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Vico Magistretti (1920-2006) è stato uno dei migliori architetti e designer italiani, esponente di un approccio alla progettazione che ha sempre rifuggito le costruzioni teoriche, sapendo operare attraverso quella che si potrebbe definire una «teoria della prassi». Gli architetti della sua generazione hanno saputo distillare il meglio della lezione modernista senza riprodurne gli ideologismi e le sterili rigidità, rappresentando, proprio in virtù di questa eterodossia misurata, il lascito migliore della cultura lombarda. Una posizione difficile ma anche di radicale modernità, che di fronte alla secca alternativa fra neoaccademismo e professionismo alienato costituisce forse l’unica risposta possibile in grado di generare una qualità costante lungo l’arco della propria carriera professionale.
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Il proficuo rapporto fra architetti e committenti capaci di rischiare ha consentito alla cultura progettuale lombarda di assumere un ruolo decisivo in quel processo di riedificazione non solo materiale, ma anche spirituale, che ha caratterizzato la città di Milano risorta dalle ceneri del secondo conflitto mondiale. Esistono vicende professionali in tal senso emblematiche, la cui parabola si intreccia con la storia del nostro paese nella seconda metà del Novecento. Figure di progettisti che hanno saputo infondere alla propria produzione una qualità costante per l’intera loro carriera, evitando a differenza di altri un certo ripiegamento e inaridimento, che pur in una generale crisi disciplinare a livello mondiale, negli anni Ottanta sancirà la quasi totale marginalità della produzione architettonica italiana.
Ludovico – Vico – Magistretti (1920-2006) si laurea esattamente nel 1945, anno in cui l’Italia celebra la sua Liberazione e pone le basi per la sua rinascita. Figlio d’arte – il padre Pier Giulio (1891-1945) era stato esponente di spicco della scena architettonica fra le due guerre – al di là del mero dato cronologico la sua carriera è paradigmatica di una «generazione di mezzo»(1), imbevuta sì dello spirito delle avanguardie e dello sperimentalismo anteguerra, ma libera dalla necessità di fare i conti con un passato tanto ricco quanto scomodo, attraverso quella catarsi che Ernesto Nathan Rogers invocava dalle pagine della rinata Casabella come atto di inevitabile contrizione. La generazione di Vittorio Gregotti, Luigi Caccia Dominioni, Vito e Gustavo Latis, Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti, Marco Zanuso e tanti altri, che ha saputo distillare il meglio della lezione modernista, senza riprodurne gli ideologismi e le sterili rigidità, ha sicuramente rappresentato, proprio in virtù delle sua eterodossia misurata, il lascito migliore della cultura lombarda. Magistretti è in tal senso esponente di un approccio alla progettazione che ha sempre rifuggito le costruzioni teoriche, sapendo operare attraverso quella che si potrebbe definire una «teoria della prassi»: «ideologicamente lontana dalla prospettiva “politica” sul destino dei centri storici e sul paventato futuro di una loro gentrification sociale, la posizione del professionismo fu forse quella di attenersi alle regole di una moralità intrinseca al mestiere: attinente dunque non a una teorizzazione percepita come astratta, ma alla tradizione di una forma di lavoro specifica e concreta, relativa quindi alla “veridicità” della proposta progettuale nei suoi contenuti tecnici, insediativi, tipologici e di linguaggio»(2).
Già nelle prime opere di Magistretti, appartenenti al primo decennio di attività professionale che precede l’exploit come architetto di riferimento della borghesia milanese sul finire degli anni Sessanta, si può ravvisare un’attenzione peculiare al dato tecnico-produttivo che tanta parte avrà nella più tarda attività di designer. È il caso della Casa per reduci (1948) al quartiere Qt8 a Milano, in cui vengono indagate le potenzialità della prefabbricazione e della standardizzazione applicate all’edilizia. O ancora della chiesa di Santa Maria Nascente (1953-1955), il cui primo progetto risale al 1947, in coincidenza con il bando per il quartiere modello della ricostruzione della VIII Triennale, i cui scarni partiti architettonici mostrano la più alta consapevolezza del valore dell’aspetto strutturale nella caratterizzazione formale del manufatto architettonico. In questo edificio, risultante dalla sovrapposizione di due circonferenze eccentriche, è senz’altro ravvisabile un’energia compositiva già matura «composta […], autorevole, per i suoi spenti ritmi e la suggestione interna ed esterna (specie nel portico) di scansioni vivificate dalla luce» (3).
