Dal 07.11.2008 al 16.11.2008
Da la Repubblica del 7 Novembre 2008 L´Expo Il passato, I parcheggi, Il trash urbanistico - Renzo Piano: basta con i quartieri selvaggi
Assurdi i 10mila posti macchina di Citylife, a New York e Londra ho fatto progetti a posteggi zero
Non si picconano le zone degradate per rifarle fuori da ogni contesto, si realizza sopra, salvando la storia
"Noi europei abbiamo la chiave culturale per salvare le città che crescono: è il recupero attraverso la stratificazione"
FRANCO MANZITTI
Non attacca
direttamente gli amministratori cittadini e la politica
espansionistica: «Non voglio criticare la Moratti, ma fare un discorso
più in generale sulla fine della qualità diffusa che in Italia ha
permesso di costruire belle città e che ora manca - dice dalla tolda
del suo super-ufficio nella periferia estrema genovese di Vesima,
sospeso sul mare a forza nove di questo autunno di tempeste perfette -
. Dove è finita a Milano quella spinta fervida degli anni
Sessanta-Settanta, quella combinazione magica tra sindaci, mecenati,
architetti, finanziatori, dove c´era la grande capacità di ascoltare,
di inventare? Cosa è successo dopo e ora cosa sta succedendo?».
Il
suo progetto per Citylife fermato, quello del parco a Ponte Lambro,
ignorato a fine anni Novanta malgrado il timbro dell´Unesco, la diversa
visione sull´Expo 2015 in difficile gestazione? Piano va avanti
viaggiando tra un continente e l´altro, tra un progetto e l´altro, tra
una polemica e l´altra, tra un sindaco Alemanno a Roma, che mette i
diktat sull´Eur, e il sindaco Moratti, che innesca il boom milanese,
preferendo il cemento di Ligresti. Ma la sua provocazione di archistar
è ben più larga e universale e riguarda il come stanno sfigurandosi le
città nel mondo, la cultura fasulla della loro espansione, gli
sprofondamenti nel trash e nel brutto diffuso.
«Noi europei
abbiamo per fortuna la chiave culturale per salvare le città che
crescono: è il recupero attraverso la stratificazione. Non si abbatte a
picconate la periferia brutta per rifarla peggio e disincagliata da
ogni contesto di vita, ma si integra, si costruisce sopra, salvando la
storia».
Insomma, basta con il consumo scellerato di territorio?
«Anche
in Australia e in America incominciano a chiedermi di compiere questa
operazione, ora che hanno un paio di secoli di storia urbanistica alle
spalle. Trent´anni fa intellettuali fini dell´ambientalismo come Mario
Fazio ci suggerivano di recuperare i centri storici. Sfida raccolta e
vinta. Oggi dobbiamo salvare le periferie. Dalle banlieue parigine,
alle favelas del terzo mondo, ai nostri quartieri dormitorio sulle
colline di Genova, come nei sobborghi romani».
E a Milano, con tutti questi progetti, quell´operazione culturale come si realizza, dove si stratifica?
«Bisogna
smettere di costruire, di diffondere il brutto per poi chiamarlo trash.
Finisce che poi il trash urbanistico passa quasi per bello, basta che
ogni tanto ci si metta in mezzo quella che gli inglesi chiamano
perfidamente l´aringa rossa, magari un bel grattacielo svettante sul
quartiere spazzatura. Anche Milano non deve esplodere con nuovi
quartieri selvaggi, ma implodere su quanto già c´è. Le periferie sono
brutte, senza qualità diffusa, perché non ci hanno costruito le
condizioni della vera vita vissuta, che non si crea solo con case e
negozi. Ci vuole tutto il resto, a incominciare dal verde, dalle
scuole, dagli impianti sportivi, dalle librerie, dai giardini».
Ciò significa che bisogna rinunciare al concetto di città diffusa e pianificare dei margini artificiali?
