Dal 18.04.2011 al 19.05.2011
11 Aprile, con Mario Botta alla Casa di Riposo per Musicisti: un'occasione per discutere dell'architettura del teatro e per una visita al celebre edificio del Boito
All'interno del ciclo di conversazioni "Parole in nota 2011", organizzato da Andrea Kerbaker in collaborazione con la società del Quartetto presso Casa Verdi, ha assunto particolare interesse, per i temi proposti, l'incontro con l'architetto ticinese Mario Botta, progettista del più importante intervento architettonico dell'ultimo decennio a Milano – l'ampliamento del teatro alla Scala – e autore di "stanza" (con GVM, Mapei e Riva 1920), una delle dieci installazioni della grande mostra evento Interni mutant architecture & Design, allestita nei cortili dell'Università Statale di Milano per la settimana del Fuorisalone 2011.
L'architetto, affiancato nel Salone dei concerti di Casa Verdi dal filosofo Carlo Sini e dallo stesso Andrea Kerbaker, dà inizio alla serata raccontando un aneddoto: uscendo dal cantiere della Scala, poco tempo prima della sua riapertura, un gruppo di cittadini chiede di essere rassicurato sulla buona riuscita dei lavori e del risultato finale del progetto. Mario Botta risponde che la Scala tornerà "più vecchia e più bella di prima", ma gli stessi cittadini ammettono sorprendentemente di non essere mai entrati nel teatro. Questo atteggiamento – sottolinea Botta – è la dimostrazione di come certi luoghi dell'immaginario collettivo e della memoria siano necessari anche per coloro che non li vivono direttamente: un senso di appartenenza più forte dell'uso, della frequentazione, in cui si esprime la vera essenza di una partecipazione al con-vivere civile.
"Quando mi è stato chiesto di occuparmi del teatro alla Scala" – continua Botta – "mi sono subito venuti in mente i racconti di mia nonna; provengo da una famiglia contadina del Canton Ticino e mi ricordo i racconti dei suoi viaggi in cui accompagnava i signori del paese (Luino, sul lago Maggiore) alla Scala, con il calesse". Questo senso di appartenenza era trasversale, si partecipava di un evento indipendentemente dal ruolo svolto e dalla classe sociale. La città europea offre, attraverso la sua stratificazione storica e gli eventi che la segnano ("le idee della vita" - ama ripetere – "sono fortunatamente più forti delle idee degli architetti"), momenti di una memoria collettiva che in altre realtà non si ritrovano. A tal proposito Andrea Kerbaker mette in evidenza come la città americana non abbia un centro e delle piazze, mentre Mario Botta racconta la straordinaria operazione urbanistica del Piermarini: dopo il grande incendio del vecchio teatro nel palazzo di Corte, egli demolisce la vecchia chiesa trecentesca di S. Maria della Scala e sceglie di costruire il teatro a dua passi dal Duomo. È proprio in questa città che ancor oggi tutti si riconoscono; la città è tale perchè ha dei luoghi cardine e dei limiti, e se non ci sono più limiti non c'è più la città (oppure – mutatis mutandis – tutto è città...)
Quando c'è stato l'incendio al teatro La Fenice a Venezia l'opinione più comune era che avrebbe dovuto essere ricostruito dov'era com'era; dal punto di vista della real-politik tale opinione è condivisibile, ma – insiste Botta – oggi è impossibile rifare un teatro com'era, è necessariamente un falso storico; perchè oggi noi siamo così fragili da sentire la necessità di ricostruire il falso? Se noi fossimo una società forte, che ha il coraggio di proporre i propri valori, non ci porremmo neanche il problema di ricostruire imitando il passato: paradossalmente la fortuna critica dei musei del XX secolo è in fondo il sintomo di una grande debolezza; bisognerebbe invece avere una fiducia tale nella cultura del moderno che ci consenta di esprimerci con un linguaggio e con delle tecniche che sono proprie della nostra cultura. Questo è evidente soprattutto nel tema del sacro.
