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Casa per tutti: l'abitare tra sperimentalismo e tradizione

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A cura di Marco Lucchini Raffaele Pugliese

Le periferie sono oggi interessate da trasformazioni in cui la residenza appare marginalizzata: gli insediamenti intensivi destinati a colmare le aree dismesse e la dilagante urbanizzazione diffusa nelle aree più esterne appaiono estremamente deboli nei valori figurativi; lo spazio sembra aver perso i caratteri legati al luogo e allo stare, divenendo esperibile non più nelle figure urbane tradizionali ma nella dinamica delle reti di circolazione e connessione. Gli insediamenti realizzati nell’ambito dei programmi di edilizia residenziale pubblica conservano invece un’immagine architettonica solida da cui dipende la loro urbanità, ossia una relazione efficace tra forma dello spazio urbano e vita sociale. I quartieri di edilizia popolare, nonostante le contraddizioni e i problemi, a differenza di quanto accade nelle “aree residenza” prodotte dalla speculazione, alla scala microurbana presentano rapporti coerenti tra tipologia e morfologia in grado di conformare porzioni di tessuto urbano dotate di un’identità propria. Essi condensano differenti idee di città e possono essere considerati come un enorme “museo diffuso” a scala metropolitana in cui sono depositati i modelli insediativi che hanno contribuito a dare un’identità alla “casa per tutti”.

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Le periferie sono oggi interessate da trasformazioni in cui la residenza appare marginalizzata: gli insediamenti intensivi destinati a colmare le aree dismesse e la dilagante urbanizzazione diffusa nelle aree più esterne appaiono estremamente deboli nei valori figurativi; lo spazio sembra aver perso i caratteri legati al luogo e allo stare, divenendo esperibile non più nelle figure urbane tradizionali ma nella dinamica delle reti di circolazione e connessione.

 

Gli insediamenti realizzati nell’ambito dei programmi di edilizia residenziale pubblica (E.R.P.) conservano invece un’immagine architettonica solida da cui dipende la loro urbanità, ossia una relazione efficace tra forma dello spazio urbano e vita sociale. L’immagine a cui si fa riferimento non è certo quella legata ai ricorrenti episodi di cronaca nera manipolati dai media per ventilare ipotesi di demolizione dei quartieri di (E.R.P.) ipotizzando un’indimostrabile relazione tra architettura e degrado sociale.

 

Con il termine “immagine” si intende invece il “valore rappresentativo” dell’architettura determinato non solo da tutti gli aspetti propri della disciplina come le soluzioni tipo-morfologiche, i caratteri distributivi e tecnologici dei manufatti, ma anche dagli avvenimenti sociali, economici e politici.

I quartieri di edilizia popolare nonostante le contraddizioni e i problemi, a differenza di quanto accade nelle “aree residenza” prodotte dalla speculazione, alla scala microurbana presentano rapporti coerenti tra tipologia e morfologia in grado di conformare porzioni di tessuto urbano dotate di un’identità propria. Essi condensano differenti idee di città e possono essere considerati come un enorme “museo diffuso” a scala metropolitana in cui sono depositati i modelli insediativi che hanno contribuito a dare un’identità alla “casa per tutti”.

Questa condizione, potenzialmente positiva, ha origine nei primi decenni del Novecento quando la legge Luzzatti del 1903 e il successivo testo unico del 1908, creano le premesse per interventi sistematici, promossi e realizzati soprattutto dagli  I.A.C.P., in cui si stabiliscono i caratteri morfologici della casa popolare. I modelli insediativi praticati dai progettisti, fra i quali uno dei più noti è Giovanni Broglio, si rifanno alle soluzioni ad alta densità codificate nella città ottocentesca, ossia isolati a blocco chiuso o semiaperto definiti secondo le geometrie della maglia stradale. Il passaggio dall’isolato alla città avviene, a seconda dei contesti, in seguito ad un principio di aggregazione semplice oppure secondo una logica più complessa per cui il tessuto urbano si forma con l’interazione tra residenza e fatti urbani a grande scala.

