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Settimana del 24 Marzo 2008

Dal 01.01.2008 al 31.12.2008

Rassegna stampa dei principali quotidiani nazionali e del sito Archiworld, relativa agli articoli di interesse per Milano e Provincia.

Campagne:
«Il Foglio» e «Il Domenicale»: opere contro l' uomo.
Sotto accusa da Le Corbusier a Libeskind
Fermate gli «architetti del brutto»
«Il moderno è nichilista».
Ma Botta e Fuksas: nostalgie prive di senso


Due giornali dell' area neocon, Il Foglio e Il Domenicale hanno lanciato nel giorno di Pasqua una «crociata» contro il brutto e il disumano dell' architettura contemporanea. Su Il Foglio, il conservatore inglese Roger Scruton ha polemizzato contro l' architettura Razionalista e Decostruzionista (del tutto ignorando che la seconda è una risposta critica alla prima) di «archistar» come Libeskind, Gehry, Foster e Piano che «hanno costruito edifici brutti e inospitali, corpi estranei al tessuto urbano». La radice di questi architetti «egomani» va cercata, per Scruton, in Le Corbusier; il quale sarebbe anche con-causa - con i suoi progetti per Algeri, che hanno ignorato i bisogni sociali e religiosi della popolazione - dell' «attacco alle Torri gemelle» come «gesto di rancore a lungo covato contro il modernismo che ha sfigurato le città mediorientali». La risposta a questo «frutto avvelenato» che è il «moderno» nel suo insieme, fortunatamente non viene indicata nel «ritorno al classico» o nel già noto «ritorno all' ordine», ma in altrettanto discutibili «principi universali e intuitivi», come quelli di «Gaudì a Barcellona». Ancora più radicale la tesi espressa dal teorico dell' architettura americano di origine greca Nikos A. Salingaros su Il Domenicale. «Una visione del mondo utopica e totalitaria» sarebbe in atto, secondo Salingaros, per «purgare le città da qualsiasi riferimento alla storia e alla natura umana, progettando spazi e superfici vuoti, muti», espressioni solo del nichilismo contemporaneo. Per Salingaros il culto nichilista, del quale è espressione l' architettura decostruzionista - per intendersi quella dei tre grattacieli di Libeskind, (Isozaki) e Hadid sulla ex Fiera di Milano -, «ha compiuto un vero e proprio colpo di Stato per mezzo dei media». Queste esperienze contemporanee dell' architettura nichilista vengono accostate da Salingaros ai fallimenti (questi autentici) dell' architettura progressista moderna, come comuni esiti catastrofici di due filosofie: quella nichilista (riconducibile a Nietzsche) alla quale «hanno aderito Adolf Hitler, Martin Heidegger e Philip Johnson» (quindi anche l' International style) e l' altra, quella marxista, «seguita dalla scuola di Francoforte con la sua teoria critica», le cui più vicine espressioni filosofiche che hanno infarcito la mente degli architetti sono quelle di Foucault e di Derrida. Tutte queste teorie, scrive, hanno «come filo comune ristrutturare l' essere umano (e i suoi spazi, ndr) al di fuori della sua natura tradizionale, cioè al di fuori della sua natura biologica». E la Chiesa si adegua con costruzioni che tradiscono il rapporto con la storia. La denuncia - che pare riprendere il tono del libello di Tom Wolfe Maledetti architetti - ha alcuni aspetti condivisibili. Si progetta male per esito di almeno due successive implosioni teoriche, dalle quali solo gli immobiliaristi hanno tratto vantaggio. Una implosione è quella razionalistica progressista-socialista, ovvero la crisi dell' urbanistica come disciplina che riteneva possibile pianificare gli spazi e gestirli, e dei connessi programmi di edilizia sociale, i cui esiti disastrosi sono presenti in tutte le periferie. L' altra, quella di una certa società dell' ipercomunicazione che sta riducendo l' architettura a design con risultati involontariamente comici nella provincia delle città europee, dove il patrimonio storico andrebbe invece salvaguardato e il contesto mantenuto come elemento di confronto (ma non di assoggettamento morfologico). La risposta alla perdita di pezzi di territorio della memoria (urbana e ambientale) e di cattiva proposta architettonica non può essere il ritorno al classicismo (serpeggiante sulla stampa). Il dibattito tra classico e anticlassico si è risolto negli anni Settanta con l' uscita, nel 1963, del celebre libro di John Summerson Il linguaggio classico dell' architettura (guida di riferimento del principe Carlo d' Inghilterra e del suo architetto Leon Krier) e la risposta di Bruno Zevi dieci anni dopo con Il linguaggio moderno dell' architettura. Guida al codice anticlassico, che già presentava forti aperture verso quella che, dal 1988, si sarebbe chiamata architettura decostruzionista. Infatti, i protagonisti dei contestati «filoni» dell' architettura contemporanea stigmatizzano questo richiamo: «Periodicamente ritornano nostalgie di un passato impossibile - racconta Mario Botta -: è come se chiedessimo alle automobili di presentarsi come carrozze trainate da cavalli. È cambiata la produzione nel mondo, e l' architettura è il riflesso della società. Questi critici tornano a casa in auto o a cavallo? Quanto alle nuove chiese, se Salingaros le avesse visitate avrebbe avuto una reazione opposta. Non possiamo gettare Le Corbusier e Alvar Aalto all' inferno perché hanno costruito chiese che hanno instaurato un processo fertile di nuova bellezza». «Non ho ben capito il tono di queste crociate - aggiunge Massimiliano Fuksas da Hong Kong - se uno copia Gaudì e Michelangelo è un umanista e se uno fa dell' architettura Hi-tech o decostruzionista è antiumanista? Per fortuna c' è libertà, democrazia. Il mondo dell' architettura cerca di trovare risposte a problemi globali, come quello delle risorse, del contenimento delle emissioni e della crescita demografica. Nessuno vuole costruire contro l' uomo: l' architettura non si risolve in una grammatica stilistica». In definitiva, la miglior «formula» per l' architettura è ancora quella con la quale Edgard Wind identificava il ruolo dell' arte come «libera servitù». Espressioni che, anche alla luce dei dimenticati studi del filosofo Enzo Paci, vuol dire «libera» nel «riformulare ogni volta uno stile ripartendo dal mondo della vita» e «serva» nella sua missione sociale di saper fornire (e qui servirebbero leggi e prassi approvative più libere ed etiche) pragmaticamente, per dirla con Le conseguenze del pragmatismo di Richard Rorty, progetti e programmi di felicità per tutti.