Carlo Sini afferma che in poesia e in musica noi possiamo trasferire in un'altra dimensione un messaggio che non deperisce materialmente, in architettura no. Ma anche nella musica c'è chi vuole usare gli strumenti della tradizione e chi vuole sperimentarne nuovi.
La condizione dell'architetto – interviene Botta – è particolare: è l'architetto ad essere scelto per fare un lavoro. Botta ha fatto una sinagoga in Israele ma non conosce in profondità la cultura ebraica, così come ha fatto un progetto ad Amman per una moschea ma è lontano dal mondo islamico. Il committente in realtà è la società: si è scelti, non si sceglie nel proprio lavoro. "Ma" – afferma Botta – "se io potessi scegliere farei solo chiese, perchè nello spazio del sacro ho trovato le ragioni più importanti del fare architettonico: l'idea della luce come generatrice dello spazio, l'idea della soglia, l'idea del muro come elemento solo apparentemente finito. Ma il desiderio di ogni architetto è quello di costruire in città; la città sta all'architetto come il museo sta all'artista. L'architettura non si basa sull'oggetto costruito, ma sui rapporti". A questo punto l'architetto svizzero racconta un altro dei suoi curiosi aneddoti, ricordando di aver fatto un progetto per il pianista Arturo Benedetti Michelangeli, al quale chiese perchè si fosse rivolto proprio a lui che non capiva niente di musica; la risposta, immediata, fu: "perchè gli altri architetti dicono di capirla".
Kerbaker chiede quale sia la differenza tra la committenza pubblica italiana e quella estera
Botta afferma che lavorare in Italia ha tanti vantaggi: il clima, il cibo, il contesto, ma è difficilissima la procedura per portare avanti i lavori. Anche partendo dal principio che tutto sia corretto e secondo la legge, i tempi si dilatano. L'Italia non è un paese che sa pianificare, sa improvvisare benissimo – e in questo supera tutti gli altri – ma non pianificare.
Sul finire del dibattito interviene a
sorpresa un'anziana Ospite (ex cantante lirica) di Casa Verdi,
che afferma di essere alla Scala quasi tutte le sere e di farsi
portavoce di tutti i suoi amici scaligeri, loggionisti e non
loggionisti. Il suo intervento, dai toni critici ma tutt'altro che
fuori luogo, chiede ragione di alcune scelte progettuali relative al
nuovo intervento di Botta, come la distruzione dei camerini storici e
della Piccola Scala, esprimendo peraltro forti perplessità sulla
portineria e sulla scala di sicurezza di collegamento tra i livelli
delle logge, già chiusa da molto tempo nonostante sia stata
realizzata nell'ultima ristrutturazione. Botta risponde che la
scala in questione è l'unica che prende tutti i livelli della logge,
e nasce come scala di soccorso, permettendo di ottenere l'abitabilità
che altrimenti non ci sarebbe stata. Se la scala è chiusa da sei
anni è forse un problema di gestione, perchè si tende a ridurre il
personale di controllo. L'architetto precisa di essersi occupato
della parte nuova (la torre scenica e i nuovi camerini), mentre tutto
il restauro conservativo della parte monumentale è stato seguito
dall'architetto Elisabetta Fabbri con la consulenza della
Sovrintendenza ai Beni Architettonici. I vecchi camerini e la sala
Gialla sono stati demoliti per poter far spazio al palco laterale,
laddove c'era la Piccola Scala, e tutto ciò per adeguare il teatro
alle più recenti normative in materia di sicurezza. La Scala –
conclude Botta – così com'era non sarebbe stata più aperta, non
c'erano i requisiti di sicurezza. Prima c'erano 32 aperture di
palcoscenico all'anno, oggi ce ne sono 160: i nuovi spazi permettono
alle scene di entrare lateralmente, di uscire, di andare sotto ed
essere sopraelevate; c'è una grande dinamicità. Con l'intervento –
nonostante tutte le critiche che si possono fare – sono stati dati
alla Scala almeno altri cinquant'anni di vita.