Non che Magistretti fosse disinteressato all’ambito della pubblicistica e dell’elaborazione critica, la sua presenza assidua nelle diverse sedi di dibattito tecnico politico lo testimonia, dal ruolo attivo in quasi tutte le Triennali dal 1947 in poi alla partecipazione alla fondazione dell’MSA nel 1946, ma è senza dubbio evidente una sua predisposizione al “mestiere” e alla ricerca continua, corroborata da una capacità di reinventarsi del tutto peculiare. È ciò che avverrà sul finire degli anni Sessanta, quando l’attività dell’architetto milanese si orienterà sempre più nel campo del design, una “nuova giovinezza” iniziata quasi per caso, come lo stesso Magistretti ha esplicitamente ammesso, parlando della genesi della celebre sedia Carimate (1960) e ostentando quell’understatement che pare in realtà nascondere una profonda consapevolezza delle proprie scelte: «È venuto da me Cesare Cassina […] e mi ha detto: “Ma architetto, potremo mica farla noi questa sedia?”. Così è nata una lunga storia di collaborazione. […]. Ma devo dire che io non ho iniziato quella storia per danaro. Negli anni cinquanta io ho progettato quasi unicamente architetture. Ricordo benissimo che nel 1960 dovevo progettare una casa e mi è venuto un esaurimento nervoso. E ricordo che ho pensato: beh, facendo il design, mi pago il gioco del golf» (4).
A testimonianza della svolta nella continuità che coincide con la fine degli anni Sessanta, senza dubbio crinale decisivo e momento di crisi per la cultura architettonica italiana e non solo, è istruttivo mettere a confronto due opere di Magistretti emblematiche di tale parabola: il quartiere Pirelli di Cinisello Balsamo (1958) e l’intervento di Milano-San Felice (1966-69). Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un caso paradigmatico della produzione di Magistretti nel periodo della ricostruzione. Concepito in collaborazione con un team di professionisti formato da Eugenio Gentili Tedeschi, Nicola Righini e Egidio Dell’Orto, esso rappresenta senz’altro il culmine di un prolifico decennio in cui il rapporto di Magistretti con l’Ina-Casa era stato intenso e continuato.
Un periodo in realtà poco indagato nella sua lunga carriera, in parte occultato dall’immagine affermatasi a partire dagli anni Sessanta di architetto della borghesia milanese. Svoltesi dapprima con lo IACP e poi con l’INA-Casa, esse sono in realtà esperienze fondanti e dense di significato, che testimoniano di un apprendistato «sul campo» decisivo per spiegare i successivi sviluppi della produzione dell’architetto milanese. Significativo è che l’ambito di tali progetti sia quasi sempre extraurbano: Cinisello Balsamo, Morbegno, Odolo, Somma Lombardo, Lissone, Piacenza, Como sono solo alcuni dei luoghi dove Magistretti concepisce numerosi quartieri o complessi edilizi la cui cifra ricorrente è «uno stile minimale, certo, ma non per questo meno impegnativo, perché fatto non di soprastrutture decorative, e quindi inutili, ma di proporzioni e rapporti, nonché di forme derivanti da esigenze di pianta o di orientamento e quindi sinceramente funzionali»(5). E tutto ciò è evidente proprio a Cinisello, dove le pareti esterne delle stecche sono trattate a muratura con intonaco di finitura Terranova, sobrie e quasi ingenue nelle forme, con una planimetria ad andamento spezzato che abbraccia le tre torri a nove piani, la cui immagine è demandata all’evidenza del telaio strutturale e ai caratteristici tetti a due falde.