Panza Pierluigi
Pagina 41
(25 marzo 2008) - Corriere della Sera

 

COSE DELL' ALTRO SECOLO
1904, l'architetto Sommaruga celebra lo stile «Liberty»


È uno dei simboli del secolo nuovo. Della borghesia, degli imprenditori, degli industriali. Di una classe sociale in ascesa, sempre più decisa a farsi largo, a conquistare il mondo, a lasciare segni tangibili. Anche con i palazzi, l' arte, la moda, gli oggetti, l' architettura. Palazzo Castiglioni ha un posto di rilievo tra questi simboli. È la stagione felice del Liberty. La stagione di una Milano che cambia stile e ridisegna le strade e le piazze: la zona Magenta-Sempione, il centro, Porta Venezia, Porta Romana. Palazzo Castiglioni nasce, non a caso, in corso Venezia al civico 73, proprio dove l' aristocrazia aveva fatto sfoggio di ricchezze, di edifici e dimore patrizie neoclassiche. Fu l' ingegnere Ermenegildo Castiglioni, industriale che aveva appena ereditato una fortuna, a volere quel palazzo. Fu lui a chiamare Giuseppe Sommaruga, milanese, classe 1867, architetto che aveva studiato all' Accademia di Belle Arti di Brera, che era stato allievo di Camillo Boito e sin da giovanissimo si era segnalato per quel talento che è patrimonio esclusivo dei fuoriclasse. E' il 1900 quando parte il progetto e Palazzo Castiglioni otterrà la licenza di abitabilità il 15 aprile del 1904. Un capolavoro (da tempo sede dell' Unione del Commercio) che non mancò di suscitare discussioni e polemiche tra i più conservatori. Nel mirino il groviglio di ferri battuti, le pietre, i putti, le decorazioni, le statue di donne discinte che ornavano l' ingresso principale. I milanesi trovarono modo anche si ribattezzare il palazzo che divenne «Ca' di ciapp», proprio per quelle due sculture che poi, su ordine di Castiglioni, vennero traslocate. Lui, l' architetto Sommaruga, personaggio schivo e riservato nonostante i successi, le cariche e gli onori, fu certamente tra i grandi protagonisti del Liberty. Aveva uno stile inconfondibile e rigoroso dove il moderno si mischia mirabilmente con la funzionalità. Basta guardare oggi (tra i molti lavori) la palazzina Salmoiraghi, realizzata nel 1906 in via San Siro, la villa Romeo, la villa Faccanoni a Sarnico oppure il Grand Hotel al Campo dei Fiori, appena sopra Varese o la stazione di arrivo della funicolare, che venne inaugurata il 20 aprile del 1911. Segni che restano nonostante il tempo e le negligenze degli uomini.


Tettamanti Franco
Pagina 9
(26 marzo 2008) - Corriere della Sera


Il caso Artioli: niente lavori, le regole vanno rispettate. Il teatro è chiuso da 10 anni
«Stop al restauro del Lirico» Il Comune: pronti a fare causa
Scontro con la Sovrintendenza. Terzi: la città rischia una figuracciaLongoni potrebbe rivalersi su Palazzo Marino. E il Comune a sua volta potrebbe rivalersi sulla sovrintendenza


