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Settimana del 19 Maggio 2008

Dal 28.05.2008 al 30.05.2008

Rassegna stampa dei principali quotidiani nazionali e del sito Archiworld, relativa agli articoli di interesse per Milano e Provincia. Primo piano: l'apertura della mostra "Casa Per Tutti".

L' Expo non tocchi l' ippodromo
I residenti del quartiere San Siro sono pronti a dare battaglia se Comune e Snai dovessero speculare sull' ippodromo. La notizia che le trattative sono ripartite mette in agitazione gli operatori dell' ippica che temono lo smantellamento di tutta l' attività e il Comitatone che dice: «Il quartiere non ha infrastrutture sufficienti. In vista dell' Expo vogliono distruggere San Siro». TERESA MONESTIROLI A PAGINA V«Con la scusa dell' Expo vogliono devastare un quartiere che ha già troppi problemi». Perseguitati da anni dalla minaccia di una trasformazione dell' ippodromo di San Siro, ora che il Comune ha ripreso le trattative con la Snai, proprietaria dell' intera area ippica, gli abitanti della zona annunciano battaglia. «La parola valorizzazione di solito si sposa con cemento. Attualmente le leggi urbanistiche non permettono l' edificazione di case per cui se il loro progetto è quello di valorizzare l' esistente salvaguardando i monumenti che lo facciano pure, ma se invece pensano di speculare cambiando il piano regolatore allora cercheremo in tutti i modi di fermarli. Siamo riusciti a bloccare due progetti, ci proveremo ancora» spiega Silvana Gabusi, portavoce del Comitatone per la salvaguardia degli ippodromi di cui fanno parte Italia Nostra, Gruppo Verde San Siro, Wwf, Associazione Parco Sud, Amici della Terra e Comitato per la difesa di san Siro. La notizia che l' area intorno allo stadio è diventata strategica in vista dell' Expo - di conseguenza anche molto appetibile per gli investimenti immobiliari - e che l' assessore all' Urbanistica Carlo Masseroli ha avviato gli incontri con la Snai per discutere di una possibile «riqualificazione» della zona scuote residenti e operatori dell' ippica che vedono con terrore la dismissione dell' ippodromo del trotto e delle piste di allenamento che, secondo il piano della proprietà, dovrebbero essere trasferiti fuori dai confini cittadini. «Rifare una pista di allenamento come quella di Milano è impossibile - dice Maria Sacco, storica allenatrice di San Siro - . Ci vorrebbero anni solo perché l' erba si assesti. La nostra paura è che vogliamo smantellare tutta l' attività. La proprietà ha tutto il diritto di valorizzare il suo patrimonio, ma le istituzioni dovrebbero sorvegliare affinché venga fatto nella tutela dei monumenti e dell' ippica, parte della storia di questa città». All' ippodromo lavorano ancora quasi duemila persone tra allenatori, maniscalchi, veterinari, farmacisti e scudieri. Novanta famiglie di operatori sono già state sfrattate dai loro appartamenti dentro le scuderie e l' aria che tira è delle peggiori. Soprattutto da quando Milano ha vinto l' Expo. «Non si parla che del possibile trasloco delle piste - raccontano i lavoratori - . Il terrore è che succeda l' inevitabile»: lo smantellamento delle piste e, di conseguenza, «la fine dell' ippica». Pensavano di aver scampato il problema tre anni fa quando riuscirono a bloccare il progetto di Stefano Boeri, ma ora il dialogo che si è aperto con il Comune torna a fare paura. Al di là della salvaguardia di un patrimonio storico il quartiere teme il collasso. «Dobbiamo già accogliere 80 mila tifosi due volte la settimana tutto l' anno e il popolo della musica durante l' estate - continua Gabusi - . Trasformare San Siro in un "divertimentificio" come vuole il Comune, un polo di attrazione al di là delle partite di calcio, sarebbe un disastro. La zona non ha le infrastrutture sufficienti». Neanche l' idea di avere un nuovo parco alletta gli abitanti che sperano di incontrare al più presto Masseroli. «Di verde ne abbiamo abbastanza, è l' unica cosa che non manca».
TERESA MONESTIROLI
La Repubblica
19-05-08, pagina 5 sezione MILANO


Verso l' Expo. Il progetto elaborato dal Politecnico potrebbe alleviare la crisi abitativa. L' assessore Masseroli: sviluppo urbanistico sostenibile
Case a tempo con 800 posti letto nelle ex cascine
Boeri: rete di alloggi per studenti, visitatori e familiari di ricoverati

