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Roberto Menghi: il sottile filo rosso della memoria

Dal 26.06.2013 al 26.07.2013

Mercoledì 19 Giugno la proiezione del film dedicato alla figura di Roberto Menghi ha aperto un intenso dibattito fatto di testimonianze sull’architettura del novecento

Non capita spesso che il racconto biografico si innesti con vitalità nel cuore pulsante del novecento; e che lo faccia mettendo in evidenza la contrapposizione tra la celebrazione dei suoi aspetti più ricorrenti e quelli invece dimenticati, rimasti in ombra, ma non per questo espressione di numerosi e poco riconosciuti episodi di qualità. E' il caso del lavoro effettuato sulla figura di Roberto Menghi dalla figlia Veronica: un video, con il dibattito che ne è seguito mercoledì 19 giugno presso la sede dell'Ordine, in grado di portare alla luce episodi, sensazioni, architetture che rientrano in quella stagione irripetibile della cultura del dopoguerra, e che per i ricorsi della storia sono state tenute immotivatamente in disparte, quasi a portare alle estreme conseguenze quella linea di understatement di cui tutta l'esperienza milanese di quegli anni, dall'architettura al design – che invero, soprattutto negli anni Cinquanta, non possono essere considerate due cose distinte – è permeata.

“Tutto il lavoro – afferma Veronica Menghi nell' introduzione al video – nasce da una volontà di realizzare un collage delle fotografie e dei disegni di mio padre, ma soprattutto dall'occasione del ritrovamento di alcuni filmini in super 8 da lui girati”. Proprio sistemando l'archivio di architettura dell’architetto (60 anni di lavoro, progetti, disegni, fotografie, ma anche foto di viaggi e di famiglia, per un totale di 125 volumi ognuno contenente un centinaio di stampe in bianco e nero), Veronica trova questi filmini in una piccola scatola chiusa, e scopre con sorpresa che essi non contenevano materiali di architettura, ma ricordi della sua passione per la fotografia, la natura, i viaggi e gli amici. Questo materiale è diventato il filo conduttore della testimonianza video, un grande collage della memoria che potesse essere ricordo e allo stesso tempo messaggio per le giovani generazioni. Straordinarie le testimonianze della moglie Cristiana Menghi – che racconta dell’esperienza di Roberto nel campo di concentramento polacco – e di Lisa Ponti, che ebbe la fortuna di conoscere Menghi all’inizio della sua carriera, in un clima in cui la rivista Domus, “disordinata ma aperta alle cose”, segnava la linea culturale della Milano di quegli anni. “Il cinema Arlecchino – ricorda Lisa – è straordinario, con le sue poltrone colorate, il soffitto con le ali bianche in gesso. E poi il bassorilievo di Lucio Fontana, che nel buio della sala si illuminava.  Menghi – conclude l’intervista Lisa Ponti – faceva senza fare dei  proclami, aveva lo stile dell’understatement milanese.”

Franco Raggi, aprendo il dibattito,  ricorda che l’Ordine degli Architetti di Milano sta facendo da tempo un lavoro di valorizzazione della cultura architettonica milanese del dopoguerra; poi, introducendo Enrico Freyrie, amico e coetaneo di Roberto Menghi, ricorda la stagione irripetibile della ricostruzione della Milano del dopoguerra, in un rapporto molto intenso tra committenza e obiettivi di tipo sociale, professionale e culturale: una commistione che oggi, per la qualità generale di tutte le componenti in campo, ci sembra quasi miracolosa. Freyrie racconta il suo incontro con l’architetto milanese, avvenuto dopo il trasferimento del suo studio in piazza Sant’Angelo a Milano, dalle cui finestre vedeva proprio lo studio di Menghi, ricordando le lunghe chiacchierate sugli architetti milanesi e il ruolo del Politecnico di quegli anni. “I professori erano gli stessi che insegnavano ad ingegneria, e gli studenti erano attenti, quasi spaventati; la piramide del comando aveva in cima il preside, il professor Portaluppi, che aveva restaurato Santa Maria delle Grazie e progettato quasi tutte le centrali idroelettriche d’Italia. Noi architetti – continua Freyrie – eravamo visti con sospetto dai professori, perché trattandosi di progettare una trave reticolare cercavamo di personalizzarla, proprio come fa ora Calatrava. E poi c’erano rapporti e affinità tra noi e i pittori: Crippa, Dova, Chigline, Fontana, Treccani, Milani e molti altri. Si parlava dell’evoluzione del razionalismo, del modo di concepire il town planning: i nostri idoli erano Gropius, il poco simpatico ma grande maestro Le Corbusier, e poi Neutra. Si avvertirono poi le prime differenze, con le vetrate di colore caldo e i disegni liberi dei parapetti di Gigi Caccia Dominioni, le ragnatele astratte di Asnago e Vender, le ripetizioni sapienti e i motivi architettonici di Roberto Menghi, i brutalismi romantici di Vittoriano Viganò, le sapienti partiture care ad Albini, le invenzioni di Zanuso. Molti di loro ebbero subito fama, altri la ebbero solo più tardi, ma tutti divennero docenti di chiara fama. Ci fu anche un’inversione di apprendimento tra docenti ed allievi: Gio Ponti, nato come 'lievemente neoclassico' ad esempio imparò molto dai suoi allievi. Le discussioni si protraevano fino a notte fonda. Nel 1966 progettai con Luigi Fratino, sotto la guida di Albini, la Mostra del mobile singolo. Vito Latis ci prestò i cataloghi delle grandi ditte; gli artigiani brianzoli imparavano la lezione europea dell’industrial design.
Della guerra vi ricordo solo un aneddoto che capitò all’amico Piero Ronchetti, che più tardi divenne partigiano: quando fu circondato all’esterno del Politecnico da una ronda nera, si girò verso il muro e mangiò un giornaletto sovversivo che aveva in tasca. Ebbene – conclude Freyrie – se doveste mai ingoiare l’angolo di un quaderno, fatemi sapere le vostre impressioni.”

