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Il condominio milanese

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A cura di Paolo Brambilla

Se a Roma la residenza borghese trova una forma nel tipo specifico della palazzina, a Milano, almeno fino alla seconda guerra mondiale, si rispetta la gerarchia tra fronte, retro e cortile del palazzo tradizionale, aggiornando il repertorio stilistico-formale della facciata e degli spazi comuni (come l’androne e le scale) all’evolvere dello stile e del gusto. L’unica variante praticata è l’edificio a torre, che appare come un’eccezione all’interno del tessuto urbano con i grattacieli di Alessandro Rimini, Mario Bacciocchi, Emilio Lancia e Gio Ponti. Il Razionalismo, oppresso da regolamenti edilizi conservatori e da una committenza che nutre un certo sospetto nei confronti degli avanguardismi provenienti d’oltralpe, non riesce a scardinare il consueto rapporto tra tipo e lotto edificabile, dando vita agli interessanti esiti progettuali di Terragni e Lingeri nelle case in corso Sempione e in via Pepe. L’intento di questo itinerario attraverso i più significativi condomini della Milano del ‘900 è di ricercare le costanti che segnano una possibile via lombarda all’architettura residenziale.

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L’intento di questo itinerario attraverso i più significativi condomini di Milano è di ricercare le costanti che segnano una possibile via lombarda all’architettura residenziale, in particolare quella destinata ad una borghesia industriale che, più di ogni altra componente della società, ha impersonato le ambizioni e lo spirito della città di Milano.

 

Più volte si è fatto ricorso a categorie come il senso della misura, la riservatezza formale o l’understatement per cercare di connotare quella sensibilità che troverebbe una discendenza aristocratica nel Neoclassico e nell’architettura del Piermarini.

Se a Roma la residenza borghese trova una forma nel tipo specifico della palazzina, a Milano, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, rispetta la gerarchia tra fronte, retro e cortile del palazzo tradizionale, aggiornando il repertorio stilistico-formale della facciata e degli spazi comuni (come l'androne e le scale)  all’evolvere dello stile e del gusto, accogliendo prima il Liberty, poi il Novecento, ed infine un generico stile moderno. L’unica variante praticata è l’edificio a torre, di sapore americaneggiante, che appare sempre come eccezione all’interno del tessuto urbano con i grattacieli  di Alessandro Rimini, Mario Bacciocchi, Emilio Lancia e Gio Ponti (e più tardi, negli anni del miracolo economico, con le torri residenziali di Vico Magistretti, Alessandro Pasquali o Luigi Mattioni).

 

Il Razionalismo, oppresso da regolamenti edilizi conservatori e da una committenza che nutre un certo sospetto nei confronti degli avanguardismi provenienti d’oltralpe, non riesce a scardinare il consueto rapporto tra tipo e lotto edificabile, nonostante i tentativi di Terragni e Lingeri nelle case in Corso Sempione e in via Pepe. Mario Asnago e Claudio Vender conducono un percorso che dalle prime prove novecentesche e metafisiche, approda a un razionalismo nitido e raffinato negli edifici di viale Tunisia e via Albricci.

 

Gio Ponti è il protagonista di un rinnovamento moderato ma progressivo, che passa attraverso la definizione della “casa all’italiana”  espressa per la prima volta nella serie di “case tipiche” in via De Togni e che culmina nella “facciata espressiva” della casa-manifesto di via Dezza. Ponti predilige per le sue facciate i colori più accesi, inno ad una vitalità domestica tutta italiana, ma in generale la materia con cui  si compongono le abitazioni milanesi è fatta di geometrie severe e cromie scure, secondo un rigore già presente nei monumenti cittadini, in cui la diffusione  del Ceppo di Grè, pietra grigia e porosa proveniente dalle cave bergamasche, e del mattone, desunto dalla tradizione rurale padana, caratterizzano in modo inequivocabile la gamma cromatica della città.

 

Giovanni Muzio utilizza il klinker, versione aggiornata del tradizionale mattone, come elemento caratteristico di tutta la sua produzione architettonica: lo si ritrova  nelle  sue chiese, alla Triennale, nell’Università Cattolica ed anche nelle case di Piazza Repubblica. Negli anni Cinquanta il klinker è oggetto di sperimentazione, in particolare nelle mani di Luigi Caccia Dominioni, che ne sonda le potenzialità con variazioni geometriche e di finitura superficiale: le sue mattonelle créme caramel lucido saranno imitatissime, preferibilmente abbinate a intonaci bruni e balaustre di metallo nero.