Per l' emergenza massima c' è la «boa»: camere multiple, docce, infermeria. Come un dormitorio, ma in piccolo. Per gli studenti universitari, invece, c' è l' ostello, aperto giorno e notte. Poi ci sono le stanze per famiglie, il residence, gli spazi comuni: lavanderia, biblioteca, Internet, palestra. E infine il campeggio. Non è un albergo e nemmeno un villaggio di accoglienza o una casa alloggio. È una nuova dimensione del vivere (temporaneamente) in città: ottocento posti letto differenziati a seconda delle necessità dei loro ospiti. Dove? Nelle cascine del Comune trasformate in «municipi dell' abitare». Ecco il grande progetto per l' Expo del 2015. La sfida: fare di Milano la prima città al mondo con una rete di alloggi temporanei all' interno dei suoi confini. «Niente di impossibile» spiega l' architetto Stefano Boeri, ideatore del progetto: basterebbe riconvertire 21 cascine di proprietà pubblica in residenze. E, contemporaneamente, fare di ogni «municipio» uno sportello di collegamento con l' Agenzia della casa, incaricata di gestire il patrimonio pubblico immobiliare evitando che in città rimangano alloggi vuoti. Idee, disegni, proiezioni, la Milano che sarà e il sogno di una città più accogliente. Ci ha creduto il «Multiplicity Lab» del Politecnico, il laboratorio diretto da Boeri che giovedì presenterà il suo lavoro alla Triennale nella mostra «La vita nuda», coordinata dal sociologo Aldo Bonomi. L' origine del progetto: «Abbiamo individuato - spiega Boeri - 21 cascine inglobate nel tessuto urbano, intervistato gli abitanti dei quartieri e cominciato a ragionare sull' utilizzo di questi spazi». Da qui l' idea: trovare delle «boe» per chiunque abbia problemi legati all' abitare. I casi sono tanti. Dai parenti dei pazienti che si stanno sottoponendo a lunghe cure negli ospedali, agli universitari, alle persone con disagi psichici, alle badanti in attesa di trovare una nuova sistemazione, ai visitatori del Salone del Mobile, alle giovani coppie, a chi sta attendendo un alloggio popolare. Ogni cascina con la sua caratteristica. Da un giorno a un anno di ospitalità, a seconda dei casi. Accesso gratuito se si entra attraverso i servizi sociali, a prezzo politico se si arriva autonomamente. La gestione, attraverso un bando pubblico, potrebbe essere affidata alla fittissima rete del terzo settore che faccia anche da infopoint per indicare a tutti gli ospiti i servizi disponibili nel quartiere, dal consultorio all' asilo. Uno spazio in rete. Che riveli il volto positivo dell' accoglienza, lontano dal degrado e dai ghetti-dormitorio. E con un progetto che ha già ben chiari tempi e costi. Servono circa 70 milioni di euro per ristrutturare 44 mila metri quadrati e realizzare i «municipi». «Il denaro - puntualizza Boeri - si potrebbe ricavare dalla vendita delle altre cascine (sono in tutto 50). Ne ho parlato con l' assessore all' Urbanistica, Carlo Masseroli: solo Milano può farcela. E solo le istituzioni possono darci una mano. L' Expo sarebbe l' occasione ideale. In sette anni potremmo davvero diventare un esempio per tutto il mondo». Sale prove per i ragazzi, copertura wi-fi, auditorium, giardini attrezzati, spazi per i camper. Il quartiere che si apre a tutti i «nomadi contemporanei». Masseroli conferma: «Queste cascine, ora completamente degradate, rappresentano una grande potenzialità, un tentativo importante di sviluppo della città sostenibile». Si parte, forse. Ma le difficoltà ci sono. «Bisogna trovare il percorso amministrativo - continua l' assessore - per realizzare un progetto mai fatto. Siamo maestri nell' inventarci vincoli che ci impediscono di trovare risposte a bisogni reali». Dall' utopia alla realtà. Con lo sguardo rivolto al futuro. Non a caso il catalogo della mostra (fortemente voluta dal presidente della Triennale, Davide Rampello) è ambientato nel 2015. Inizia così: «Ormai ci siamo. Tra poche settimane, finalmente, inaugureremo la grande esposizione internazionale...». 21 *** Le cascine che potrebbero essere trasformate in «municipi dell' abitare» *** 800 *** I posti letto temporanei disponibili nelle nuove strutture
Sacchi Annachiara
Pagina 9
(20 maggio 2008) - Corriere della Sera

 

FMG Quattro progetti sperimentali reinterpretano lo spazio collettivo in via Bergognone
La nuova architettura è ecologica
Da Madrid a Rotterdam, città del domani a misura degli abitanti

Architettura come speranza, contributo concreto per lo sviluppo sostenibile di un territorio. Parte da quest' idea la mostra «New Urban Ecologies», a cura di Luca Molinari e Simona Galateo, che inaugura oggi alle 18.30 allo Spazio FMG per l' Architettura di via Bergognone 27. La galleria presenta questa volta quattro progetti recenti all' insegna dell' ecologia urbana e sociale, opera di altrettanti autori emergenti a livello internazionale: Ecosistema Urbano di Madrid, NL Architects di Rotterdam, Ma0 di Roma ed Elastico di Torino-Pordenone. «Ogni studio presenta una proposta sperimentale che va verso nuove interpretazioni del vivere collettivo», racconta Molinari. «Si ipotizzano inedite forme urbane di aggregazione, centrate sulla dimensione ecologica intesa come risparmio/innovazione nell' uso dello spazio e delle risorse». La città del domani. Intanto, Ecosistema propone un «ecoboulevard» lungo 500 metri e largo 50, da realizzare alla periferia madrilena, con tre padiglioni cilindrici realizzati in materiali riciclati e dedicati ad attività pubbliche. Si deve a Ma0 invece il progetto urbanistico per la città olandese di Almere, basato sul concetto «people make the city»: sono gli abitanti stessi a inventarsi una città su misura. NL Architects ha riutilizzato l' area di un sottopasso in disuso, a Rotterdam, trasformandolo in una nuova comunità per giovani con bar, locali e luoghi per lo sport. Infine Elastico, con un progetto di spazio pubblico per feste e mercati a Budoia, in provincia di Pordenone: l' utilizzo di materiali naturali locali, vicini al luogo di costruzione, permette un intervento a basso impatto ambientale. La mostra resta aperta con ingresso libero fino al 21 giugno, da martedì a sabato ore 15-20, informazioni al tel. 02.89.41.03.20.
Vanzetto Chiara
Pagina 19
(21 maggio 2008) - Corriere della Sera


La rinascita Il capannone ospita produzione e creativi di Pomellato
L' ex fabbrica diventa gioielleria