Il cerchio si chiude. Dopo il rafforzamento del vincolo storico artistico sul Lirico in quanto «alta espressione dell' architettura del Fascismo», arriva l' intimazione a bloccare i lavori. La sovrintendenza non ha perso tempo. Due lettere indirizzate a Gianmario Longoni, l' imprenditore teatrale che ha vinto la gara per la ristrutturazione e la gestione del Lirico. Nella prima si invita «a soprassedere a qualsiasi opera di demolizione». Nella seconda si ritira la precedente autorizzazione rilasciata dalla stessa sovrintendenza, bloccando di fatto i lavori e il progetto. Un terremoto. Che rischia di avere ripercussioni a catena. Longoni che ha appena dato inizio ai lavori - sollecitato in questo dallo stesso Comune proprio due settimane fa - potrebbe rivalersi sul Comune chiedendo fior di danni. E il Comune a sua volta potrebbe rivalersi sulla sovrintendenza che prima ha dato l' autorizzazione e poi l' ha tolta. Ipotesi peregrine? Per niente, visto che la palla è già passata nelle mani dell' Avvocatura comunale e degli avvocati dell' Ati Milano Festival. E l' assessore agli Eventi, Giovanni Terzi attacca: «Milano non può rischiare di fare l' ennesima figuraccia a causa dell' incertezza delle regole e rimanere con il teatro chiuso. Chiederò all' Avvocatura se è possibile che la sovrintendenza modifichi il proprio parere con una gara espletata, aggiudicata e con i lavori in corso». Sullo sfondo il vero disastro. Il Lirico che resta chiuso e inutilizzato per decenni. Se Longoni dovesse fare un passo indietro quale imprenditore correrebbe il rischio di gestire un teatro «intoccabile» che solo per la messa a norma costa 7 milioni di euro? In ogni caso, adesso la palla passa nelle mani del sindaco Letizia Moratti che se ne occuperà al ritorno della trasferta parigina per l' Expo. «Esaminati gli atti progettuali sull' intervento - scrive la sovrintendenza di Alberto Artioli - verificata la non compatibilità con le esigenze di conservazione dei valori storici e relazionali espressi dal Lirico e accertato che in data 5 marzo è stato rafforzato il vincolo, si annulla in via di autotutela l' autorizzazione non più rispondente alle nuove esigenze di tutela». Non solo: «Si invita l' Ati e il Comune a voler assicurare la sospensione dei lavori in attesa degli incontri con il concessionario per la ridefinizione di un intervento compatibile». Ma che significa intervento compatibile? Il margine è strettissimo. Perché il vincolo rafforzato del sovrintendente Gino Famiglietti ha dichiarato «intoccabile» non solo quel che resta del Piermarini, ma anche l' opera di ristrutturazione degli anni ' 40 dell' architetto Cassi Ramelli. Senza tenere conto che nel 1974, il Lirico è passato sotto un' altra ristrutturazione. Insomma, situazione paradossale. Con il Comune diviso all' interno. Sgarbi che plaude al vincolo e gli uffici di Palazzo Marino che scrivono a Longoni che «l' inaspettata sospensione interviene per volere solo degli uffici del ministero». La scheda Il vincolo Il 5 marzo il sovrintendente regionale Gino Famiglietti, ha rafforzato il vincolo sul Teatro Lirico: «Bene culturale» La motivazione Il Lirico «va tutelato in quanto alta espressione dell' architettura del Fascismo». Ieri, l' alt ai lavori di restauro


Giannattasio Maurizio
Pagina 4
(26 marzo 2008) - Corriere della Sera

 

Assimpredil
De Albertis: troppi vincoli, Milano impari da Venezia


«Questa città è sempre più ingessata. Il quadro normativo è complesso e confuso. Dovremmo avere il coraggio di prendere esempio da Cacciari». Cosa ha fatto il sindaco di Venezia? «Forse anche per la sua autorevolezza, è riuscito ad instaurare con le sovrintendenze un rapporto molto efficace, veramente virtuoso. A Venezia, pur in presenza di opere meravigliose, vengono autorizzati interventi che alla lunga sono migliorativi. Non ci sono tabù». Claudio De Albertis, presidente di Assimpredil, l' associazione che raggruppa le imprese edili di Milano, Monza e Lodi, non nasconde di essere preoccupato. Troppe norme? «Mancano le certezze sui tempi e non c' è uniformità di giudizio, non dico tra diverse sovrintendenze». Anche all' interno della stessa soprintendenza? «La vicenda del Lirico è emblematica. Ora ad accrescere la confusione si è aggiunto da pochi giorni l' ultimo decreto ambientale». Cosa dice? «Rimette ai sovrintendenti i poteri sulle questioni ambientali, che prima erano delegate ai comuni». Che cosa teme? «Il caos. Apparentemente il decreto sembra dettare tempi certi nell' esame delle pratiche, ma nei fatti il rischio è che si accumulino, perché gli uffici non sono certo dotati di montagne di personale». Qualcuno dovrà pur arginare gli abusi. «Dipende da cosa si intende per abusi. Ci sono abusi di necessità, che potrebbero essere evitati se solo le procedure fossero rapide». Non c' è via d' uscita? «Questa città dovrebbe avere il coraggio di porre al centro del dibattito culturale il tema della conservazione o rifunzionalizzazione dei monumenti. A Venezia questo processo è avvenuto». Di cosa è ostaggio Milano? «Dell' eterno scontro tra storici dell' architettura e architetti, che si consuma nell' aspirazione alla conservazione fine se stessa di qualsiasi cosa». Cioè non tutto ciò che è vincolato merita il vincolo? «Si vincola per legge tutto ciò che ha 50 anni. Ma porto tre esempi di magnifici interventi che reinterpretano in chiave moderna stratificazioni storiche: vedi la Pilotta di Parma, il Pirelli a Milano, il Palazzo Bianco e il Palazzo Rosso a Genova». pdamico@corriere.it * * * Il presidente Assimpredil Ance è la più grande associazione di imprese edili e complementari d' Italia. Raggruppa, infatti, il dieci per cento di tutto il comparto. L' ingegnere Claudio De Albertis, 58 anni (foto), ne è il presidente da due anni, dopo essere stato ai vertici dell' associazione a livello nazionale


