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L’Edilizia Residenziale Pubblica milanese si presenta oggi come un vasto patrimonio culturale, considerabile come un “museo diffuso” a scala metropolitana. Gli studi, le ideologie e le esperienze sul tema della “casa per tutti” hanno dato forma a parti di città dal disegno unitario e riconoscibile in grado di esprimere rilevanti valori figurativi dello spazio. L’itinerario metterà a confronto esempi paradigmatici realizzati nell’ambito dell’INA-Casa (1949-1963) con realizzazioni contemporanee. Potranno così essere colti elementi di permanenza e di discontinuità tra opere celebri, per scelte insediative e espressione linguistica, che contribuirono a rendere l’architettura milanese una “scuola” con un posto nella storia, e realizzazioni di architetti emergenti che hanno raccolto un’eredità difficile, aggiornandola con le forme della contemporaneità.
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Tali tematiche trovano una sintesi nella definizione dell’urbanità, ossia nel rapporto tra forma dello spazio e vita sociale. Pur non esistendo un legame deterministico tra forma del costruito e comportamento umano è indubbio che la scelta di un modello insediativo nonché i caratteri organizzativi e spaziali degli alloggi influiscano sulla qualità della vita. Quest’ultima, nelle case popolari, è ovviamente condizionata da oggettive difficoltà socio-economiche che i progetti e le realizzazioni portati a compimento nel quadro dell’architettura moderna milanese hanno contribuito a rendere più sopportabili. Nell’evoluzione insediativa dell’E.R.P. milanese le mutazioni nei tipi insediativi e nella concezione dell’abitare corrispondono ad una periodizzazione storica abbastanza precisa. Nei primi decenni del Novecento la promulgazione della legge Luzzatti (1903) e del successivo testo unico del 1908 creano le condizioni per interventi sistematici, promossi e realizzati dal Comune e dall’Istituto per le Case Economiche e Popolari di Milano. L’ideologia di fondo è quella del capitalismo riformista: fornire una casa, anche a riscatto, alle fasce sociali più povere ritenute potenzialmente pericolose significava migliorarne le condizioni di vita e quindi diminuire le probabilità di conflitti sociali. I quartieri costruiti si rifanno ai modelli insediativi ad alta densità della città ottocentesca; gli esperimenti con case isolate, sulla falsariga della garden city, inizialmente animati dalla volontà di guidare l’espansione di Milano con nuclei decentrati a bassa densità, hanno poco successo.
Nel quartiere Mac Mahon (1908) in cui case e villini isolati sono messi a confronto con edifici a corte alti quattro piani emerge chiaramente la maggiore capacità dei secondi di conformare lo spazio urbano. I modelli insediativi ricorrenti si basano quindi su isolati a blocco chiuso inseriti nelle maglie dei piani regolatori; questa scelta oltre ad essere consona ad un’immagine “tradizionale” della città, formata da strade e piazze, consente un elevato sfruttamento del suolo. Le condizioni di vita, pessime nelle case d’affitto di iniziativa privata, migliorano non solo grazie ad alloggi più ampi, ma soprattutto per le innovazioni distributive e tecnologiche presenti anche nei quartieri “ultrapopolari”: ad esempio nel quartiere Regina Elena il corpo scala sostituisce il ballatoio, mentre tutti gli alloggi dispongono di servizi collocati nell’intercapedine muraria. I risultati migliori sono ottenuti nei quartieri, tipologicamente più avanzati come quelli dell’Umanitaria (1905 e 1908), in cui le cortine edificate dei blocchi diventano semiaperte e permeabili, mentre le abitazioni sono integrate da una ricca dotazione di servizi collettivi.