Era una vecchia fabbrica di cioccolato. Ora ospita una nota griffe di gioielli. Fuori, è una grande casa in mezzo a case di periferia. Dentro, un ambiente raffinato, con i laboratori che si affacciano su un giardino acquatico che profuma d' Oriente. E siamo allo Stadera. Perché l' azienda Pomellato, compiuti i quarant' anni di vita, ha scelto proprio questa vecchia fabbrica alle spalle delle case popolari per riunire le proprie attività: produttive, creative e commerciali. E gli ottomila metri quadrati della vecchia fabbrica degli anni Cinquanta sono diventati un ambiente su quattro livelli che ospitano quasi trecento persone, di cui la metà sono artigiani dell' oro. Dove trovare, altrimenti, a dieci minuti dal centro uno spazio produttivo così vasto? Che è quasi un bunker, per le misure di sicurezza, per quanto invisibili al visitatore occasionale, salvo controlli discreti all' ingresso. Peraltro subito dimenticati, quando si trova immerso in ambienti da rivista d' architettura, disegnati per la reception e per gli uffici. Con boiserie in lacca nera come negli anni Trenta, tappezzerie di seta crema, la veranda tropicale e le grandi cornici in essenze esotiche. E nei laboratori, in camice bianco, gli artigiani cesellatori dell' oro, non uomini-macchina alla catena di montaggio. Qui, allo Stadera, nascono anche i DoDo, gli animaletti gioiello, messaggi d' amore, ultimi arrivati nel sorprendente mondo del gioiello prêt-à-porter, che hanno fatto il giro del mondo.
D' Amico Paola
Pagina 6
(21 maggio 2008) - Corriere della Sera


J'accuse L'antropologo Franco La Cecla: «Con Koolhaas, Gehry e Fuksas l'urbanistica è in mutande»
La moda ha ucciso l'architettura
Gli stilisti usano le «archistar» per stupire. Non per migliorare le città

Il sistema della moda e dei mass media ha arricchito pochi architetti e ucciso l'urbanistica. È la sostanza della tesi che l'antropologo dell'Università San Raffaele di Milano, Franco La Cecla, dà della situazione dell'architettura in un saggio
(Contro l'architettura, Bollati Boringhieri, pp.118, e 12), talvolta disorganico, ma che ha la forza tipica della riflessione di uno studioso «fuori casta» e che riecheggia il celebre Maledetti architetti di Tom Wolf (1982).

E' vero, la moda ha fagocitato il mondo dell'architettura, ha per lo più «ridotto » gli architetti ad artisti creatori di oggetti «alla moda», deresponsabilizzandoli nei confronti del funzionamento della città e della società. Li ha trasformati in «creatori di trend» (come «stilisti») al «servizio dei potenti di oggi... Senza Prada e Versace — afferma La Cecla — non ci sarebbero stati i vari Gehry, Koolhaas, Nouvel, Calatrava e Fuksas... Sono state le marche di moda a trasformare l'architettura in moda». Quello che gli artisti hanno trovato nel sistema delle gallerie, dei curatori e nel mercato dell'arte, gli architetti lo hanno trovato nelle vetrine e negli stilisti. Anzi, afferma La Cecla, gli architetti hanno direttamente «preso il posto della maglietta firmata, sono diventati quella maglietta e quel paio di mutande». E una volta che sono diventati mutande, anche i mass media si sono accorti degli architetti. Cancellata la critica architettonica e del restauro (anche se siamo il Paese con il 50% dei beni culturali) i media hanno fatto scivolare l'architettura, l'arte e il design dal «giornalismo culturale» al «giornalismo di moda», direi dell'«intimo », con responsabilità gravi per il nostro territorio. Tanto che ciò, come nota pure La Cecla, serve da alibi ad alcune «archistar » che finiscono con l'occuparsi «di decoro, di cose carine», come mutande disegnate da calciatori o starlet. Morti Tafuri e Zevi, alla critica e alla «scienza» urbana (non servirebbe una pianificazione collegata ai problemi dell'immigrazione? La rivolta dei cinesi a Milano e la nascita di campi rom non sarà dovuta anche a un deficit urbanistico?) si è sostituita la costruzione del consenso. Così c'è chi, come Rem Koolhaas, che diventa «un trend setter,

qualcuno che apre nuove direzioni al marketing Prada». E c'è qualcun altro, come Frank O. Gehry, che si affida al «brand», al salvagente della genialità: peccato che sulla sua testa piovano accuse come quelle contenute nel libro di John Silber della Boston University dal titolo esplicito:

Architettura dell'assurdo. Come il genio ha sfigurato la pratica di un'arte.

Ma La Cecla accusa anche la «continua presa di distanza» degli architetti dai loro progetti una volta che questi, specie quelli delle periferie, prestano il fianco a situazioni che diventano invivibili. Il riferimento è allo Zen di Vittorio Gregotti ma, in generale, a tutta l'architettura di quegli «apostoli che dagli anni 50 alla fine degli anni 80 hanno promosso l'idea che l'abitare andasse risolto con grandi costruzioni condominiali concentrate nelle aree vuote della città», generando mostruose periferie che ricordano quelle istituzioni totali vituperate da Michel Foucault.

Giustamente La Cecla individua nella spostamento di termini da «casa» ad «alloggio » l'orizzonte di questa degenerazione, il cui fallimento ha spianato la strada all'affermarsi del sistema della moda e, di conseguenza, al decostruttivismo internazionale. L'idea tayloristica di stoccare gli individui come ingranaggi di un sistema all'interno di alloggi razionali ha distrutto l'orizzonte storico-simbolico dell'architettura, ovvero quello delle relazioni primarie, ad esempio quella di vicinato, della cui perdita evidente anche gli architetti dovranno pur portare una responsabilità! Naturalmente, di fronte alle accuse di La Cecla, la comunità che si autolegittima «addetta ai lavori» già stringe le fila, cercando di depotenziare l'analisi a «logica di gossip» (Fulvio Irace, «Il Sole 24 ore») come espressione di una generica «ostilità al progetto».