 

La compattezza della cortina continua, l’uniformità tipologica e la presenza di servizi comuni (asili, lavatoi) si coniugano con l’omogeneità sociale in un’immagine di coesione, molto più sbiadita rispetto ad esempi europei come le Höfe Viennesi in cui l’edificio coincide con l’isolato assumendo un ruolo primario nel paesaggio urbano, ma comunque leggibile.

 

Un’alternativa di breve durata sono gli esperimenti di edificazione a bassa densità concretizzatisi in “villaggi giardino” composti da una semplice giustapposizione di case basse isolate nel verde prive tuttavia di quella ricchezza nei valori figurativi dello spazio presenti negli esempi anglosassoni come Letchworth. Rispetto a questi modelli dove l’alloggio individuale concentra tutte le funzioni all’interno dell’abitazione –esattamente come nella casa borghese- gli isolati a blocco, purchè conformati con un minimo di articolazione, consentono una certa socializzazione sia negli spazi aperti interni sia nei servizi collettivi.

 

La riconoscibilità a volte si trasforma in segregazione: negli anni trenta a Milano le case dell’I.F.A.C.P. sono articolate in economiche, popolari e ultrapopolari a seconda che siano destinate alla piccola borghesia, ai lavoratori o ai “poverissimi”, sfrattati dalle loro abitazioni nel centro storico. Mentre le prime, cercano una forma di decoro nei linguaggi semplificati neorinascimentali o neobarocchi ad imitazione della casa borghese le ultime, localizzate all’estrema periferia, si distinguono per la riduttività nella conformazione degli spazi e la povertà dei servizi.

Gli studi di Samonà (1935), ancora oggi attuali, chiariscono come la residenza popolare appartenga ad un sistema collettivo e sia il risultato di un processo progettuale ove, diversamente dalla casa individuale, i gradi di libertà sono limitati da vincoli dovuti a ragioni obiettive. Fra queste la scarsità di risorse vincola le scelte progettuali ad un ordine teso a subordinare sia l’oggetto architettonico e le parti da cui esso è composto sia le relazioni tra l’oggetto stesso e la città, a dei criteri invarianti.

 

L’attività di Franco Albini, nell’ambito dell’Edilizia popolare, è connotata da una rilevante continuità, coniugando un processo rigoroso con l’introduzione di innovazioni e scelte poetiche. La ricerca dell’ordine è testimoniata in modo paradigmatico nel quartiere Fabio Filzi (1938),  a Milano, dalla collocazione degli edifici nello spazio, allineati secondo l’asse eliotermico  ortogonalmente al margine della strada e dal linguaggio conciso ed essenziale esito di criteri razionali e non di scelte soggettive. I tipi a lama isolati nello spazio, protagonisti anche del progetto Milano Verde (1938) condividono con le celebri Siedlungen la critica nei confronti delle lottizzazioni a isolati e la ricerca di un nuovo ruolo per la natura nella città, subordinato però alla conformazione dello spazio aperto definita dal costruito. L’anelito all’ordine caratterizza le ricerche condotte da Albini nel periodo della ricostruzione, arricchito dalla volontà di individuare innovativi rapporti tra tipo e forma e dall’introduzione di elementi figurativi tratti dalla tradizione costruttiva del contesto. Nelle case milanesi realizzate con Ignazio Gardella nel quartiere Mangiagalli (1952) il rigore tipologico si coniuga con una volontà espressiva che anima i movimenti del volume edilizio soggetti alla regola imposta dal ritmo dei corpi scala.

 

L’identità dell’edilizia residenziale pubblica è fortemente influenzata, dalla logica del quartiere, interpretata, nell’ambito della politica connessa all’INA-Casa, come mediazione tra la comunità e la città e accolta favorevolmente sia dalla cultura razionalista, sia da quella di matrice organica.

