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Lo studio milanese di Luigi Figini e Gino Pollini ha iniziato la sua attività dalla fine degli anni Venti, attraversando un cinquantennio di storia dell'architettura italiana. La loro attività si è svolta prevalentemente tra Milano e Ivrea, dove per Adriano Olivetti hanno costruito numerosi edifici. A Milano hanno lasciato tracce continue e durature del loro lavoro: una collezione di edifici diversi per destinazione, ubicazione e dimensione uniti però dalla stessa volontà di metodo, in equilibrio tra ortodossia del Movimento Moderno e sensibilità storicista. Riconsiderare oggi le opere milanesi di Figini e Pollini ha un duplice significato: retrospettivo, di analisi delle condizioni storiche in cui si trovavano ad operare tra fascismo, ricostruzione, e boom economico, e un altro più funzionale al nostro presente, di attenzione alla necessità del carattere "artigianale", empirico e ogni volta diversamente declinato, del progetto urbano.
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Un gruppo molto milanese, nel suo radicale rivendicare l’eticità dell’architettura nuova, unito quasi soltanto dalla bellissima carta intestata di gusto ancora futurista e da una gran voglia di affermare, importandolo in Italia, il linguaggio della modernità europea captato attraverso la copia di Vers une architecture che Depero porta a Pollini da Parigi e dalla lettura di qualche rivista tedesca. Tempo tre anni, e quattro articoli scritti per La Rassegna Italiana grazie all’intercessione di Rava che ha un padre gerarca, e il Gruppo 7 si scioglie come gruppo intellettuale di pressione, non prima di aver realizzato l’unica opera in nome collettivo, quella Casa Elettrica sul bordo di un laghetto nel parco di Monza che, seppur firmata dai soli Figini e Pollini, vede la collaborazione per alcuni ambienti e arredi (la cucina di Piero Bottoni, la stanza di servizio di Frette, i mobili di Libera) di altri soci del Gruppo. E’ il 1930. Lo studio Figini e Pollini è attivo dal 1929, in via Morone. La Casa Elettrica, con il bellissimo Bar Craja in via Filodrammatici e un paio di altre opere (libreria Treves, casa in via Annunciata), li impongono come riferimenti cittadini della nuova architettura razionale.
Collaborano, in quei primi anni, con Baldessari, roveretano come Pollini, ad alcuni lavori molto lineari ma sofisticati per Carlo de Angeli Frua, tra cui l’ampliamento delle stamperie, ma soprattutto partecipano alle Triennali, formidabile palestra di sperimentazioni tecniche ed estetiche almeno per tutti gli anni Trenta. Intanto, a Roma progettano con i BBPR il Palazzo del Littorio di fronte al Circo Massimo, con prospettive per così dire di “alta epoca” e a Milano Figini si costruisce un nido lecorbuseriano che ancora oggi incanta: i loro edifici hanno firmitas ma anche venustas. Come testimoniato anche dal loro progetto di concorso per l’E42, bellissimo, maestoso, vincitore e infine ripudiato, perché costruito poi da De Renzi. Nel ’33 costruiscono nel verde del Parco Sempione la Villa Studio per un artista, dove ispirandosi al Mies di villa Tugendhat ospitano tra diaframmi trasparenti e aeree pensiline, all’interno di un rigoroso recinto murario, sculture e bassorilievi en plein air di Melotti, di Fontana e di altri. Tra le tante ottime architetture nel Parco di quell’edizione, aiutata forse anche un po’ dal tema “cool”, la Villa Studio viene subito notata per la qualità indiscussa degli spazi e per quella speciale intonazione che verrà allora definita “mediterraneità”, ben diversa dall’intransigente europeismo degli inizi, solo pochi anni prima: “noi abbiamo in particolare cercato allora che le nostre opere, come fatti astratti, geometrici, conclusi, si ponessero sì in una posizione di isolamento e di distacco, ma anche che nello stesso tempo fossero in un più sicuro rapporto non soltanto con le preesistenze storiche, ma anche con quelle dello spazio naturale, vicino ed intimo, o lontano e comunque diverso: il suolo, la luce, l’ombra, gli alberi, le montagne, l’orizzonte”.