Vero è che La Cecla riduce la complessità del Movimento Moderno e si lascia andare a una adulazione per Renzo Piano del tutto fuori contesto, ma mette a nudo le responsabilità del mondo dell'architettura.

Gli architetti sono rimasti in mutande a causa della loro ostinata volontà di rifondare solo dall'interno la loro disciplina (creando università fondate per scuole stilistiche) e non dal confronto con gli altri nuovi campi del sapere, strutturando per decenni un pensiero «unico» di riferimento, costruendo mostruose periferie consegnandosi, poi, talvolta, alla speculazione edilizia, tanto che le questioni in cui oggi si trovano impelagati sono «per lo più irrilevanti ».

Detto questo, non tutti i rilievi sono acriticamente accettabili: intanto bisogna essere consci che siamo di fronte a una smaterializzazione della civiltà con una conseguente ineludibile perdita di centralità dell'architettura. L'essere «al servizio dei potenti di turno» (gli stilisti) non è una novità: i grandi architetti sono sempre stati al servizio dei potenti di turno. Riuscire a ispirare un «trend» sarebbe un bene per gli architetti, se ciò non fosse fine a se stesso. Infine, il decostruttivismo internazionale, con i suoi limiti, è una testimonianza simbolica della società liquida, dello «stupefacente» e della trasformazione genetica e ha fornito anche sollecitazioni e sviluppo al settore e alla società.

Ma è anche un monito sul solipsismo «stilistico» in cui si rifugia l'architettura di fronte alle difficoltà di confrontarsi con problematiche come il protocollo di Kyoto, l'affermarsi o meno di città multiculturali, le dinamiche della comunicazione e l'interrogarsi su cosa voglia dire declinare il globale nel locale, magari riesplorando anche il lascito dell'architettura organica.
PIERLUIGI PANZA
Corriere della Sera
Terza Pagina - data: 2008-05-22 num: - pag: 49

 

Un tetto per tutti
Non solo gigantismo L'architettura alle prese con sciagure e povertà

Un caleidoscopio di immagini si sussegue senza sosta ridisegnando il profilo di muri, pareti, pavimenti. Le immagini, però, non riflettono il mondo onirico e colorato della fantasia, ma la nuda realtà: netta, graffiante, tragicamente attuale. E, ineluttabilmente, in bianco e nero.

Perché nella vita dei senzatetto o degli emarginati, quelli che lo studioso Zygmunt Bauman chiama «vite di scarto», non c'è posto per le sfumature, nè per i facili sentimentalismi. Forse, solo per il silenzio. Quello che accoglie il visitatore all'ingresso di «Casa per tutti», il suggestivo tema messo in mostra alla Triennale di Milano da Fulvio Irace, responsabile per la sezione architettura, e Aldo Bonomi in un percorso ricco di spunti di riflessione. La sfida, è comune: dimostrare come l'architettura moderna, viziata dai bisogni tipici delle società opulente della postindustrializzazione, si sia dedicata alle architetture spettacolari, come grattacieli, auditorium, negozi e musei, dimenticando di abitare il quotidiano. Un quotidiano frammentato e multietnico, quello degli immigrati in cerca di casa e lavoro, delle vittime delle catastrofi naturali, degli anziani che vivono le paure metropolitane, dei precari, degli studenti fuori sede e dei single.

Manca, insomma, un progetto di casa accessibile a tutti i protagonisti della società moderna, mentre i designer di oggi si affermano sempre più nel sistema delle archi-star, stilisti di linguaggi esotici e sorprendenti, ma superflui. La rivoluzione, però, è nell'aria. E reale. Dagli Stati Uniti arrivano gli «huts», minirifugi in legno edificabili in mezza giornata a 450 dollari e le «Pallett House» costruite con i bancali delle industrie per le vittime dello Tsunami, e dall'Olanda le «capanne» mobili con intelaiatura in alluminio, tetto e pareti di sacchi pieni di tessuti destinati alla discarica.

Si sente a fior di pelle la scommessa lanciata dalla mostra, quella di tenere aperta la porta della speranza di poter costruire una casa per tutti, anche se provvisoria. Ne «La vita nuda», la sezione curata dal sociologo Bonomi, sfilano a singhiozzo fotogrammi di chi vive recluso nel carcere di Bollate, o di chi ha vissuto le rivolte delle banlieu parigine. Si cammina sotto gigantografie che incombono dal soffitto con ritratti gli insediamenti dei rom, l'accoglienza degli immigrati a Lampedusa, la schedatura di chi, l'identità, l'ha ormai perduta.

Qualche soluzione concreta c'è. Arriva dall'Atelier Mendini e si chiama «10 € MQ», il primo progetto di cohousing in Europa per giovani sotto i 35 anni: 38 appartamenti tra i 30 e i 60 metri, in affitto alla Bovisa a 10 euro al mq. Pronto a fine 2009.
Corriere della Sera
data: 2008-05-22 num: - pag: 50

 

Il mistero Ritrovamento dell'Associazione speleologia cavità artificiali. L'ipotesi di un passaggio fino al Castello
Scoperto tunnel segreto nella chiesa di San Marco

Lo dicevano i vecchi. Erano voci che si perdevano nella notte dei tempi. Di quel collegamento sotterraneo tra la chiesa di San Marco e il Castello. E tanti anni fa lo stesso don Giovanni, parroco storico, più di trent'anni a dir messa da quell'altare, trovò una botola dietro una statua e l'aprì.