«Va
tracciata quella linea verde oltre la quale non si deve costruire più,
e si badi bene che all´interno la ricostruzione stratificata è più che
possibile ovunque: fabbriche dismesse, parchi ferroviari abbandonati,
zone residenziali perdute nel degrado, quartieri fatiscenti. A Sud di
Milano ci sono grandi spazi appetibili, così come nella zona di
Rho-Pero, penso anche a viale Forlanini ad Est, dove immaginavamo tanti
anni fa il parco urbano di Ponte Lambro, proprio mentre stavamo
ricostruendo Sarajevo, città martire, con lo stesso criterio promosso
dall´Unesco».
Ma lei ha un´idea di dove può essere tracciata questa linea verde?
«Sono
i sindaci e gli amministratori che devono stabilirlo e non vorrei
gettare la croce addosso solo a loro. Si immagina che quella linea sia
sovrapponibile alle tangenziali, dove ci sono. Ma quella linea non
basta se non si risolve il problema del trasporto urbano. Come si fa a
progettare solo posteggi dappertutto?».
Ma le macchine sono sempre di più. Dove le mettiamo?
«A
Londra con l´ex sindaco Ken Livingstone abbiamo progettato quella
grande torre nel centro e sa quanti posteggi sono stati previsti? 42. A
New York con il sindaco Bloomberg stiamo trattando operazioni
urbanistiche a Manhattan a posteggi zero. Altro che i 10mila posti
macchina di Citylife. Il concetto è disincentivare l´uso
dell´automobile. Se non fai altro che costruire posteggi ingigantisci
il traffico e continui a proporlo nel centro delle città. Io a Parigi
abito in centro e non ho la macchina, sono ultra servito dai mezzi
pubblici».
Torniamo a Milano, perché lei sente questa grande delusione?
«Perché
mi ricordo com´era quando, da giovane architetto, ci sono arrivato al
seguito di Franco Albini, il maestro della Zero Gravity, l´architettura
come leggerezza, insieme a Marco Zanuso alla scoperta di nuovi
materiali, di nuove forme. Avevamo il terreno favorevole per esplorare,
ascoltare, confrontare. C´era un circolo virtuoso che garantiva la
qualità diffusa. Mi ricordo i dibattiti con Ermanno Olmi per progettare
Ponte Lambro».
E ora che le occasioni di costruire sono addirittura imponenti: basta pensare alle possibilità di Expo 2015?
«Se
lei mi chiede se sono Exposcettico o Expoentusiasta le rispondo che
sono entusiasta. Sgombro il campo dall´equivoco nato qualche tempo fa,
quando fui classificato sulla linea di Adriano Celentano, che era
contrario. Sono prudente. Non vorrei che l´Expo diventasse una
colossale operazione immobiliare e stop. Ho già un´esperienza in
materia, quella delle Colombiadi, l´Expo genovese del 1992 per i 500
anni della scoperta dell´America. Lì abbiamo recuperato l´esistente e
costruito un quartiere nel cuore della città, nel porto storico, che
rimane un segno forte e lo abbiamo fatto con equilibrio ambientale e
economico. Ricordo quello che mi raccomandava, in stretto dialetto
genovese, il sindaco di allora, Fulvio Cerofolini: "Mia Piano, qui nun
se straggia ninte ("Guarda Piano, che qui non si può sprecare niente").
Non abbiamo sprecato niente, abbiamo costruito su quel che c´era».
Ma
alla fine non è molto più stimolante creare dal nulla, costruire a
perdita d´occhio senza avere vincoli di spazi, di storia, di cultura?
«È
vero il contrario. La sfida dell´architetto è proprio quella di andarsi
a cercare i vincoli, i condizionamenti, gli obblighi dell´esistente.
Noi italiani abbiamo più degli altri questa capacità che io considero
la vera sfida da esercitare quando ci viene proposto un nuovo lavoro».
Tutto
questo non può essere travolto da una cultura diversa più globale, che
tiene conto dell´immigrazione, di una nuova società multietnica, già
ospitata dalle città?
«Siamo sempre stati meticci e non solo a
Genova e Venezia, città porto. Perché nei nostri quadri, nei nostri
affreschi compaiono spesso i mori, i personaggi di colore ambientati
nelle diverse epoche? Perché questa è la nostra storia».