perché l' antica farmacia fa parte della nostra identità italiana». Che non va mischiata nel «rito compulsivo dell' acquisto nei centri commerciali». «Un modello un po' retrò», ammette. Anche contro «lo strapotere» delle case farmaceutiche. Perché le corporazioni sono contro i "poteri forti". Almeno loro dicono così. Il tema è ricorrente. E poi: chi sono i "poteri forti"? Sostiene Maurizio de Tilla, presidente dell' Oua, l' organismo unitario dell' avvocatura: «L' abolizione delle tariffe minime la vogliono i poteri forti, le grandi aziende e gli enti pubblici che fanno le convenzioni al ribasso con gli studi professionali. Per il cittadino è indifferente». Analisi che trova una interessante conferma nell' ultimo Rapporto del Censis: «Il cliente medio, di per sé, non ha interesse specifico a quanto e a come si affaccia nella professione di avvocato la logica di mercato». Bersani ha abolito le tariffe minime, introdotto la possibilità di ricorrere (con tanti vincoli e cautele) alla pubblicità, e anche consentito il cosiddetto "patto di quota lite" tra cliente e professionista, per cui gli avvocati possono incassare una parte dei beni sui quali è sorta la lite. Ora tutti gli avvocati hanno proposta di reintrodurre le tariffe minime e di vietare il patto. Il ministro di Grazia e Giustizia, Angelino Alfano, ha già annunciato che accoglierà quelle richieste. D' altra parte sugli scanni parlamentari ci sono ben 44 avvocati su 140 mila iscritti alla Cassa. Certo è la professione più rappresentata. E poi - stando al recente sondaggio di Ipsos Pa per il Sole 24 Ore il 42,9 per cento delle professioni elevate voterebbe per il Popolo delle libertà. Dunque, marcia indietro. Nonostante l' Antitrust di Antonio Catricalà nell' ultima indagine sulla concorrenza nelle professioni sia tornata a criticare la resistenza dell' ordine degli avvocati, che con una direttiva interna ha sostanzialmente aggirato la Bersani. Spiegano cheè una questione di «decoro»: perché un avvocato non può prendere sotto una determinata soglia. La loro attività professionale non è una merce come un' altra. Adam Smith, il padre del liberalismo, ascoltò questa stessa tesi da parte dei medici del Royal College of Physicians di Edimburgo, e non riuscì a capirla. Era il 1774. La crisi non è un buon argomento per giustificare la nuova ondata anti-concorrenziale. Anzi. Da anni Carlo Scarpa, economista dell' Università di Brescia, conduce la sua battaglia intellettuale a favore delle liberalizzazioni: «In questa fase gli aiuti di Stato si possono comprendere e tollerare. Ma le chiusure all' accesso alle professioni non si possono accettare. Non c' è alcun motivo per imboccare questa strada. Piuttosto proprio in questo momento, per sostenere il potere d' acquisto dei redditi più bassi andrebbe incentivata la concorrenza. È tutto sbagliato quello che sta accadendo in Parlamento». Che aveva già depotenziato non di poco, con un rinvio dopo l' altro, la possibilità per i consumatori di ricorrere alla "class action" a tutela dei propri interessi. Ma c' è chi non demorde. L' Ania, per esempio: la potente associazione delle assicurazioni. Un emendamento che reintroduceva l' agente monomandatario è stato bocciato in commissione, ma Fabio Cerchiai, presidente dell' Ania, non esclude (anzi) che possa essere ripresentato. Dice : «È ormai conclamato che le reti di vendita in esclusiva sono quelle meno costose, tanto che dopo la Bersani, che prevede l' agente plurimandatario, i costi distribuitivi sono cresciuti dell' 1 per cento. E poi - aggiunge - con l' agente unico anche le offerte sono più convenienti». Per chi? «Per il consumatore». Chissà.