Alessandro Mendini propone due aneddoti personali, e ricorda di quando, ancora studente, abitava nella casa di Piero Portaluppi in via Jan, dove la domenica pomeriggio, nell’appartamento di sua nonna e dello zio, ingegner Boschi, si prendeva un the; l’amico intimo degli zii era il dottor Menghi, padre di Roberto Menghi. “C’era un trittico – ricorda Mendini – : mio zio Boschi, il dottor Menghi, chimico della Pirelli, e Ardito Desio, famoso per il K2. Si prendeva il the in una casa piena di quadri ma dove non era mai entrato il design; c’era soltanto una lampada di Roberto Menghi, quella con le due zampette in bilico, uno dei primi oggetti di design con cui ho avuto a che fare. Io ho il ricordo di quando la lampada ha perduto uno dei gommini che la sostenevano, ed ero terrorizzato dal fatto che scivolasse sulle tazzine da the.”

Piero Bassetti mette in evidenza quanta umanità Menghi avesse e trasmettesse attraverso le sue opere e con i modi di vita. L’aveva colto nel film Franca Santi: una sensibilità e la volontà di entrare in contatto profondo con la natura  – come quella di cercare l’acqua al modo dei rabdomanti  – collocando le sue case, così come i suoi gesti, in questo ambito di umanità. “Commovente è il contenuto di affetto che il film trasmette da parte della figlia Veronica.

Franco Raggi ribadisce come la figura di Roberto Menghi testimoni un’attitudine all’understatement, al silenzio, al lavoro non gridato, al mestiere aperto a diverse scale. Di questo carattere, che è proprio di molte figure del dopoguerra, ma formatesi in precedenza, Marco Romanelli e Manolo De Giorgi sono stati studiosi e hanno più volte evidenziato l’attualità dell’atteggiamento rispetto al mestiere.

Marco Romanelli afferma che vedere questo film nell’attuale situazione di crisi ci fa pensare al rimpianto di una borghesia che non esiste più, capace di esprimersi attraverso un insieme di gesti di architettura e di vita sociale; “c’erano case piene di libri, di quadri, senz’altro di privilegi: non è che oggi non esistano privilegi, non si riescono più ad esprimere in quel modo, attraverso quella cultura. Roberto Menghi ad un certo punto dice: ‘Milano capitale culturale significa realizzare uomini di grandi qualità’. Esiste un impegno preciso oggi per chi vuole fare l’architetto, lo storico, il critico: recuperare queste storie come testimonianze, perché a volte la storia ufficiale, quella dei grandi, proietta dei coni d’ombra su alcune persone; infine un solo riferimento all’architettura e al design: nell’architettura la facilità del dettaglio oggi si è persa completamente, e un’altra cosa che sorprende è, per quanto riguarda il lavoro di Menghi, il mischiare la contemporaneità con il primitivismo, come due radici che insieme arrivano ad un risultato (le case delle Sardegna o quelle dell’Elba). Di tutto il design di Menghi invece – conclude Romanelli – vorrei scegliere solo i bicchieri per Bormioli, un progetto per tutti, a bassissimo costo, di vetro e non di cristallo, dove la capacità del disegno produceva degli effetti ottici che li rendeva assolutamente assimilabili a dei bicchieri di cristallo. Oggi si riescono a dare risultati straordinari con dei mezzi straordinari, allora con mezzi molto semplici venivano dati risultati straordinari.”