Intorno agli anni Trenta avviene un cambiamento piuttosto radicale grazie soprattutto all’attività del gruppo di architetti razionalisti riuniti intorno a Casabella. La “casa popolare” diventa la “casa per tutti”: uno dei fondamentali fattori innovativi, comune a tutto il Movimento Moderno, è l’inedita attenzione nei confronti dell’abitare con l’obiettivo di “aiutare l’uomo alienato del nostro tempo a ridare significato e verità alla sua vita”. Il blocco aperto, i volumi stereometrici e l’essenzialità dei linguaggi sono solo l’aspetto più evidente di un rinnovamento profondo. Esso si articola innanzitutto nella ricerca di un ordine nella composizione urbana non solo geometrico ma sostenuto da nuove figure spaziali in cui spazi relativamente densi si alternano ad altri più rarefatti; in secondo luogo la progettazione si avvale di regole aggregative precise, funzionali alle misure umane, e di moduli tipologici elementari che permettono di configurare spazi domestici corretti nonostante le ristrette quantità di superficie a disposizione; infine il verde, non più confinato nei parchi, ha un ruolo più rilevante: incuneato nella residenza arricchisce lo spazio abitabile esterno pensato in continuità con l’interno degli alloggi. Questi principi sono espressi in modo compiuto dai progetti a scala urbana come Milano Verde (1938) o Quattro città satelliti alla periferia di Milano (1940); i quartieri effettivamente costruiti, dei quali il primo fu il S. Siro-Baracca, non hanno inciso molto sulla forma urbana nonostante ci siano stati esempi paradigmatici come il Fabio Filzi.
Con la ricostruzione e la stagione dell’INA-Casa (1949-1963) i princìpi del Movimento Moderno si coniugano con una maggior attenzione al contesto e alla dimensione sociale dell’abitare. Nella progettazione insediativa compare il tema del paesaggio, sviluppato nel QT8 (1943-1963) dove il verde ha un valore pari a quello del costruito, nel Feltre e in parte nel quartiere di Cesate (1951-1954) in una “eccezionale” declinazione organicista del razionalismo milanese. Gli architetti razionalisti riescono costruire relazioni sia con la scala microurbana, ad esempio attraverso i grattacieli orizzontali del quartiere Harar (1951-1955) o i grandi corpi analoghi a dei redents del Feltre, sia con quella dell’unità di vicinato. Sempre nell’Harar l’impianto a “turbina” configura un luogo di centralità relativamente circoscritto mentre gli edifici alti si confrontano con un tessuto di case basse in cui la tentazione del vernacolare resta lontana. Il rigore linguistico degli anni Trenta lascia spazio a modulazioni espressive più complesse. La scarsità di risorse stabilisce dei limiti che sottolineano l’eloquenza gentile e trattenuta dell’architettura colta milanese in cui la forma è sempre pertinente con le scelte tettoniche e costruttive. Durante la fase di maggior espansione della città avvenuta a causa dei flussi migratori, tra gli anni Sessanta e Settanta, le realizzazioni sono quantitativamente rilevanti ma le scelte insediative diventano schematiche. Restano delle prove di bravura come le torri del Gratosoglio dei BBPR o alcuni edifici del Comasina. In questi anni i quartieri popolari dilatano la periferia alternandosi a fabbriche, infrastrutture e frammenti di campagna. Complessivamente i quartieri di E.R.P. rispetto al restante tessuto residenziale, manifestano un disegno urbano più omogeneo e ordinato. D’altro canto le localizzazioni sono state sempre estremamente periferiche e in aree a basso costo; per questo motivo e per la tardiva o assente realizzazione dei servizi progettati, le relazioni con la città sono state frequentemente difficoltose trasformando i quartieri, soprattutto degli anni Sessanta-Settanta, in “dormitori” contrassegnati da degrado e problemi sociali.
In seguito all’esaurimento dei fondi GESCAL e alle congiunture politiche ed economiche la costruzione di nuove case popolari ha sensibilmente rallentato, spesso arrestandosi del tutto. Recentemente il concorso “Abitare Milano”, indetto dal Comune di Milano nel 2005, ha consentito di realizzare quattro nuovi insediamenti di limitate dimensioni ma culturalmente incisivi come le case di via Civitavecchia e quelle di via Gallarate. Oggi abbiamo di fronte un vasto patrimonio edilizio, in parte privatizzato e sovente riqualificato tramite “Contratti di quartiere”, che può essere considerato un “museo diffuso” a scala metropolitana in cui gli studi e le esperienze sul tema della “casa per tutti” si sono depositati in un immenso patrimonio culturale.