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Una vocazione alla molteplicità

Dal 03.06.2011 al 04.08.2011

Report dell'incontro dello scorso Giovedì 23 Giugno dedicato al libro "La stagione delle scelte. Lodovico Meneghetti, architettura e scuola" a cura di Daniele Vitale

Giovedì 23 Giugno presso la Biblioteca dell’Ordine si è tenuto l’incontro di presentazione del libro “Le stagioni delle scelte: Lodovico Meneghetti, architettura e scuola” a cura di Daniele Vitale. Si tratta di un lavoro che illustra l’opera dell’architetto novarese attraverso un lungo e appassionato saggio autobiografico, una sezione di contributi da parte di personaggi che hanno condiviso con lui lavoro e impegno politico e dei ricchi apparati.

La storia si fa anche con i se”, diceva Fernand Braudel, rovesciando un luogo comune secondo il quale la disciplina dello storico coinciderebbe con l’analisi di avvenimenti nella loro successione temporale. Con questa frase – cara a Meneghetti – Angelo Torricelli avvia il primo intervento della conferenza, introducendo un tema fondamentale del mestiere dell’architetto: l’obbligo della scelta, postulato stesso dalla definizione di progetto. Scegliere significa recuperare la molteplice virtualità del reale, rivendicando il proprio ruolo di architetto, artefice dei luoghi entro cui si svolgono le vicende umane.

Dalle esperienze professionali a Novara con i soci Vittorio Gregotti e Giotto Stoppino, passando per l’impegno presso il Comune di Novara fino all’insegnamento al Politecnico di Milano, Meneghetti ha sempre sottolineato l’obbligo della conoscenza come antidoto verso certe eccessive specializzazioni e la necessità di una continua revisione dei propri princìpi: un metodo della “crisi” dove la costante demolizione e ricostruzione delle certezze trova sintesi nella personale vocazione alla “molteplicità” di professionista, uomo politico, insegnante e musicista. Una soluzione olistica della vita in cui l’articolazione delle parti e dei saperi concorre utilmente ad una visione del progetto.

Gli architetti della sua generazione hanno avuto l’obbligo etico di affrancarsi, almeno parzialmente, dal metodo delle avanguardie e dagli aspetti di maggior perentorietà del Movimento Moderno – come nota Enrico Bordogna – per sfuggire ad un’esangue continuità con il razionalismo. Tale revisione non è avvenuta solo attraverso la formulazione teorica ma anche con l’acquisizione di competenze costruttive, un sapere di cantiere che, lungi dall’essere un rifugio da questioni più generali, ha contribuito alla formulazione di un linguaggio.

Pierluigi Benato, nel suo intervento, passa in rassegna diverse architetture novaresi del lavoro professionale del trio Meneghetti-Gregotti-Stoppino, evidenziandone la perizia costruttiva, anche se a tratti manomessa da qualche intervento di manutenzione eccessivamente disinvolto ad opera di professionisti locali.

Un ulteriore aspetto significativo del lavoro di Meneghetti – sottolinea Daniele Vitale – sta nella continuità di pensiero tra le architetture costruite, l’elaborazione teorica, l’impegno politico e l’insegnamento. Tale legame si manifesta nella concezione unitaria, senza cesure, di architettura e urbanistica, altro tema importante per gli architetti della sua generazione: il quartiere popolare Feltre a Milano, alla cui costruzione ha partecipato anche Meneghetti, è non a caso considerato un esempio virtuoso, dopo il QT8, in cui architettura e urbanistica convivono naturalmente attraverso una figuratività chiara e univoca, a dispetto del gran numero di professionisti impegnati nella progettazione.

Lo storico milanese Ezio Bonfanti aveva individuato una debolezza della cultura italiana del dopoguerra nella propensione a pensare per episodi – sottolinea Graziella Tonon in un suo intervento dal pubblico – affidando alla “performance” individuale il compito di risolvere le contraddizioni del rapporto tra antico e moderno, tra razionalismo e città storica e, in ultima analisi, tra architettura ed urbanistica: in questo senso, Lodovico Meneghetti ha il merito di aver colto questa criticità e aver lavorato per la sua risoluzione. E’ l’orizzonte culturale dell’ “umanesimo socialista” – evidenzia Giancarlo Consonni – in cui non si trova separazione tra politica e città, in cui l’impegno civile è strettamente connesso alla questione urbana. Una cultura del “fare” correlata alle questioni della civiltà moderna, come dalla lezione di William Morris, non a caso personaggio molto amato da Lodovico Meneghetti.

Alessandro Sartori

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