In conclusione Manolo De Giorgi vede nel film di Veronica Menghi la conferma del fatto che in quegli anni vi fosse la libertà di non scegliere mai tra architettura e design; nessuno ha mai pensato che dovesse rimanere incastrato nell’una o nell’altra disciplina. "Quello che dice Lisa Ponti – cioè che allora loro non sapessero quello che facevano ma lo facessero e basta – si propone in antitesi alla cultura anglosassone e americana, che sa sempre quello che sta facendo, mentre il design italiano ha fatto sempre tutto in totale incoscienza; anche nel lavoro di Menghi c’è una certa incoscienza: prima di altri ha lavorato per il product design per Kartell, per Pirelli, ancor prima di Zanuso."
L’altra cosa che si avverte è che dietro tutto c’è un interlocutore che si avverte, l’industria, una figura paterna con cui ci si scontra ma che dà enorme energia a tutti questi prodotti.
Romanelli, a questo proposito, dice che si sentiva dietro l’industria ma anche le riviste, Domus e Abitare in particolare.  Franco Raggi conclude che passando davanti all’ex Fiera oggi possiamo vedere due edifici mostruosi progettati da architetti di grande talento; invece è interessante vedere come proprio nell’assenza della firma sul manufatto ci sia la sostanza della qualità del lavoro di Menghi. Le opere più interessanti, come la villa nel Maine del ’90, la casa Franchetti a capo Ceraso, la piscina di cristallo per la Fiera del ’56 – una straordinaria scatola di vetro in cui il pubblico vede galleggiare le persone come in un acquario – mostrano come il linguaggio non fosse affatto l’obbiettivo finale dell’opera ma l’esito di un procedimento creativo che teneva conto dei contesti; questo è un insegnamento attuale, a patto che qualcuno lo voglia cogliere.

Stefano Suriano
 

Roberto Menghi Architetto 1920-2006

- Con interviste di:
Cristiana Menghi, Andreina Rocca, Lisa Ponti, Marco Romanelli, Carlo Bertelli, Carlo Barassi, Antonia Mulas, Ezio Antonini, Piero Castiglioni, Piero Bassetti, Paolo Biancardi, Silvia Banfi, Franca Santi, Jacopo Gardella

- Tra le opere menzionate nel video:
Cappella a Capo Ceraso, 1973 - Scrigno, secretaire presentato alla Mostra del Mobile singolo, 1949 - Cinema Arlecchino, con  Mario Righini, 1948 - Palazzo per uffici in via Senato, con Marco Zanuso, 1947-48 - Libralux, produzione Lamperti, 1948 - Produzione Smalterie meridionali, 1955 - Volte leggere componibili, produzione Pirelli, 1957 - Ricevitore per filodiffusione, produzione Siemens, 1957 - Sedia Hall, produzione Alform-Pirelli-Velca, 1958 - Canestri per benzina produzione Pirelli, 1960 - Poltrona Doppio Senso, produzione Zanotta, 1971 - Bicchieri Puccini, produzione Bormioli, 1978-79 - Caraffa Sangria, produzione Bormioli, 1978-79 - Portasci, con Carlo Barassi, produzione Kartell e Pirelli - Casa per week-end prefabbricata, 1967 - Casa Franchetti a Capo Ceraso, 1969-70 - Mostra ‘700 lombardo, Palazzo Reale, Milano, 1990 - Mostra fotografica Ugo Mulas, Rotonda della Besana, Milano, 1989 - Biblioteca civica di Lenno - Canna, lampada a sospensione (nuda) da terra, da tavolo e da muro (fiorita), produzione Fontana Arte (con Piero Castiglioni) - Allestimento della mostra di Pietro Consagra, con Piero Castiglioni, 1981 - Mostra La Ca’ Granda, Palazzo Reale, Milano, 1981 - Casa Bassetti all’Alz, 1969 - Ristrutturazione del Palazzo dei Giureconsulti, Milano, 1990 - Rocca di Maccastorna, 1996 - Casa Menghi a Sant’Ilario, Isola d’Elba, 1963 - Casa Sella a Sant’Ilario, 1975 - Laboratorio di ceramica  a San Pantaleo, 1985 - Il Campanone della Brianza, 1962 - Casa Rocca a Milano, 1972 - Casa Rocca a Sant’Ilario, 1968 - Libreria di Brera, Milano, 1991 - Padiglione Balzaretti Modigliani, Fiera di Milano, 1951 - Raffinerie e Uffici ISAB-Melilli, Siracusa, 1979 - Hotel Excelsior, Lido di Venezia, 1965, con Ignazio Gardella - Casa Rognoni, Ca’ della Terra, 1983 - Poliambulatorio della Fabbrica Saint-Gobain, Pisa, 1953 - Istituto Piero Pirelli, Milano, 1957 - Liceo Francese, Milano, 1961, con Piero Cosulich - Residence Iselba, Marina di Campo, Isola d’Elba - Casa a Mount Desert Island, Usa, 1990

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