D' Amico Paola
Pagina 4
(26 marzo 2008) - Corriere della Sera

 

Polemiche I giornali neocon criticano i «non luoghi» nelle città. La replica: manca una vera committenza
I nuovi architetti: meglio la Terza via
«Non vogliamo né utopie totalitarie né ritorni nostalgici al classico»


La crociata dei giornali neocon contro la «nuova» architettura (proseguita ieri con un articolo del direttore del Domenicale Angelo Crespi su Libero contro il nuovo Museo d' arte contemporanea di Daniel Libeskind a Milano), denuncia sui quotidiani ciò che l' architetto-guru olandese Rem Koolhaas sostiene da anni: l' architettura della Modernità ha creato «junkspace» (che è anche il titolo di un suo libro, edito in Italia da Quodlibet), ovvero «spazi spazzatura» e, in aggiunta a questi crea, secondo la nota definizione del sociologo Marc Augé, dei «non luoghi». Sulla crisi del disegno urbanistico progressista e macchinista, infatti, si è innescata una risposta decostruzionista - che arriva con ritardo in Italia (ad esempio con i progetti sull' ex area Fiera a Milano) -, che sta operando una «riduzione» dell' architettura a oggetto di design lanciato come chance (Derrida) nel contesto urbano. E l' affermarsi di questa architettura del sublime contro il bello (Burke) genera nei «tradizionalisti» uno sgomento analogo a quello che si prova davanti alle opposte periferie Iacp. È possibile, di fronte a ciò, una «terza via per l' architettura», che non preveda utopie totalitarie, non un ritorno al classico, ma neanche la creazione di oggetti glamour fini a se stessi che vanno configurandosi come un manierismo decostruzionista? Pur facendo quel che gli è consentito dalle circostanze, alcuni giovani (che vuol dire quarantenni) della scena architettonica italiana vorrebbero fuggire sia da ipotesi nostalgiche che da «linguaggi di maniera». Conrad-Bercah, dello studio w office, teorico di formazione americana, visiting professor ad Harvard e autore di un libro sui rapporti tra architettura protestante e cattolica contemporanea (West Workroom, Charta), ironizza sulle critiche di Foglio e Domenicale: «Puntuali, come il cambio di stagione, si ripropongono polemiche sterili e male indirizzate sulla supposta funzione dell' architettura contemporanea di riflettere il "nichilismo". Ma non si tratta di una condizione che investe tutte le arti, che sembrano essere diventate l' unico momento di critica feroce delle ferree leggi e fluttuazioni tra mercato e globalizzazione? La polemica sembra favorire un ritorno a forme classiche, come se queste avessero il potere di togliere peso alla situazione corrente. Ma ciò è un mito». Poi una velata critica alla contemporaneità: «Certo, se l' elemento di esagerazione diventa esagerazione tout court a spese di tutto il resto fornisce giustificazione alla battuta diventata popolare nei circoli professionali: "Come si distingue l' architettura dalla scultura? Facile: l' architettura è quella che ha le toilette al suo interno". In questo Daniel Libeskind, l' unico vero (e giustificato) bersaglio delle critiche di Scruton, docet». «Gli edifici di questo cattivo presente sono autoreferenziali, come chiusi nella creazione di un mondo perfetto ed "ecologico" al loro interno, con forme e pelli accattivanti e protettive nei confronti dello sporco, della violenza, dell' incomprensibilità del mondo esterno», affermano Alfonso Femia e Gianluca Peluffo dello studio 5+1AA, balzati alla ribalta per aver vinto (con Rudy Ricciotti) il concorso per il Nuovo palazzo del cinema di Venezia. «Questo atteggiamento "blasé" è una forma psicopatologica collettiva di senso di colpa, che viene sfruttata per risolvere questioni politiche e sociali imbarazzanti, ponendo il ruolo dell' architetto non più nel campo del professionismo, ma in quello del servilismo. Il futuro del nostro Paese deve essere invece di responsabilità, dignità civile e bellezza». A società e committenza guarda anche (con approccio diverso) Massimo Roj, uno degli italiani che più sta costruendo in Cina e leader dei grandi palazzi per uffici in tutto il mondo. «L' architettura deve rivolgere il più alto livello di attenzione alla committenza, soprattutto all' utenza dei progetti», afferma. «Un buon architetto deve dare sostanza alle idee e ai sogni dei propri clienti. Questi sono concetti economici, non filosofie, perché poi sono i clienti a dire se i loro palazzi funzionano. Qualche volta l' architettura rischia di fermarsi al gesto tecnico, a un esercizio di stile. L' uomo al centro dell' attenzione non è uno slogan, ma un criterio ispiratore». All' affermato progettista del nuovo Museo del Novecento a Milano e della Gare d' Orsay (con Aulenti) a Parigi, Italo Rota, il compito di definire un percorso pragmatico che, per dirla con Le conseguenze del pragmatismo di Richard Rorty, superi il manierismo decostruzionista senza ritorni al classico o all' utopismo progressista. «L' Italia, avendo la fortuna di arrivare ultima al nuovo, dovrebbe superare l' architettura elettrico-meccanica di Le Corbusier ed entrare direttamente nel mondo del virtuale attraverso a una tradizione non classica, come quella del gusto ravennate o del Barocco di Borromini, per esempio». A ciò va associata l' idea che una architettura democratica sia narrativa. «L' architettura deve essere narrativa, e non da regime, come in Cina. Per me, Libeskind è abbastanza storicista; molto meno lo sono Renzo Piano e Zaha Hadid». Da ultimo, il percorso di rinnovamento prevede un richiamo alla committenza come elemento che obbliga una architettura a confrontarsi con il contesto: «Le architetture senza contesto sono quelle che nascono senza un vero committente, lasciando all' architetto una disponibilità alla Gigi Marzullo: "Si faccia una domanda e si dia una risposta". Il modello di committente è Mitterrand, che sorvegliava l' architettura senza determinarne il linguaggio».