Il superamento dello schema fonte/retro è possibile solo dopo la guerra, nei grandi edifici a lastra di Piero Bottoni in corso Buenos Aires e corso Sempione, ma anche nelle meno eclatanti scomposizioni volumetriche di Figini e Pollini in via Broletto, Vito Latis in via Lanzone o Pietro Lingeri in via Gioia.

L'astrattismo è adottato in modo programmatico come linguaggio compositivo nelle case di Mariani e Perogalli e rapidamente diventa un lessico condiviso nelle facciate degli anni Cinquanta di Gigi Ghò, Tito Varisco, Asnago e Vender, ma anche nelle case che Caccia Dominioni realizza fuori dal centro storico, in via Nievo e Piazza.

L’attenzione per l’aggiornamento tecnologico trova dei raffinati interpreti nella generazione degli architetti che contemporaneamente all’attività edilizia affrontano il nascente campo dell’industrial design: la standardizzazione, la modularità, l'invenzione strutturale sono indagati sia da Marco Zanuso, nelle celebri Case Feal, sia da Mangiarotti e Morassutti, in particolare nella “Casa a tre cilindri”.

 

Accanto a queste architetture che si sforzano di proiettare la borghesia milanese fuori dal provincialismo in cui si era rinchiusa, impegnata nell’aggiornamento tipologico, linguistico e tecnico dell’edilizia cittadina, compare una tendenza per certi versi opposta, assai più sensibile alla presenza del passato, in particolare in occasione dell’inserimento nel centro storico, o nel confronto diretto con il monumento. Già sul finire degli anni Quaranta, la Casa al Parco di Ignazio Gardella e  la residenza che Luigi Caccia Dominioni costruisce sulle rovine del palazzo di famiglia in piazza Sant’Ambrogio preannunciano una nuova stagione per l’architettura italiana, anticipando di un decennio le riflessioni che Ernesto N. Rogers porterà avanti sul tema delle preesistenze.  È così che non solo Gardella, Caccia e i BBPR, ma anche Perogalli, lo studio GPA Monti e Figini e Pollini, dimostrano una crescente attenzione al contesto, talvolta con concessioni storiciste o Neo-Liberty, ma con una costante attenzione all’aggiornamento tecnologico.

La stagione del condominio milanese sembra chiudersi con gli anni Settanta, con la rinuncia a vivere la metropoli in favore di un esilio volontario in quartieri satellite capaci di offrire una rassicurante tranquillità. Il nuovo modello residenziale, disegnato da Caccia e Magistretti, è  San Felice, il primo di una serie di grandi insediamenti edificati nella cintura verde di Milano.

 

Molti autori, dopo i primi entusiasmi, faranno di queste esperienze della ricostruzione un bersaglio, accusando con asprezza i suoi protagonisti di eccessiva aderenza alle richieste della committenza, di confondere la società con la clientela, la figuratività con l’esteriorità, l’invenzione con la trovata. I  professionisti milanesi, in sintesi, avrebbero rinunciato alla tensione morale del Razionalismo illudendosi di trovare la ragione del progetto nella chimera della qualità, perdendosi in questioni puramente stilistiche. In anni più recenti è stato possibile rileggere l’opera di questi architetti e riconoscerne non solo la capacità di dominio del progetto, ma anche sondarne con più attenzione il pensiero.

 

L’architettura a Milano negli anni Ottanta e Novanta ha trovato occasione di lavoro più che altro su progetti di edilizia residenziale agevolata e convenzionata, con rari interventi nel tessuto sedimentato della città. Alcuni protagonisti del dibattito architettonico, quali Aldo Rossi o Vittorio Gregotti, sono intervenuti solo in complessi di grandi dimensioni e in ambiti periferici, mentre le poche residenze urbane realizzate, a firma di autori come Mario Bellini, rimangono  episodi isolati.

Gli interventi recentemente realizzati su aree dismesse, ma interne alla struttura urbana, devono essere ancora oggetto di valutazione: in alcuni di essi, tuttavia, si può riconoscere un ritorno al tema del condominio declinato “alla milanese”. I primi esiti sono già visibili, ad esempio, nelle case di Massimilano Fuksas nell’ex area OM e di Cino Zucchi nell’area del Portello, ma anche nelle opere ancora in fase di realizzazione di progettisti come Guido Canali e Antonio Citterio.

 

PAOLO BRAMBILLA