Senza però andare oltre quel buio che portava chissà dove. Accontentandosi di quella che forse era solo una bella storia. Che ancora resta tale e che però, forse forse, adesso comincia ad avere contorni più precisi. Sotto San Marco, infatti, è stato scoperto un passaggio segreto che porta verso Fatebenefratelli.

E oggi ad andare oltre quella botola sono stati alcuni speleologi milanesi che, grazie alla disponibilità dell'attuale parroco, monsignor Testore, si sono presentati con tutta l'attrezzatura necessaria a sfidare il sottosuolo. L'accesso al passaggio segreto, e quindi ad alcuni locali sotterranei, si trova presso una cappella laterale della navata destra della chiesa, appena di fianco alla statua lignea della Madonna della cintura. Le prime osservazioni fatte dagli esperti dell'Associazione speleologia cavità artificiali Milano hanno evidenziato come il luogo sia difficilmente raggiungibile e quindi l'accesso sia stato ideato perché rimanesse del tutto segreto.

Lo spazio a cui si accede attraverso la botola è il vano interno all'altare che, costruito in mattoni, presenta una scalinata composta originariamente da sette scalini in pietra. Calatisi con le corde per uno stretto cunicolo, gli speleologi sono poi arrivati a un secondo vano che ha l'aspetto di un pozzo senza però esserlo. Sulle prime, gli esperti hanno pensato si potesse trattare di una semplice stanza per nascondervi oggetti preziosi o forse anche persone.

Nel corso di una seconda ricognizione, però, si è notato che l'aria aveva un forte sentore di acqua stagnante. Questo perché era piovuto intensamente per alcuni giorni e potevano quindi esservi state infiltrazioni dal canale coperto che ancora scorre sotto via Fatebenefratelli. E così, a questo punto, gli speleologi non escludono che quella specie di pozzo potesse condurre ad altri ambienti sotterranei della chiesa, oppure proprio a un cunicolo ricavato all'interno della spalletta del canale. Dunque una vera via di fuga segreta nel sottosuolo. Magari un passaggio verso il Castello Sforzesco. Proprio come raccontavano i vecchi fedeli di San Marco, chiesa che secondo la tradizione fu dedicata al santo per riconoscenza dell'aiuto prestato da Venezia a Milano nella lotta contro il Barbarossa.
Carlo Lovati
Corriere della Sera
data: 2008-05-22 num: - pag: 10


L' intervista Il progettista lancia una proposta al governo. L' esempio è il quartiere romano della Garbatella
«Pronto a realizzare case popolari»
Fuksas: Tremonti faccia accordi con i privati per edilizia a basso costo, ma di qualità

«La responsabilità sociale dell' architetto? Per troppo tempo non siamo stati messi nelle condizioni ideali per costruire l' habitat quotidiano, mi riferisco per esempio alle case popolari.... Il problema non è più quantitativo ma qualitativo. Se non si assicura qualità a un prodotto delicato come l' edilizia popolare, salta la coesione sociale. Guardiamo a cosa succede a Tor Bella Monaca a Roma, al quartiere Zen a Palermo, alla Napoli di Scampia...» Massimiliano Fuksas, architetto e urbanista, ha lasciato la sua traccia alla Biennale Architettura di Venezia del 2000 imponendo lo slogan «Less aesthetic, more ethics». E ora lo spirito di quell' esperienza approda anche alla Triennale di Milano, al concetto di casa «effimera», smontabile e leggera firmata con Doriana Fuksas. Un' occasione per ripensare il ruolo dell' architetto oggi. Lei dice: non ci siamo occupati dell' habitat, delle case. Colpa della mania da gigantismo del sistema globale delle archi-star? «Il gigantismo non è una manìa ma quasi una via obbligata. Abbiamo provato a lungo a costruire abitazioni. Ma con una committenza unicamente privata i costi finali di vendita diventano impossibili: si pretende di spendere il minimo e di ottenere il massimo ricavo possibile. Significa far entrare non un cammello ma una carovana in una cruna di un ago. Allora ci si rivolge alle uniche committenze. Quella pubblica, quindi musei, grandi opere. O le Company, e vale lo stesso discorso. Ovviamente i grandi edifici hanno in sè una capacità iconica. Per tornare alle case, la mano pubblica dovrebbe....» Mettiamola così. Se lei, uomo di sinistra, dovesse suggerire un piano al governo Berlusconi cosa direbbe? «Non è difficile. Smetterla con la dismissione del patrimonio pubblico abitativo, con la orrenda "cartolarizzazione". Invece risanarlo e conservarlo, quel patrimonio edilizio pubblico. Importante passo successivo e operativo: raggiungere accordi precisi con gli imprenditori privati per consentire a noi architetti di misurarci con l' edilizia popolare. Pensiamo alla meraviglia della Garbatella a Roma. Ma anche negli anni Sessanta abbiamo visto splendide realizzazioni di Mario Fiorentino e Mario Ridolfi. Questo governo, qualsiasi governo dovrebbe ripensare il rapporto pubblico-privato nell' edilizia» Il centrosinistra al potere non ha avviato il meccanismo... «È stata persa una grande occasione. Ma lo è stata da quindici-vent' anni, indipendentemente dalle maggioranze» Non c' è un sospetto di amore per lo statalismo? «Nessuno statalismo, insisto. Ma protocolli chiari tra il pubblico e un privato che magari possiede i terreni» Lei pensa che un ministro come Giulio Tremonti possa capire il suo piano? «Penso di sì. Il patrimonio edilizio pubblico può funzionare anche da calmiere a un mercato impazzito. La bolla speculativa immobiliare, in questi anni, ha rappresentato un problema sociale drammatico. Invece consentire agli architetti di misurarsi con un' edilizia popolare di qualità può riavviare un meccanismo sia economico che estetico. Noi architetti abbiamo una gran voglia di misurarci con la casa per tutti: è il vero segno che, alla fine, si lascia. Perché ci si occupa della vita quotidiana degli uomini vivi, veri.» A quale tipo di edilizia popolare si ispirerebbe? «A quello più semplice del mondo. Avere la possibilità di progettare case che non siano immediatamente individuabili come "popolari". Case, insomma. Semplicemente case ben fatte. Così che non si dica: tu abiti nel blocco A e sei ricco, tu che vieni dal blocco B sei povero. Sembra una grande rivoluzione. Ma è possibile, posso assicurarlo. Sperimentare significherebbe anche immaginare spazi per la contemporaneità: meno bisogno di mobili, più superfici libere come si impone nell' era dell' informatica, dimensioni diverse per le nuove generazioni che sono fisicamente più alte. Questa sarebbe la strada per una integrazione sociale attraverso la casa popolare costruita grazie alla mano pubblica col privato». Una prima domanda ha riguardato Tremonti. E adesso Berlusconi. Lei ritiene che un uomo come il Cavaliere possa approvare un suggerimento come questo? «Difficile dirlo... Francamente non so bene di cosa si stia veramente occupando Berlusconi. Non abbiamo una grande frequentazione, questo è noto. Avevamo in comune un grande amico, lo scultore Pietro Cascella, che purtroppo è morto qualche giorno fa. Tutto qui...» * * * Chi è Massimiliano Fuksas, architetto romano, classe 1944, dopo gli studi ha aperto uno studio a Roma, a Parigi e successivamente a Vienna. Si occupa principalmente dei problemi urbani nelle grandi aree metropolitane e nelle sue realizzazioni cerca sempre di creare un nesso tra la costruzione ed il contesto in cui essa si trova. È stato membro delle commissioni urbanistiche di Berlino e di Salisburgo. Il suo modo di progettare si evolve da una serie di modelli bidimensionali che vengono trasferiti poi in tridimensionale. Tra le sue opere più recenti, il Centro ricerca Ferrari a Maranello, Modena (2001); il padiglione del Mercato dell' abbigliamento di Porta Palazzo (PalaFuksas), Torino (2004); la Fiera di Milano a Rho-Pero, Milano, (2005) e l' Armani tower a Tokio (2007)
Conti Paolo
Pagina 51
(22 maggio 2008) - Corriere della Sera