Panza Pierluigi
Pagina 55
(27 marzo 2008) - Corriere della Sera

 

Giornate Fai Il 5 e 6 aprile sarà possibile visitare i principali monumenti di 240 città. Le guide saranno 11 mila studenti
Teatri, acquedotti, musei. Porte aperte per 550 tesori


ROMA - A Bari si potrà visitare in anteprima il teatro Petruzzelli - mancano 9 mesi alla riapertura - con gli artigiani intenti a ridare vita a stucchi e dorature distrutte dall' incendio doloso del ' 91. A Milano si entrerà nel Palazzo Mondadori, progettato da Oscar Niemeyer, uno dei maestri dell' architettura moderna. Sono alcuni dei 550 monumenti, sparsi in 240 città, che gli italiani potranno scoprire il 5 e 6 aprile, in occasione della sedicesima edizione della Giornata di primavera organizzata dal Fai, il Fondo per l' Ambiente Italiano. Ad accompagnare gli italiani alla scoperta dei segreti delle nostre città e borghi undicimila studenti apprendisti ciceroni, 7 mila volontari della Protezione civile che si affiancheranno ai volontari delle 100 delegazioni del Fai. Fino ad oggi le Giornate di Primavera hanno coinvolto 5 milioni di persone. L' elenco dei tesori che stanno per essere mostrati al grande pubblico è lungo. Dagli acquedotti sotterranei di Matera, scavati nel ' 600, che saranno aperti per la prima volta (10-12/15-18) previa prenotazione (0835-333676), al museo della Marineria di Cesenatico (10-12 /15-19), al sito minerario di Formignano, sempre in zona, dove l' attività estrattiva risale a poco dopo l' anno mille (sabato 5, 8.30-12/14.30-18.30; domenica 6, 15-18.30). Via Giulia a Roma accoglierà i visitatori a Palazzo Farnese, sede della Rappresentanza diplomatica di Francia (sabato 9.30-18, domenica 9.30-13.30). A Palazzo Sacchetti e a Palazzo Falconieri (stessi orari). Tre monumenti dove si sono alternati artisti quali Antonio da Sangallo, Michelangelo, il Vignola, Giacomo della Porta e Borromini. A Reggio Emilia si potranno ammirare le 200 opere della collezione Maramotti: dipinti e sculture rappresentative delle principali tendenze degli ultimi 50 anni (sabato e domenica 15- 18.30). A Firenze aprirà l' Istituto di Scienze militari aeronautiche (sabato e domenica 10-17). Palazzo Mondadori, opera di Niemeyer, sarà eccezionalmente aperto al pubblico (sabato 10-12/14-16). Solo su prenotazione dal 31 marzo al 2 aprile al numero 02-75423157. * * * L' associazione Obiettivo la difesa di arte e natura In attività da 33 anni Il Fai Il fondo per l' ambiente italiano è una fondazione no profit per la tutela, la salvaguardia e la cura del patrimonio artistico e naturalistico italiano La nascita Il 28 aprile del 1975 per volontà di Giulia Maria Mozzoni Crespi, Renato Bazzoni, Alberto Predieri e Franco Russoli nasce il Fai: sulla scia del National Trust inglese I numeri Oltre 70 mila persone aderiscono al Fai: fondo che aprirà 550 beni in 240 città


Benedetti Giulio
Pagina 25
(28 marzo 2008) - Corriere della Sera

 


Gli architetti: stop a Libeskind
"Per il museo del contemporaneo si deve fare un concorso"


Cala una nuova ombra sul museo per l'arte contemporanea di Libeskind appena presentato in pompa magna dal sindaco alla Triennale. Ed è l'ombra lunga della grana giuridico-amministrativa che 12 anni fa portò davanti alla Corte di giustizia europea il Comune di Milano per aver affidato il progetto del Teatro Arcimboldi a Vittorio Gregotti senza passare per un bando di gara, procurando nel luglio 2001 alla giunta Albertini una censura (poi archiviata) per l'aggiramento delle norme comunitarie.