Dopo l'incontro si è tenuta una breve
visita guidata agli ambienti di Casa Verdi.
Edificio potente e drammatico, espressione di una precisa volontà culturale e stilistica che tra Ottocento e Novecento si proponeva di superare il dissidio tra "arte" e "tecnica" attraverso il ricorso al neoromanico, la Casa di Riposo per Musicisti (1895-99) può essere considerata l'ultimo capolavoro di Giuseppe Verdi, che in una lettera all'amico Giulio Monteverde la definì "l'opera mia più bella"; la Casa, per volontà del Maestro, fu progettata dall'architetto Camillo Boito, fratello del compositore Arrigo – librettista delle ultime opere di Verdi, come Otello e Falstaff – e inaugurata nel 1902, un anno dopo la sua morte. Secondo lo statuto la casa è aperta ai "musicisti meno fortunati, a coloro che si siano dedicati per professione all'arte musicale" per trascorrervi serenamente la propria vecchiaia. Ciascun ambiente è vissuto e allestito all'insegna della musica: nelle sale, dalle più grandi alle più piccole, sono disposti strumenti musicali che possono essere liberamente suonati dagli ospiti della casa. Soltanto il pianoforte collocato nella sala araba (così chiamata per la presenza di sfarzosi mobili orientali), a lato del grande salone dei concerti, non è più nè accordato nè suonato, per rispetto al Maestro, che fino all'ultimo periodo della sua vita lo utilizzò per comporre i propri lavori. Casa Verdi è una casa della memoria, uno spazio vitale ma non museo di se stessa. Non esiste alcuna omologazione imposta agli ospiti, a partire dalle stanze, che non sono camerate, ma doppie o singole: la libertà e l'originalità espressiva manifestata per la musica durante la vita si ripresenta in tutti gli spazi con la stessa carica vitale nell'età della vecchiaia, in un concerto egualitario e democratico di cui il Maestro con grande generosità scrisse lo spartito negli ultimi anni di vita. E il famoso ritratto di Verdi con il cappello a cilindro posto nel grande salone, splendida copia dell'originale del pittore Giovanni Boldini conservato alla Galleria nazionale d'Arte Moderna a Roma, sembra testimoniarlo.
La severità del complesso
architettonico, con le murature esterne in mattoni a vista alternate
a inserti in pietra chiara che uniscono funzione decorativa e
costruttiva, sembra prendere le distanze dagli eccessi
dell'eclettismo, affidando all'architettura una 'moralità' che
trovava riscontro soltanto nella tradizione costruttiva medievale
lombarda, quella tradizione che a Milano aveva segnato persino i modi
della grande stagione rinascimentale. Abbandonata una prima soluzione
planimetrica più compatta, Boito adatta la facciata al profilo del
lotto e realizza la grande corte rettangolare, dominata, proprio di
fronte all'ingresso, da due ordini di trifore che ripropongono quelle
del corpo centrale del fronte esterno; le aperture corrispondono a
piano terra all'ingresso della cripta che ospita i sepolcri di
Giuseppe Verdi e della seconda moglie Giuseppina Strepponi, al piano
superiore alla cappella del complesso. Sensibilità profondissima del
Maestro, che volle la cappella in cui si celebrano le messe e in cui
si svolgono i funerali proprio sopra la sua umile tomba: una
vicinanza d'intenti dichiarata dalla composizione architettonica
unitaria nella definizione del fronte sul cortile. La cripta è
ornata con mosaici tratti da cartoni di Lodovico Pogliaghi,
realizzati grazie alla generosità di Teresa Stoltz, amica e
straordinaria interprete delle opere del Maestro. È ancora oggi vivo
nell'immaginario collettivo il ricordo della traslazione delle salme
di Verdi e della Strepponi dal cimitero Monumentale, dove erano
stati sepolti provvisoriamente, alla Casa di Riposo di piazzale
Michelangelo Buonarroti. Un corteo a cui partecipò tutta la città,
allora come oggi unita nel riconoscere la grandezza di un uomo di
straordinario valore per la cultura del nostro Paese.