 

Roma Nuovo stop dopo quello sull'Ara Pacis: «Serve una gara, basta incarichi ad personam». E propone una via dedicata ad Almirante
Alemanno boccia il litorale di Fuksas

ROMA — Dopo le polemiche per la nuova copertura dell'Ara Pacis — incarico diretto affidato dall'allora sindaco della capitale Rutelli all'architetto americano Richard Meier — il primo cittadino di Roma Gianni Alemanno è tornato a parlare di architettura contemporanea. Bocciando, stavolta, Massimiliano Fuksas, firma dell'architettura internazionale e uomo da sempre vicinissimo alla sinistra. Oggetto della polemica di ieri, non tanto il nome dell'architetto in sé, quanto il «metodo», ovvero quel progetto affidato a Fuksas dall'ex sindaco Veltroni per ridisegnare il futuro di Ostia, litorale di Roma (punto saliente del progetto, due torri-hotel sul piazzale di fronte al mare alla fine della via Cristoforo Colombo, arteria voluta da Mussolini).

«Del progetto Fuksas su Ostia so poco, anche perché è uno di quei progetti calati dall'alto sul territorio. Noi, invece — ha detto Alemanno —, vogliamo indire bandi reali e pubblici che permettano a tutti gli architetti di partecipare. È finito il tempo degli incarichi ad personam

». D'accordo il neoassessore capitolino all'Urbanistica Marco Corsini: «Non conosco ancora il caso specifico. Ma in generale posso dire che Alemanno ha ragione mille volte. Da assessore la mia attività seguirà le regole della competizione imposte a livello nazionale e comunitario. Concorsi, gare, concorrenza ». Uomo bipartisan (è stato assessore a Venezia in una giunta di centrosinistra), Corsini non teme che le polemiche su Meier e Fuksas possano generare il dubbio di un centrodestra «nemico » delle archistar: «Non è questione di nomi, ben vengano anzi, ma nell'interesse di un'amministrazione pubblica l'esigenza di qualità progettuale deve essere reperita sul mercato attraverso progetti di gara».

Dall'architettura alla toponomastica, polemiche ieri anche per l'annuncio del sindaco di voler intitolare una strada a Giorgio Almirante, fondatore del Msi di cui ieri ricorreva il ventennale della morte: «Credo sia giusto affrontare in consiglio comunale un dibattito per giungere all'intitolazione — ha detto —. Almirante è stato il precursore della moderna destra democratica in anni difficili e tormentati ». Apprezzamenti sono arrivati dal Pdl, da destra (Storace ha parlato di «gesto di civiltà», Alessandra Mussolini di «Atto dovuto») nonché dalla vedova di Almirante, Assunta, che ieri ha partecipato alla messa in ricordo del marito in Santa Maria del Popolo, presente, tra gli altri, oltre ad Alemanno, il ministro della Difesa e «reggente» di An Ignazio La Russa. Molte invece le critiche da parte della sinistra romana, pur con sfumature diverse: nettamente contraria la sinistra radicale, che ha parlato di revisionismo (il capogruppo regionale di Rifondazione Ivano Peduzzi ha ricordato l'Almirante segretario di redazione della rivista di regime «La Difesa della razza» ed «esponente di spicco della Repubblica di Salò sostenuta dai nazisti»), mentre per il Pd non è un'«urgenza». Per il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, la «scelta riguarda il consiglio comunale, importante organo di cui non faccio parte».
Edoardo Sassi Le torri
Corriere della Sera
data: 2008-05-23 num: - pag: 29