Ora l'Ordine degli architetti di Milano, lo stesso che vinse quel ricorso, scrive al Comune e avverte: ci risiamo. Quella volta, aggiunge, si accontentarono «della vittoria sul piano morale e giuridico» rinunciando per buon senso a chiedere «la chiusura del cantiere e la demolizione delle opere», ma adesso c'è tutto il tempo per una pronta marcia indietro del Comune: basta rimangiarsi l'annuncio che il cantiere di quel fantasioso museo-con-piscina che piace al sindaco (e tanto basta) sta per iniziare, e che finirà nel 2011. Dovrà invece partire una «procedura di trasparenza pubblica» che affidi a una giuria la scelta del progetto. Pazienza se ci vorrà qualche mese di più, se Libeskind (che una gara l'ha vinta, ma solo sul progetto generale di Citylife) dovrà vedersela coi colleghi, e se il decisionismo morattiano ne uscirà incrinato.

Una cannonata, appena mitigata dalla prudenza di chiedere formalmente proprio al Comune le carte (cioè il testo della convenzione tra amministrazione e Citylife) in cui è scritta la premessa del contenzioso sollevato: che cioè quel museo d'arte contemporanea (ex del design) è realizzato da Citylife (40 milioni nella stima ufficiale) in conto «oneri urbanistici dovuti». Ovvero è a tutti gli effetti un'opera pubblica sottoposta, se costa più di 5 milioni, al regime di gara secondo le direttive comunitarie e il decreto legislativo del 2006 che le ha recepite.

La presidente dell'Ordine degli architetti di Milano Daniela Volpi, severa ma sorridente, scrolla il capo: «Lo so che ci tireremo addosso le ire di tutti, da Libeskind ai politici, ai collezionisti che aspettano il museo da vent'anni, a chi ci accuserà di corporativismo. E non ci piace. Ma se quel museo è pubblico, per noi intervenire facendo rispettare la legge e la trasparenza è un obbligo. Per questo in fondo speriamo che non sia vero: se paga tutto Citylife, naturalmente può scegliere l'architetto e il progetto che gli pare».


Rassegna stampa archiworld

 

Gli architetti: stop a Libeskind
"Per il museo del contemporaneo si deve fare un concorso"
L´Ordine: per il progetto milanese del creatore del museo ebraico, fortemente voluto dal sindaco, non c´è stata gara


Cala una nuova ombra sul museo per l´arte contemporanea di Libeskind appena presentato in pompa magna dal sindaco alla Triennale. Ed è l´ombra lunga della grana giuridico-amministrativa che 12 anni fa portò davanti alla Corte di giustizia europea il Comune di Milano per aver affidato il progetto del Teatro Arcimboldi a Vittorio Gregotti senza passare per un bando di gara, procurando nel luglio 2001 alla giunta Albertini una censura (poi archiviata) per l´aggiramento delle norme comunitarie.
Ora l´Ordine degli architetti di Milano, lo stesso che vinse quel ricorso, scrive al Comune e avverte: ci risiamo. Quella volta, aggiunge, si accontentarono «della vittoria sul piano morale e giuridico» rinunciando per buon senso a chiedere «la chiusura del cantiere e la demolizione delle opere», ma adesso c´è tutto il tempo per una pronta marcia indietro del Comune: basta rimangiarsi l´annuncio che il cantiere di quel fantasioso museo-con-piscina che piace al sindaco (e tanto basta) sta per iniziare, e che finirà nel 2011. Dovrà invece partire una «procedura di trasparenza pubblica» che affidi a una giuria la scelta del progetto. Pazienza se ci vorrà qualche mese di più, se Libeskind (che una gara l´ha vinta, ma solo sul progetto generale di Citylife) dovrà vedersela coi colleghi, e se il decisionismo morattiano ne uscirà incrinato. Una cannonata, appena mitigata dalla prudenza di chiedere formalmente proprio al Comune le carte (cioè il testo della convenzione tra amministrazione e Citylife) in cui è scritta la premessa del contenzioso sollevato: che cioè quel museo d´arte contemporanea (ex del design) è realizzato da Citylife (40 milioni nella stima ufficiale) in conto «oneri urbanistici dovuti». Ovvero è a tutti gli effetti un´opera pubblica sottoposta, se costa più di 5 milioni, al regime di gara secondo le direttive comunitarie e il decreto legislativo del 2006 che le ha recepite.
La presidente dell´Ordine degli architetti di Milano Daniela Volpi, severa ma sorridente, scrolla il capo: «Lo so che ci tireremo addosso le ire di tutti, da Libeskind ai politici, ai collezionisti che aspettano il museo da vent´anni, a chi ci accuserà di corporativismo. E non ci piace. Ma se quel museo è pubblico, per noi intervenire facendo rispettare la legge e la trasparenza è un obbligo. Per questo in fondo speriamo che non sia vero: se paga tutto Citylife, naturalmente può scegliere l´architetto e il progetto che gli pare». Che quella speranza sia remota, per contro, lo suggeriscono le dichiarazioni di assessori e sindaco, la convenzione siglata in una prima versione nel dicembre 2006 e la stessa prima reazione dei portavoce di Citylife: «È pacifico che a chiedere quel museo e quel progetto è il Comune, nelle sue prerogative decisionali e di programmazione. Non penseremmo mai di sostituirci alla sua regia con un´iniziativa privata». E il Comune? L´assessore Masseroli replica solo che agli architetti la copia della Convenzione la spedirà quando sarà pronta: «Quella firmata nel dicembre 2006 è necessariamente da rivedere alla luce dell´ultima variante proposta, andrà in giunta per l´adozione solo a metà aprile e poi ci vorrà qualche mese per le osservazioni». È uno spiraglio da infilare per tentare di sbloccare l´impasse spostando l´impiego dei 40 milioni di oneri scomputati dal museo ad altri servizi? «Dico solo che noi preferiremmo fare il museo presto e bene con Libeskind. Riteniamo sia una decisione che l´amministrazione può prendere». Ma l´unica altra ipotesi sul tavolo sarebbe appunto bandire una gara come chiede l´interpretazione letterale delle norme. Usando magari il disegno di Libeskind come un "progetto di riferimento" insolitamente dettagliato. E vinca il migliore.