I rapporti complessi tra i singoli insediamenti e la città innescati dall’espansione insediativa, e le limitazioni imposte dai programmi INA, che costringono i progettisti a lavorare su parti di città concluse, impediscono un reale controllo sulla forma urbana; la progettazione si rivolge alla dimensione domestica della piccola comunità configurando i quartieri -luoghi in cui la collettività può riconoscersi- tramite scelte poetiche determinate in modo prevalente dai linguaggi. Questi variano tra le composizioni parattatiche di Quaroni e Ridolfi al Tiburtino (1954), che avvicinandosi al neorealismo, cercano di riprodurre i caratteri formali dell’edilizia tradizionale, alla rappresentazione del sistema costruttivo con l’esposizione in facciata di rigorosi reticoli geometrici che caratterizza l’edificio di Figini e Pollini nel quartiere Harrar (1955).

Le proposte di riforma urbanistica degli anni sessanta rappresentano un tentativo di razionalizzare la  crescita della città conseguente alla forte immigrazione interna; la mancata modifica dei meccanismi legati alla rendita fondiaria, determina una localizzazione periferica, dei quartieri popolari programmati in aree disposte a corona intorno alla città. La scarsità dei servizi, la carenza di infrastrutture trasforma i “quartieri autosufficienti” realizzati nell’ambito dei finanziamenti  GESCAL in “quartieri dormitorio” in cui l’assetto insediativo, esito di una mera giustapposizione di tipi edilizi, è un pallido e distorto eco dell’architettura del Movimento Moderno. Solo sporadici esempi, come il Gratosoglio dei B.B.P.R. (1963) mostrano un disegno urbano unitario, ottenuto con regole in grado a ridurre i tipi e la loro collocazione nello spazio a pochi casi invarianti, comunque non sufficiente a riscattare la complessiva condizione di segregazione.

 

Negli ultimi vent’anni, a scala nazionale, nonostante l’impegno culturale dei progettisti più attenti, la qualità complessiva dei quartieri di edilizia residenziale pubblica si è rivelata problematica; non sono tuttavia mancati pochi ma significativi episodi alta qualità come l’espressivo edificio a Bollate di Guido Canella (1978) o l’intervento alla Giudecca a Venezia di Gino Valle, dove l’architetto è riuscito ad affrontare un’operazione di riqualificazione del tessuto urbano radicando profondamente nel contesto la propria architettura sia alla scala insediativa sia sul piano figurativo.

 

I progetti di trasformazione e riqualificazione che saranno avviati sui quartieri popolari aprono una possibilità per la cultura architettonica di intervenire nei processi reali di trasformazione della città riprendendo la tradizione di impegno e rigore e forse riscattando le illusioni, di alcuni casi culturalmente molto validi, come le grandi strutture residenziali a scala macrourbana che, nonostante le interessanti premesse teoriche, falliscono nel tentativo di portare la molteplicità della città all’interno di un singolo oggetto.

 

MARIO LUCCHINI

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE SUL TEMA DELLA CASA POPOLARE

 

R. Pugliese

La qualità della produzione abitativa

in “Edilizia Popolare”, n. 180, settembre-ottobre 1984

 

AA.VV.

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Società Editrice Edilizia Popolare, Milano 1993

 

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La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta

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Una galleria di architettura moderna. Il villaggio INA-Casa di Cesate

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M. Lucchini

Case popolari: impegno, rigore e illusioni

in “L’Architettura Cronache e Storia”, n. 580, febbraio 2004

 

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La casa popolare

in Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, a cura di G. Ciucci, G. Muratore, Electa, Milano 2004

 

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La casa popolare in Lombardia 1993-2003

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R. Pugliese

La Casa Sociale. Dalla legge Luzzatti alle nuove politiche per la casa in Lombardia

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La casa e la città razionalista

in F. Bucci, F. Irace, Zero Gravity. Franco Albini. Costruire la modernità, catalogo della mostra, Triennale Electa, Milano 2006

 

C. Bergo, R. Pugliese (a cura di)

L’abitazione sociale. Un anno di colloqui

Unicopli, Milano 2007

 

M. Baffa

Progetto e tradizione in alcune opere di Albini

in “Edilizia Popolare”, numero monografico su F. Albini, n. 237