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Ordine aperto - Principia: stanze e sostanze delle arti prossime

Dal 15.04.2011 al 16.05.2011

Giovedì 14 aprile si è svolto un dibattito serrato tra tecnologia, scienza e indeterminazione dedicato alla mostra curata da Denis Santachiara. Tra indisciplinati e barzellette

In occasione del Salone del Mobile anche quest’anno l’Ordine degli Architetti apre le porte della propria sede ad alcune manifestazioni collaterali, proponendo interessanti dibattiti ed una bella mostra dedicata ad alcuni interni di Giulio Minoletti, già protagonista di una serata martedì scorso.

Giovedì 14 aprile si è dedicato un incontro alla mostra curata da Denis Santachiara, e voluta da Cosmit per i 50 anni di Salone del Mobile, Principia - Stanze e sostanze delle arti prossime.
A parlarne oltre il curatore e il presidente di Cosmit, Carlo Guglielmi, la critica dell’arte e curatrice di mostre Francesca Alfano Miglietti e la scienziata Ludovica Lumer, autrice del fortunato volume “C’è da perderci la testa. Scoprire il cervello giocando con l’arte”, che si occupa in particolare di neuroscienze e arte contemporanea. A coordinare il difficile confronto un indisciplinato Franco Raggi.

Daniela Volpi dà il benvenuto agli invitati ricordando la tradizione felice del Fuori Salone, che dal ’95 integra la comunicazione commerciale del Salone del Mobile.
Tra le diverse iniziative una spicca per particolarità e declinazione: la scienza come motore delle opere: visive, sonore, materiche etc.
Da un’idea di Denis Santachiara otto stanze a indicare come il percorso di un opera d’arte sia complesso. Attraverso modi diversi di diversi artisti si attraversa non solo il rapporto arte/scienza ma l’innovazione del linguaggio, attraverso tutti i sensi della percezione umana.
Per questo merita una visita non affrettata.

Franco Raggi confessa che quando Santachiara gli ha raccontato qualche mese fa del suo progetto, gli è venuto voglia di parlarne in modo diverso.
Definisce Carlo Guglielmi, da poco presidente Cosmit, anomalo perché raramente l’istituto che presiede l’organizzazione del Salone si è avventurato su fronti così scivolosi. Con Guglielmi, afferma, è calato un velo di sana follia, e dopo la settimana del design a New York, questa mostra dichiara quanto sia il substrato culturale ad aver reso vincente il prodotto italiano. Si pente di quanto fatto?

Carlo Guglielmi non ha esitazioni. ‘Denis Santachiara mi sta simpatico’, quindi è stata una buona opportunità per festeggiare i primi 50 anni del Salone. Al posto di noiosi premi e ricordi, o mostrare come eravamo / come siamo, con tristezza, abbiamo voluto guardare avanti, attraverso produttori, progettisti e consumatori del futuro.
Questa mostra è fantastica, si esce con la meraviglia di non aver capito niente. Si vedono cose straordinarie.
Le innovazioni tecniche in mano agli artisti fanno sognare due volte, permettendo di immaginare un futuro diverso da quello che vivi. Si tratta poi di una operazione utile a tutti, perché il mobile, prima di essere industria, è cultura.
Oltre a questa mostra, ricorda le altre due manifestazioni presiedute da Cosmit: l’allestimento di piazza S.Fedele in forma di grande bosco immerso nella ‘scighera’, che si percepisce insieme al canto degli uccelli, e l’allestimento alla Triennale del quarto ciclo del Museo del design, voluto allestito da un imprenditore: Alberto Alessi.
Del resto, conclude, se sono qua è perchè Franco Raggi mi è simpatico, altrimenti non ci sarei.