Maurizio Bono
La Repubblica Venerdì 28 marzo 2008
Pagina VI - Milano

 


L' intervista: L' economista: bene la vittoria ma solo con una strategia
Vitale: 'è un grosso rischio puntare tutto su questo evento'
'La città ha bisogno di un piano urbanistico e ambientale, temo che l' esposizione diventi terra di conquista'


L' Expo che è anche «un pericolo» e che per il milanese qualunque potrebbe essere pure «un danno». Urge in caso di vittoria «una strategia forte guidata dagli interessi pubblici e non da quelli privati dei costruttori». Urge tanto più per il «deplorevole livello della nostra amministrazione comunale». Marco Vitale, economista d' impresa, si iscrive tra quelli che sperano nella vittoria. Ma allega un robusto memorandum: «Ben venga l' Expo. Ma Milano non può appiattirsi su questo unico evento come la stella polare di una strategia cittadina. Questo lo può fare una città poco sviluppata che cerca uno spiraglio per uscire dall' anonimato. E invece sembra che ci si sia ridotti o si vince l' Expo o ci buttiamo tutti giù dalla Madoninna. Sbagliato. Sbagliatissimo». Professor Vitale, non sarebbe l' ultimo treno per la rinascita? «Non l' ultimo e neppure l' unico. Milano non può e non deve ridurre la sua strategia di sviluppo a questo singolo evento. Né può sedersi in attesa di Godot». Le sembra che ci sia un po' troppa propaganda sul tema? «Non è questione di propaganda ma di appiattimento su un unico obiettivo. Vale per ogni tipo di grande evento, e vale a maggior ragione per uno come l' Expo che non è più una manifestazione di grande importanza come è stato fino agli Anni Cinquanta». Però sembra piacere a tutti. «è più che comprensibile che susciti l' entusiasmo di alcune categorie economiche come i costruttori e gli immobiliaristi. Ma gli interessi di queste categorie non necessariamente coincidono con quelli della città. è un evento che va guidato e controllato molto bene, perché sul tema del deterioramento della vita dei comuni cittadini può portare dei peggioramenti. Insisto: la città ha bisogno di una sua strategia urbanistica, trasportistica, ambientale, in cui inserirlo». C' è il rischio che sia un affare solo per pochi. «Un rischio molto forte». Mentre il pericolo per il milanese qualunque è di avere milioni di visitatori, qualche albergo in più e fine? «Esatto. Con la qualità della vita peggiorata e con manufatti che resteranno lì. Ha presente quel mausoleo che c' è ancora dai Mondiali del '90?». L' albergo mai finito a Ponte Lambro. Forse tra un anno lo buttano giù. «Appunto». Professore, ma lei si augura una sconfitta? «No. Mi iscrivo tra quelli che lanciano un avvertimento: un evento così ha bisogno di un controllo strategico democratico forte per non essere un danno. Anche alla luce delle esperienze che ci sono state in altre città, sarei contento se vincessimo. Ma con la riserva di vedere come sarà sviluppato». Che cosa insegnano eventi internazionali in altre città, le Olimpiadi a Torino ad esempio? «Intanto quelle sono state Olimpiadi invernali. Le Olimpiadi normali sono un evento molto più importante dell' Expo. Detto questo, la storia di eventi internazionali simili dimostra esattamente quello che cerco di dire: possono essere molto positivi se si inseriscono in una strategia già esistente per la città. è stato così a Torino, dove le Olimpiadi non sono arrivate all' inizio della rinascita della città ma alla fine. Le potrei citare Valencia con l' America' s Cup, Genova con le Colombiadi». Una strategia in cui calare l' evento. Ma a Milano lei la vede? «Per ora no. Milano è una città senza strategia al di fuori di questo evento come se fosse l' ultima chance. è una delle poche grandi città che io conosco totalmente priva di una strategia di sviluppo». Crede che il sindaco Moratti e i partiti che la sostengono sapranno inventarsela? «Per quello che si è visto finora, temo di no».