Tuttavia le differenze con un quartiere come Milano-San Felice, secondo caso emblematico che coincide con un momento tutt’affatto differente della carriera di Magistretti, sono più apparenti che reali. Nel concepire, assieme a Caccia Dominioni, forse il caso più rappresentativo di professionista di riferimento della middle class milanese, un quartiere non più destinato a ceti popolari, ma al contrario ad una clientela medio-borghese, desiderosa di fuggire dalla città per rifugiarsi in esclusivi complessi immersi nel verde, le analogie appaiono assai più significative delle differenze. Come infatti ha notato Fulvio Irace a Milano-San Felice «in maniera non si sa quanto fortuita o inconsapevole, persino la sagoma ellittica della hall di informazione – il cosiddetto Girasole – richiama l’analoga pianta della chiesa di Santa Maria Nascente […]. La garden city di Segrate porta paradossalmente a compimento quel progetto di urbanistica fluente e pittoresca che negli anni cinquanta la politica INA-Casa aveva impostato con la dettagliata prescrizione dei sui regolamenti edilizi» (6).
Così come il complesso la Viridiana (1969), che assieme a Milano-San Felice costituisce il precedente per una serie di infinite repliche, spesso banalizzate, di quartieri per ceti abbienti dilaganti negli anni successivi, i progetti seminali sul finire degli anni Sessanta hanno dunque le proprie radici e fondano la propria autenticità in molteplici esperienze precedenti. Il rapporto fra edifici a torre e corpi in linea di diverse dimensioni, la cura dei prospetti, dalla semplice grana in cemento punteggiata di circoscritti dettagli funzionali come i serramenti, i cassonetti dei copri tapparella e le scossaline, mostrano il debito con progetti come la casa torre di via Revere (1953-1956) o il palazzo di piazza Aquileia (1962-1964). In essi si può manifestamente leggere quella «qualità della modestia» (7) che contraddistingue l’intera produzione di Magistretti. A ben vedere non si tratta però di una scelta eminentemente formale, ma della naturale conseguenza di un approccio che non perde mai di vista il processo produttivo del manufatto, sia esso oggetto d’arredo o organismo architettonico.
Per la stessa ragione l’architettura di Magistretti è stata via via letta facendo spesso ricorso a coppie antinomiche, come moderna e tradizionale, tecnologica e rassicurante al tempo stesso, come si trattasse di un’ambiguità ricercata, in qualche modo opportunista. È il caso del complesso polifunzionale di via San Marco, dal tetto a falda e dall’intonaco rosso, ma dal telaio inequivocabilmente provocatorio, o della casa Bassetti ad Azzate (1960-62) e della casa Cassina a Carimate (1964-65), le cui falde di coperture sembrano fare il verso a un vernacolo locale pur presentando un’articolazione planimetrica schiettamente originale. Tutte queste architetture, a cui si possono associare anche le precedenti e forse meno «ambigue» casa Arosio ad Arenzano (1956-59) o il Club House di Carimate (1958-61), testimoniano invece della medesima logica «laica» e scevra di sovrastrutture ideologiche, comune ad una generazione di professionisti la cui adesione «al linguaggio moderno era avvenuta senza drammi, come scelta soprattutto tecnica e professionale, al di fuori di quella identificazione fra “etica” ed “estetica”, ingenua ma sofferta, che aveva segnato la generazione precedente» (8).