La Villa Studio viene notata in particolare da Adriano Olivetti, che chiama i due giovani ad Ivrea; il resto è storia. Figini e Pollini non sarebbero Figini e Pollini senza la Olivetti, ma anche la Olivetti non sarebbe la stessa senza di loro, che costruirono lungo più di vent’anni molte parti importanti della “città ideale”di Adriano. Iniziano nel ’34 con i primi uffici della ICO e proseguono fino alla morte di Adriano nel 1960: un’esperienza che permise a Figini e Pollini non solo di sfuggire per qualche tempo alle dure battaglie milanesi, ma anche di lasciare il segno, ancora oggi chiaramente visibile, della loro peculiare cultura della sobrietà, come approccio intellettuale e, alla fine, come linguaggio. I progetti per le scuole d’arte di Brera, in collaborazione con Terragni e Lingeri, redatti in successive versioni tra il ’35 e il ‘50 e mai realizzati, restano tra i più alti esiti del razionalismo italiano, e lasciano intravedere l’inizio di quella ricerca che porterà alle “facciate scozzesi” giocate su sottili slittamenti delle ascisse e delle ordinate, su interassi mutevoli capaci di rompere la griglia del telaio strutturale, in particolare nei prospetti della piccola serie di edifici milanesi degli anni ’50 e ‘60, ma non solo. Nell’immediato dopoguerra infatti, in via Broletto, le diverse facciate somigliano a spartiti con accordi sempre leggermente diversi, e sul fronte strada si “sente” ma si stenta a vedere il trucco della partitura orizzontale “zoppa”, con quella finestra più larga che incontrando le feritoie dei cassonetti tesse uno “scozzese” appena accennato, molto milanese. Il massimo risultato compositivo è conseguito con il minimo sforzo, dove lo sporto di un elegante ma austero balcone al piano nobile e l’ombra di un passo carraio impreziosito da un “acquario vegetale” incassato nella parete, frammento di natura estraniato e perciò metafisico, (certamente un’idea di Figini, che nel 1950 pubblica “L’elemento verde e l’abitazione”) arricchiscono l’apparente elementarismo della composizione. Siamo in anni “poveri ma belli”, e il pauperismo ottimista dei tempi ha la sua rappresentazione nelle tecniche, il cemento armato a vista, ma anche nello spirito, quel francescanesimo anche figurativo che Figini, ma anche Pollini, incarnarono negli anni della ricostruzione, e non solo nell’architettura religiosa.
La chiesa della Madonna dei Poveri, a Baggio, è troppo nota perché se ne riparli: il suo primitivismo razionale e prezioso, la sua semplice leggibilità ne fanno un’architettura quasi archetipica, ancora oggi attuale. La sua localizzazione periferica la penalizza rispetto a San Giovanni e Paolo, dove una fitta tessitura in mattoni si sostituisce ai conci in pietra di Finale rustica, ma l’ispirazione al sentimento razionale è ancora la stessa. In tutt’altra situazione e contesto, il piano per il quartiere Harrar-Dessiè, in partenza con Ponti ma in realtà poi debitore a Bakema e ai Ciam di quegli anni, con la turbina di edifici alti, il cuore verde dei servizi, e il basso tessuto edilizio di bordo risolto con la meastria di un intarsio molto umano in sezione, è uno dei migliori piani urbani degli anni ’50 a Milano, e ancora oggi funziona molto bene.
E siamo forse al lascito più importante di Figini e Pollini a Milano: i cinque edifici per il centro città (sei con via Broletto) che fra il 1953 – via Circo – e il 1989 – piazza Fontana – costruiscono per essere senza tempo, grazie a tessiture murarie complesse che creano spazi luminosi sempre diaframmati, tutti esempi di alto professionismo e di rigore intellettuale filtrato da reminiscenze addirittura paleocristiane. Gli edifici sono sotto gli occhi di tutti; via Circo con la doppia altezza dei corpi di fabbrica su strada e la sua pianta dinoccolata ma razionale, dove la soluzione è sempre quella dei “redents”, gli arretramenti e i cambi di registro materico, via via che si incontra il cielo, dove i cubetti di porfido dello scozzese sottostante trascolorano negli attici più aerei e chiari. Via Hoepli con la libreria al piede e la villa di Ulrico Hoepli all’ultimo piano, amorevolmente piantumata secondo geometrie collaudate, ancora un saggio di “casa a ville sovrapposte” ma ingabbiato nella destinazione terziaria. Largo Augusto, “troppo alto di due piani” diceva Pollini, che fascia un ex Jolly Hotel con logge continue in bianco di Montorfano, e una snella struttura in “pietra artificiale”, ovvero semplice calcestruzzo a vista. In via Mazzini, di fronte al San Satiro di Bramante, i vincoli sono molti, portico dell’adiacente Muzio compreso, e la soluzione costruttiva trova il suo apice: volumi spezzati, altezze diverse, facciata loggiata, blocchi di porfido e tetto a falde.
La stratificazione dei piani di facciata, le ombre portate sui vetri all’interno, la vibrazione dei chiaroscuri delle logge, i dettagli e gli incastri della pietra, sono momenti di una ricerca che si consolida isolato dopo isolato, ricordando Perret. Gli stessi elementi che ritroviamo nel progetto di concorso per piazza Fontana, e poi nel progetto del grande edificio porticato e loggiato previsto sul lato nord. Le logge fiorite avrebbero dovuto creare un fronte vegetale sopra il “sagrato verde” della piazza, piantumata da 100 ciliegi da fiore attorno alla fontana di Piermarini. Non è mai troppo tardi.
AA.VV.
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Electa, Milano 2010