GIUSEPPINA PIANO
La Repubblica 29-03-08, pagina 3, sezione MILANO


LIBRI
Giardini antichi e pop


Certo che dire Landscape design è più chic che parlare di architettura di giardini. Ma l' anima è sempre quella, storica, dell' inventare paesaggi artificiali in cui la nostra idea del naturale e il sogno antico di imporre la nostra architettura anche agli spazi aperti, si sposino e si fecondino a vicenda. Patrizia Pozzi è fra i pochi interpreti primari di questa disciplina in Italia, come ben mostra il percorso pluridecennale d' esperienza raccolto in questo volume. Dalla citazione classica, come nel recupero dello storico parco di Emilio Alemagna, alla visionarietà da «camera delle meraviglie», con echi d' arte pop, come in Kitchen garden 2007, la Pozzi opera incrociando e contaminando suggestioni passate e contemporaneissime, ma all' insegna di una tensione inventiva mai banale e di mero effetto. LANDSCAPE DESIGN di Patrizia Pozzi Electa, pp. 248, 49


Gualdoni Flaminio
Pagina 35
(30 marzo 2008) - Corriere della Sera

 

 

Il caso della settimana
Chinatown, protesta alla rovescia «Il casinò degli italiani ci rovinerà»


Via Sarpi 6. Dove c' era il cinema Aurora, spalancherà i battenti un piccolo casinò. Mille metri quadrati di sale da giochi nella Chinatown milanese. Ambienti di lusso. Tavoli verdi, roulette, black jack. Niente a che vedere con videopoker e slot-machine delle normali sale gioco. Il progetto, già bocciato due volte dal Consiglio di zona, dai vigili di zona, dal Comune, è stato ripresentato dalla società italo-spagnola Slot Game Srl, che ha già rilevato il Bingo di viale Jenner, rilanciandolo e portandolo in due anni ad incassi strepitosi. E la via Sarpi si divide. Mercoledì prossimo il voto decisivo in zona 8. Con i consiglieri stretti tra due fuochi: da una parte la comunità cinese che spinge per il no, per una volta unita agli inquilini del palazzo che confina con l' ex cinema e che hanno raccolto firme a volontà e al comitato Vivisarpi. Dall' altra i titolari decisi a chiudere la vicenda: o casinò autorizzato o club privé (ma cambia poco, salvo che non occorre più autorizzazione del Comune) o, infine, discoteca. Peiling Wang, 35 anni, titolare di «Oriente Store», uno degli storici negozi di via Sarpi, nonché consigliere dell' Ales, l' associazione di via, è esplicita: «I miei connazionali sono attratti-ossessionati dal gioco, non è un mistero. Tant' è che non sono stati autorizzati, negli anni, locali ben più piccoli in zona. Già parlano di degrado. È questa la ricetta per risanare la via Sarpi?». E la guerra sul casinò diventa benzina per lo scontro interno alla stessa Ales. Che non più tardi di una settimana fa si è spaccata, a causa dell' ingresso nel consiglio di nuovi grossisti cinesi. Franco Marini, l' ex presidente, è sconcertato: «Abbiamo una montagna di problemi. Questa via è una polveriera». Ma c' è anche chi, stremato dalla convivenza con i grossisti, non nasconde di preferire «un casinò ad un altro grossista». Il presidente della commissione Commercio di zona 8, Ivan Anelli, è prudente: «Abbiamo sempre dato parere negativo all' apertura di sale da gioco in zona. Certo questo progetto è un' altra cosa. Garantiscono controllo e sicurezza nell' area di trecento metri, hanno spiegato che sarà il primo di una catena, ci sono investimenti importanti, i soci spagnoli sono leader nel loro paese in questo settore. Qualcuno ha persino suggerito una mediazione, via libera in cambio della realizzazione di un asilo che qui manca». Ma da An arriva uno stop. «In via Sarpi non ci serve un casinò. Non è un buon inizio per riqualificare il quartiere», commenta Luca Bianchi, Intanto l' ex cinema sta cambiando faccia. La palazzina è stata ristrutturata esternamente. Il cantiere annuncia lavori imponenti. E Vivisarpi in una lettera al sindaco Moratti aggiunge: «Non comprendiamo come alla luce della delibera che prevede per la via Sarpi la creazione di un' isola ambientale e la pedonalizzazione, si possa immaginare di chiedere l' apertura di una sala gioco che, per sua natura e per il suo impatto sul territorio è in completo contrasto con tale prospettiva urbanistica. La richiesta era già stata presentata e bocciata lo scorso anno. La reiterazione della richiesta dimostra ancora una volta la sfrontatezza del richiedente a non voler prendere atto delle condizioni urbanistiche della zona».


D' Amico Paola
Pagina 9
(30 marzo 2008) - Corriere della Sera

 

 

 

 

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