 

Pagina 53
(7 maggio 2009) - Corriere della Sera


Edilizia, mani libere ai Comuni
Edilizia, mani libere dalla Regione ai Comuni. La giunta del Pirellone ha approvato ieri i criteri per il via libera ai progetti per riqualificare le aree dismesse o abbandonate anche nei centri storici. Per costruire basterà una dichiarazione firmata dal progettista. Protesta l' opposizione di centrosinistra: «È una presa in giro. Solo il via libera a una nuova colata di cemento». Replica l' assessore regionale all' Urbanistica leghista Davide Boni: «Non è vero, è un piano per rilanciare il settore dell' edilizia in crisi». Soddisfatto l' assessore comunale Carlo Masseroli: «I criteri sono assolutamente ragionevoli e assomigliano a quelli approvati dal consiglio comunale».
ANDREA MONTANARI
La Repubblica
07-05-09, pagina 1 sezione MILANO


Il caso Inaugurati i 499 posti sotterranei in piazza Trento e Trieste. «Spariti gli alberi per far spazio al cemento»
Monza divisa sulla piazza-parcheggio
«Ora la città ha un centro storico rinnovato». «Costi elevati, troppi sprechi»

Dopo lo scontato «finalmente i lavori sono finiti» ecco che arrivano i primi pareri. Era inevitabile: il maxi parcheggio interrato e la conseguente risistemazione di piazza Trento e Trieste, a Monza, non poteva che far discutere i cittadini: «Mi piace, non mi piace, ma quanto è costato... Preferivo la piazza com’era prima». Insomma, la solita girandola che sta trasformando i 120 mila residenti in altrettanti esperti architetti, un po' come succede con la Nazionale di calcio che trasforma tutti gli italiani in commissari tecnici.
I più agguerriti sono i pensionati, che soprattutto la mattina frequentano passeggiano per il centro storico. Mani dietro la schiena, fermi sulle vie che s'affacciano sulla piazza osservano con occhio critico. Molti sono perplessi per i due cubi trasparenti che conducono al parcheggio sotterraneo, ma per ora il difetto più evidente è la mancanza di alberi: «Una volta c'erano e regalavano un po' d'ombra — commentano —Adesso, in questa spianata di cemento, quando fa caldo si rischia l'insolazione ». Qualcuno azzarda anche pareri tecnici: «Per me hanno aumentato la pendenza, mi hanno detto che è di quattro metri e mi sembra un po' troppo. Se piove forte i negozi rischiano di finire sott'acqua».
Infine, un mistero: «Ma quei cosi neri di fronte al monumento cosa sono?». Risponde direttamente il sindaco, Marco Mariani: «Una volta venivano utilizzati dalle massaie per stendere i panni, adesso rappresentano la memoria storica di una Monza che non c'è più».
Fra le cose che invece sono piaciute, soprattutto ai bambini, compaiono il piccolo ruscello a cielo aperto che ricorda la roggia Pelucca che attraversava l'area, le formelle con i simboli delle famiglie di mercanti del Quattrocento come i Brambilla, gli Zucchi e gli Aliprandi realizzate dalla Camera di commercio, e lo spazio aperto. I numeri parlano di una piazza di circa 6 mila metri quadrati completamente rimessa a nuovo e di un parcheggio sotterraneo di 499 posti su tre livelli. Il costo complessivo dell'operazione è stato di 12 milioni di euro. La giunta, però, ha già mandato in ar­chivio l'inaugurazione e guarda avanti. L'assessore alle Opere pubbliche, Osvaldo Mangone, ha infatti spiegato che a breve partiranno anche «i lavori di recupero dell'adiacente piazza IV Novembre e in un secondo momento di piazza Carducci».
Intanto ieri sera ha aperto i battenti Artigianarte, l'iniziativa promossa da Regione Lombardia che rappresenta la prima manifestazione pubblicata a essere ospitata nel nuovo salotto cittadino.
Ma il nuovo stile della piazza Trento e Trieste ha alimentato molte polemiche politiche. Michele Faglia, ex sindaco di Monza che ha dato via libera all'intervento, ha puntato il dito contro i colpevoli ritardi che hanno rallentato il progetto. «Per colpa di alcuni ricorsi amministrativi mossi esclusivamente da interessi politici — afferma Faglia — abbiamo perso due anni». E l’ex sindaco di Monza punta il dito contro gli esponenti dell'allora opposizione in consiglio comunale, quei politici che adesso governano la città. Replica l'assessore Mangone: «Non mi sembra il momento giusto per fare polemiche. Con questa nuova piazza è l'intera città a guadagnarci».
Riccardo Rosa
Venerdì 8 maggio 2009
Corriere della Sera – sezione Milano



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