L’intensificarsi delle occasioni nel campo del prodotto di design è un dato oggettivo nella carriera di Magistretti a partire dagli anni Settanta. Se in tal senso può considerarsi opera di svolta la già citata casa di piazza San Marco (1969-1971), la sua successiva produzione pare mostrare una crescente influenza di elementari segni di riconoscimento, la cui figuratività è in parte derivata dal mondo degli oggetti d’arredo, senza tuttavia mai indulgere in manierismi o gesti gratuiti, ma anzi dimostrando di saper dominare come pochi il salto di scala dal disegno industriale a quello architettonico. Ancora una volta è l’attenzione ai processi produttivi a garantire la qualità del progetto, come dimostrano diverse opere, fra cui il Tecnocentro della Cassa di Risparmio di Bologna (1986-88) o il Centro Servizi Cavagnari della Cassa di Risparmio di Parma (1983-1985), in cui l’utilizzo di pannelli prefabbricati, tecnica diverse volte sperimentata da Magistretti, diviene momento fondamentale di caratterizzazione formale. Ma è l’uso di forti segnali di riconoscimento, come in questo caso i tetti piramidali, a costituire la cifra distintiva di molte architetture dell’ultima parte della carriera dell’architetto milanese.
Gli esempi forse più riusciti di questa «seconda giovinezza» si trovano di nuovo a Milano: oltre al progetto, purtroppo non realizzato, dell’edificio d’abitazione in piazzale Dateo (1983-1985), le cui aguzze falde sono solo il punto d’arrivo di una composizione a piastra dalle consapevoli valenze urbanistiche, la facoltà di Biologia di via Celoria (1978-1981) e il deposito Atm di Famagosta (1989-1999) costituiscono diverse tappe di un ventennio durante il quale ancora una volta Magistretti ha dimostrato di sapersi reinventare: «So solo che io ho avuto la fortuna di avere non delle certezze, ma delle chiarezze, che mi hanno sempre aiutato. In definitiva, mi sono sempre riconosciuto figlio del movimento moderno, figlio del razionalismo, anche se con spirito d’indipendenza, modificandone i termini […]» (9). Da queste parole traspare probabilmente una pacata serenità, certo priva di quella drammaticità e ricerca angosciata tipiche del razionalismo «militante» della generazione precedente, ma percorsa anche da una velata e sottile inquietudine, derivante dal costante rimettere in discussione se stessi. In definitiva un’antiretorica che ha nel caso per caso la sua cifra distintiva: «[…] quella che Le Corbusier chiama recherche patiente, l’incorporazione nell’architettura dei prodotti e degli usi della tecnologia per trarre da essi architettura» (10). È la sperimentazione continua e faticosa il filo conduttore di gran parte della cosiddetta generazione di mezzo. Una posizione difficile ma di radicale modernità, che di fronte alla secca alternativa fra neoaccademismo e professionismo alienato costituisce forse l’unica risposta possibile.
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(1) Cfr. F. Irace, “The Italian Vision”: l’architettura di Vico Magistretti, in F. Irace, V. Pasca, Vico Magistretti. Architetto e designer, Electa, Milano 1999, pp. 9-31.
(2) Id., p. 26.
(3) R. Pedio, Linea Lombarda: opere di Vico Magistretti, in “L’architettura cronache e storia”, n° 57, 1960, p. 152.
(4) Vico Magistretti, Cosmit, Milano 1997, p. 11.
(5) Irace, “The Italian Vision”…, cit., p. 13.
(6) Id., p. 24.
(7) Cfr. R. Pedio, Linea Lombarda: opere di Vico Magistretti, in “L’architettura: cronache e storia”, n° 57, 1960, p. 157.
(8) A. Pracchi, L’illusione della qualità, in M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1980, pp 279-319, p. 282.
(9) Vico Magistretti, Cosmit, Milano 1997, p. 17.
(10) Reyner Banham, 1. La situazione: quale architettura della tecnologia?, (1962), in Architettura della Seconda Età della Macchina. Scritti 1955-1988, Electa, Milano 2004, p. 83.
F. Irace, V. Pasca
Electa, Milano, 1999
G. D'Amato
Umberto Allemandi & C., Torino, 2000
M. Biagi
Fondazione Vico Magistrett, Milano, 2010