 


Polemiche Fa discutere la tesi dell'antropologo Franco La Cecla sui danni causati dallo style-system alle città
Architetti: la moda non fa paura
Botta: «È un male passeggero». Koolhaas «Finita l'età delle teorie»

La moda ha ucciso l'architettura o l'ha solo ferita? Per alcuni progettisti la tesi contenuta nel libro di Franco La Cecla Contro l'architettura (presentata ieri sul Corriere)

non coglie nel segno: i sistemi della moda e della comunicazione, al massimo, hanno ferito l'architettura... che con un buon cordiale si riprenderà. Ma critiche e approvazioni all'invettiva dell'antropologo milanese sono di segno diverso, talvolta opposto. E questo va a suo favore.

Rem Koolhaas, per La Cecla il «trend setter» di Prada, autore del breviario nichilista dell'architettura contemporanea, Junkspace (Quodlibet), non può che ribadire una tesi già espressa al Congress centre di Londra nell'intervento Dilemmas in the evolution of the city: «C'è stato un periodo in cui sapevamo esattamente quello che dovevamo fare: molti hanno scritto manifesti, dichiarando quello che stavamo facendo e alcuni hanno realizzato quei manifesti.

Negli ultimi 15 anni, a causa dei nostri errori, la cultura è cambiata, e quella fede nel sapere ciò che dovevamo fare è crollata completamente. Oggi non scriviamo più manifesti, ma al massimo ritratti di città particolari, non con la speranza di sviluppare una teoria su cosa fare, ma solo con quella di capire come sono attualmente le città. La fiducia è completamente assente e ci vorrà tempo prima che ritorni».

Su questa linea, ma in una forma tanto radicale da rigettare le tesi di La Cecla, è il progettista del nuovo Museo del '900 e del Just Cavalli Café di Milano, Italo Rota: «La moda non ha ucciso nessuno: un paio di jeans di Cavalli che migliorano la forma di un 60enne lo aiutano a vivere meglio, così come una casa a Dubai, che costa meno che in Brianza. La Cecla parla dello 0,1% del mondo degli architetti e ignora quindi il 99,9% dei problemi. Ad esempio, il fatto che i costruttori si stiano già spartendo le aree per l'Expo di Milano».

Più comprensione per il j'accuse si trova abbandonando gli style-architect (ci sono anche Tadao Ando per Armani, David Chipperfield per Dolce & Gabbana...). Mario Botta, ad esempio, ritiene veritiere le critiche di La Cecla, ma toccano, afferma, «solo una degenerazione impietosa del nostro tempo. È vero che la moda ha spopolato in settori non solo di costume attraverso la pubblicità e altre forme edonistiche del vivere. Ora sembra contare solo l'immagine, ma non è così: l'architettura resta costruzione dello spazio in rapporto con un contesto, un'attività che lavora sul territorio della memoria. L'architettura è il risultato delle forze fisiche relative al processo di creazione. Se sono in atto solo quelle edonistiche è chiaro che la forma finale sia quella del decostruzionismo contemporaneo. Ma anche la moda passerà di moda». Un'analisi non dissimile è quella di Vittorio Gregotti, che di La Cecla, però, rifiuta la critica di «non assunzione di responsabilità» da parte degli architetti che hanno costruito alloggi popolari in periferia.

Un tema, quest'ultimo, sul quale invece benedice le critiche di La Cecla il direttore del Domenicale,

Angelo Crespi, che con il critico Nikos Salingaros ha bacchettato il decostruzionismo delle «archistar »: «Ogni civiltà ha costruito case che rappresentavano un modo di pensare e vivere; i nostri architetti fabbricano alloggi e mausolei per futuri cadaveri. Pensiamo alle periferie ideate dai modernisti: sono luoghi orrendi, degradati, in cui gli abitanti hanno come disvalore di riferimento il brutto. Pensiamo invece a quanto i borghi medievali, costruiti senza l'ausilio di urbanisti e architetti, siano integrati nel paesaggio e funzionali alla vita umana. L'architettura e l'arte hanno rinunciato a pensare in termini di bellezza ».

Ed è proprio Salingaros che, pur volendo riformulare l'idea di progetto su base «biologica» e «scientifica», accenna a vecchie nostalgie attraverso la citazione di alcuni amici, come Leon Krier, l'architetto classicista prediletto dal principe Carlo, e Michael Mehaffy, già «direttore educazione» della Fondazione del principe Carlo. «Leon — afferma Salingaros — non vuole mescolarsi negli affari italiani, ma dice che è totalmente disgustato della direzione che ha assunto l'architettura contemporanea italiana». Quanto a Mehaffy, afferma: «Questi progetti (il riferimento è al grattacielo di Libeskind per Milano) non aggiungono realmente qualcosa alla vita di una città, forse sono solo un'icona aziendale che potrebbe essere interessante guardare per un paio d'anni. Il prezzo urbano pagato, però, è molto elevato».
PIERLUIGI PANZA
Corriere della Sera
2008-05-23 num: - pag: 57

 


Mostra in Triennale Abitare nelle città di domani. «Troppa burocrazia frena lo sviluppo»
Case come torri e a ombrello «Nasce il futuro, basta ghetti»
L'assessore Masseroli: più alloggi per i poveri, i creativi ci aiutino
Il sociologo Bonomi: tempo fino all'Expo per intervenire. «Sì alle cascine come alloggi temporanei per studenti»

Salta da una conferenza stampa all'altra, l'assessore Carlo Masseroli (Urbanistica). E ad ogni presa di microfono corrisponde una promessa di sviluppo urbanistico (due giorni fa: il quartiere di Cascina Merlata). L'ultima in ordine di tempo l'ha fatta alla Triennale. Riassumibile nella formula: «Più case temporanee per tutti». Del resto lo scenario alla Triennale era ideale: la presentazione di una mostra dal suggestivo titolo: Una casa per tutti (da oggi aperta al pubblico).