Franco Raggi presenta a ruota la figura di Denis Santachiara, chiaramente un amico.
Da 30 anni a Milano, proveniente dalla provincia (di Reggio Emilia, ndr). Pur avendo iniziato con ‘progetti sbagliati’, di cui ricorda lo spazzolino con il dentifricio nel manico, o la cuccia per cani, o lo zerbino con l’uccellino (‘meno sbagliato degli altri’), la rivista Modo, e Alberto Meda –in platea sorridente, ne ha tuttavia riconosciuto gli spunti di interesse. Nell’80 la mostra dedicata alla neomerce (1984 Triennale e Centre Pompidou, sponsor Montedison, ndr): la forza dirompente a superare il design delle buone maniere, che spinge ad introdurre nel disegno valenze latenti all’oggetto stesso.
Oggi lavora sulle nuove tecnologie e il loro rapporto prestazionale; la capacità del design di sorprendere, permettendo di scoprire cose di un oggetto o di un materiale che prima non si era capaci di vedere.
Cosa pensava quando ha immaginato di mettere insieme fatti e artisti senza apparente relazione tra loro?

Denis Santachiara illustra l’idea iniziale: ci sono modi diversi di raccontare la storia delle arti. Nella storia 'umanistica', l’idea che gli artisti usassero degli strumenti appare spesso secondaria. Ma non lo è per chi la fa: basti pensare alle 'vite' del Vasari, o alla centralità del prospettografo nella produzione di L.B. Alberti.
L’idea è stata dunque riscrivere la storia attraverso gli strumenti: camera scura, camera chiara, camera lucida, punto focale, fino al tubetto del colore: un momento di distacco, più nessun assistente necessario a preparare i colori, e possibilità di immergersi nella natura usando il tubetto come un pennarello. Un contributo determinante per capire l’arte impressionista ed espressionista. Ma poi anche l’ottica large, il magnetismo del '900 etc.
La storia dell’arte umanistica va dunque controbilanciata con una storia materiale. Oggi più che mai, dove i principi tecno-scientifici devono confrontarsi con principi etici; o filosofici, come per il telefono: siamo assenti o presenti?
Da qui la mostra.

Questa è suddivisa in 8 stanze, per dire temi. Non per movimenti artistici. Il processo che porta alla creazione è dato da una malattia dell’artista. La strategia del prestigiatore implica l’acquisizione delle tecniche ad un grado di perfezione tale da permettere la magia senza mostrarle.
Significa dunque lavorare sul linguaggio, e i principi tecno-scientifici alimentano il nostro linguaggio. Se così non fosse andremmo al museo della scienza.

La mostra inizia con la possibilità di agire una camera lucida, attraverso cui fare copia dal vero.
A seguire le diverse stanze 'tematiche':
La ‘nano-room’, con alcune sculture visibili solo al microscopio: un cammello nella cruna di un ago, un granello di sale scolpito da Mimmo Paladino.
La ‘no gravity room’, la levitazione e il campo magnetico.
La ‘no norm room’ dove la realtà spiazzata è comunque coerenza spaziale.
La ‘personal factury room’, in cui ogni visitatore diventa oggetto della manipolazione.
La ‘second nature room’, in cui si applicano principi bio per altre nature: si vedono dei vestiti fatti con l’erba.
La ‘extensive room’, estensione matematica della realtà.
La ’holophonic 3d room’, in cui il compositore oltre alla nuova esperienza sonora, può decidere nella composizione dove posizionare il suono nello spazio. Ludovico Einaudi.
E poi la ‘wireless tesla room’ che attraverso i principi di trasmissione dell’elettricità senza fili si è composto nello spazio un sistema di illuminazione senza pensare alla fonte: rinnovabile?
Completa la carrellata di immagini di presentazione con il catalogo, cui è allegato un gadget, unico oggetto di sua progettazione: semplicemente una pila e un filo di rame, che può ruotare magneticamente attorno alla prima: il principio del motore elettrico. Del resto, dichiara, io sono elettricista impiantista.

Franco Raggi vede qualche analogia di questo oggetto con i gadget che vendono in piazza, piccole spirali illuminate lanciate verso l’alto con una fionda. O forse è l’arte che oggi è diventata gadget? Dall’epoca della riproducibilità all’arte invisibile: un destino apolitico dell’arte? Una ricerca individuale, solitaria, che non è più coscienza critica del mondo? Un arte sorprendente, ma non più critica? Terapeutica?

Per Francesca Alfano Miglietti  non c’è risposta, e se ci fosse l’arte non avrebbe più ragione di esistere. L’arte è la malattia, non la terapia. Santachiara ha la capacità di porre questioni essendo più un artista che un designer. La contaminazione, l’invisibilità: l’arte non crede nella immortalità, è deteriorabile. Il mondo è cambiato moltissimo, e l’arte è sempre andata di pari passo alla tecnologia –a partire dalla selce per incidere le caverne. Il rapporto arte e scienza è dunque più complicato di quello con la tecnologia.
Non è il tubetto del colore, quanto la macchina fotografica ad aver fatto la rivoluzione nell’arte moderna: i ricchi, che sono i committenti dell’arte, non hanno più avuto bisogno di immortalarsi verosimili. Perché è attraverso l’arte che si fanno, appunto, immortali.
“L’arte non va mai a dormire nel letto che gli è stato preparato” dicevano i surrealisti.
La tecnologia invisibile: la chimica, la rete, le armi intelligenti: la scommessa per la nuova tecnologia è di non aver morfologia. L’uomo non è più al centro, e alcune tecnologie ci fanno pensare: ma a che serve? Per esempio: la maniglia vocale, a che serve? Servono invece cose che fanno pensare. L’arte è parlare di ciò che è: il re è nudo.
Perché ciò che progetti per il futuro quando lo vedi realizzato è già passato.

Ludovica Lumer manifesta spaesamento dopo tutto quanto detto e, dice, non sa più che dire.
Passata la soglia del primo ‘900, dove attraverso Freud con l’interpretazione dei sogni, la meccanica quantistica e il principio di indeterminazione di Heisenberg, è andato in crisi il principio di causa-effetto, anche il rapporto arte-scienza è in continua ridefinizione.
Ma l’individuo non è solo: l’individualità è necessaria per comprendere la relazione. Accenna ai neuroni-specchio: se qualcuno prende in mano una matita, gli stessi sensori che gli fanno sentire la presenza della matita nella mano sono allertati nel soggetto che assiste e comprende questa azione.
Oggi ragionare sui ‘principia’ è ragionare sulla probabilità, in cui è intrinseco il concetto di evoluzione: questo è arte. L’arte ispira la scienza e non il contrario.
E racconta una barzelletta: i 5 ebrei che cambiano la storia del proprio tempo.
Mosè afferma che tutto è legge
Gesù che tutto è amore
Baruch Spinoza che tutto è ragione
Sigmund Freud che tutto è sesso
Einstein che in fondo è tutto relativo….
Insomma, è come la mostra: si esce senza aver capito niente ma con una sensazione di meraviglia. Non si tratta di considerare l’invisibile sensoriale. Ma il principio, in se invisibile perché concetto: un fatto semiotico dunque. La creatività si esprime nel processo, non nel risultato.

Santachiara sottolinea: tutta l’arte concettuale è questo, processo e non risultato.

Ludovica Lumer rincalza: tutto è algoritmo (Raggi: cos’è un algoritmo?!)

Dal pubblico suggeriscono: tutto sta nello spiegare la fine del principio di causa effetto.

Ludovica Lumer cerca allora di spiegare il principio di indeterminazione, attraverso una scatola contenente un elettrone: esso è ovunque. Il caso lo fa rintracciare.
E conclude con una frase di George Dyson, storico della scienza, che nel suo ‘L’evoluzione delle macchine’ edito da Cortina, riconosce una nuova giungla nell’intelligenza globale, e per questo una nuova speranza per il futuro.

Buona lettura.


Francesco de Agostini

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