L'idea di base, è che la casa dà sicurezza e fiducia. E che con un po' di creatività e pochi soldi si possono realizzare strutture valide anche per i ceti bisognosi (studenti poco facoltosi, anziani, immigrati, etc.) Ecco allora la casa ombrello dell'architetto giapponese Kengo Kuma. L'abitazione fatta di balle riempite di scarti di stoffa pensata da giovani olandesi. E la casa palo di Fuksas (la struttura poggia letteralmente su un palo).

Difficile però immaginare una famiglia, sia pure affamata di abitazione a basso costo, accontentarsi di case ombrello. L'edilizia popolare è ferma da 30 anni in Italia, denuncia Fuksas. C'è bisogno di case come il pane. «Vero. Però l'idea che sta dietro la mostra può essere un'occasione di riflessione proprio per il Comune », puntualizza Fulvio Irace, uno dei curatori. «Con un po' di creatività si possono realizzare alloggi».

«Ma noi ci siamo», risponde l'assessore. Che da una conferenza stampa all'altra, ripete lo stesso concetto: «50 anni di urbanistica a Milano hanno prodotto solo ghetti ». Dice che gli è piaciuta l'idea di uscire dagli schemi; che gli è piaciuta moltissimo quella di Stefano Boeri (fatta nei giorni scorsi e rilanciata dal sociologo Aldo Bonomi sul Corriere), di utilizzare cascine (Milano è piena) da trasformare in abitazioni temporanee per studenti e lavoratori. Peccato che fino ad ora si è molto parlato. E di case in affitto neanche l'ombra. Il problema? Gli intralci amministrativi, dice l'assessore. Racconta di un suo predecessore che ha ricevuto una denuncia e subìto un processo. Solo perché avrebbe voluto dare una cascina ad un'associazione. «Ci vuole innovazione amministrativa », sentenzia Masseroli. Fuksas sorride, tutti annuiscono. Tranne l'impassibile Kengo Kuma (non parla italiano). «I tentativi vanno fatti », continua l'assessore. «E fateli », ha replicato Bonomi. «Avete sette anni di tempo fino all'Expo. Alla Bovisasca c'era un campo nomadi tra Fiera, Politecnico e l'area Expo. Nessuno se n'era accorto. Questo è il vero problema: modernizzazione e povertà. È doloroso dirlo ma il sapere sociale più che dalle università oggi è coltivato dalle questure ». Fuksas sorride. Tutti annuiscono. Tranne il giapponese Kengo Kuma.
Agostino Gramigna
Corriere della Sera
data: 2008-05-23 num: - pag: 10


ADDII
Gnecchi Ruscone, il creativo che amava arte, yoga e vela

Un uomo dolcissimo, sensibile, ironico, libero, sempre con il sorriso sulle labbra e una gran voglia di vivere. Profondamente radicato a Milano per le possibilità di relazione e confronto, padre affettuoso della giovane figlia Anna, era un amante della vela: appena il lavoro lo permetteva, andava per vento in tutto il Mediterraneo, con il sogno di compiere prima o poi la traversata atlantica. Un creativo, dal segno stilistico inconfondibile, un grafico che sapeva trasformare una commissione non solo in un progetto, ma anche in un evento artistico. Nato nel 1954 a Milano, appartenente ad una nota e storica famiglia della nostra città, Andrea Gnecchi Ruscone era il secondo di quattro fratelli maschi: Tomaso, il primo, svolge l' attività di medico, Antonio, il terzo, è imprenditore teatrale nel settore danza. La prematura scomparsa di Michele, l' ultimo, dopo il diploma al Conservatorio in flauto, fu per tutta la famiglia un' autentica tragedia. Intanto Andrea aveva cominciato ad avvicinarsi alla fotografia e alla grafica. Dopo l' Istituto del design, frequentò la facoltà di Architettura, per crescere poi sotto la guida di grandi maestri della comunicazione visiva come Max Huber, Heinz Waibl, Salvatore Gregorietti, e perfezionare le proprie conoscenze in Australia e negli Usa. Tornato in Italia, aprì il suo studio in zona Cordusio, lavorando come art director per i più importanti editori. Collaborò con il fratello Antonio, che rappresenta in esclusiva per l' Italia compagnie di danza internazionali come quelle di Ezralow, Parson, Pendleton, firmando la veste grafica dei libretti degli spettacoli. Tante passioni attraversarono il variegato panorama degli interessi professionali e artistici di Andrea. Nel 1998 l' incontro con Guido Gabrielli. Diedero vita assieme alla Pulsa, che doveva essere in origine una rivista di tendenza per giovani e in seguito si trasformò in una società di servizi mirati per la comunicazione e l' immagine di aziende e case editrici. Diventarono anche editori della rivista «Yoga Journal», il primo mensile italiano sulla cultura e la pratica dello yoga. Ora chi lo ha amato e gli amici vogliono immaginare che Andrea abbia finalmente trovato il modo di staccarsi dalla sua scrivania e, raggiunta la barca a vela, sempre con la foto nel portafoglio dell' amatissima figlia Annina che fra poco compirà 18 anni, se ne sia andato via in silenzio a solcare l'oceano sereno che non conosce tempo.
Manzoni Franco
Pagina 9
(23 maggio 2008) - Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 


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