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Nell’architettura contemporanea il vetro è indubbiamente uno dei materiali privilegiati dai grandi studi di progettisti, soprattutto per questioni legate alla possibilità di amplificare la presenza della luce negli interni, per la ricerca di un rapporto più diretto e fluido tra interno ed esterno ed ancora per l’applicazione di tecnologie di climatizzazione ambientale. L’uso del vetro in architettura richiede la medesima maestria di certi artigiani veneziani: è un sottile gioco di superfici e volumi. È dosaggio di contrapposizioni, dove il pieno, l’opaco, il solido sorreggono ed esaltano il vuoto, il trasparente, l’evanescente. Questo breve itinerario vuole suggerire uno sguardo diversamente attento su alcuni edifici che, nella Milano moderna e contemporanea – una città certamente non di vetro, se paragonata a Berlino o Londra o New York – sanno esprimere un’attenzione spesso discreta eppure raffinatissima alle potenzialità e all’uso di questo nobile materiale da costruzione, che fa della sua apparente assenza il paradossale punto di forza e che inevitabilmente corrode, buca, asporta la massa piena affinché luce ed aria compiano il loro incontro con l’architettura.
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“La superficie della terra cambierebbe moltissimo se l’architettura in mattoni venisse eliminata e ovunque sorgesse al suo posto l’architettura di vetro. Sarebbe come se la terra si ricoprisse di gioie preziose in smalto e brillanti. La magnificenza di un simile spettacolo è addirittura inimmaginabile. E ovunque avremmo sulla terra splendori e delizie più grandi di quelle che si trovano nei giardini delle Mille e una notte. Avremmo un paradiso sulla terra e non sentiremmo più il bisogno di guardare con nostalgia al paradiso nel cielo”.
Paul Scheerbart, Architettura di vetro, 1914
Sono passati molti anni da quando Paul Scheerbart pubblicò il volume “L’architettura di vetro” e Bruno Taut realizzò al Werkbund di Colonia il Padiglione del Vetro, una struttura che intendeva dare vita ad un’architettura di cristallo, immateriale e trascendente. Dovremo aspettare la metà degli anni Venti per vedere, grazie alla nuova cultura industriale, Mies van der Rohe ipotizzare la possibilità di realizzare progetti per grattacieli di vetro, che avrebbero permesso agli uomini di vivere in edifici trasparenti. In Italia queste intuizioni progettuali trovarono la possibilità di realizzarsi attorno agli anni Cinquanta, quando all’interno delle principali realtà urbane prende piede la facciata di vetro, simbolo della Ricostruzione. Ancora una volta è l’industria a soccorrere l’architettura, grazie alla raggiunta capacità di produrre grandi lastre; proprio grazie agli sviluppi tecnologici, la facciata di vetro diviene sempre più omogenea, anche per l’assottigliarsi dei giunti orizzontali e verticali. L’architettura conquista il senso della leggerezza.
“Lo sapeva, Hector Horeau. Lo sapeva benissimo che faccia aveva. Quel pomeriggio, giù alla vetreria e tutte le altre volte. Ogni tanto penso che tutta questa storia del vetro…, del Crystal Palace e di tutti quei miei progetti… vede, ogni tanto penso che solo un uomo spaventato come me poteva farsi venire una mania del genere. Sotto sotto non c’è altro… paura, solo paura… Lo capisce?, è la magia del vetro… proteggere senza imprigionare… stare in un posto e poter veder ovunque, avere un tetto e vedere il cielo… sentirsi dentro e sentirsi fuori, contemporaneamente… un’astuzia, nient’altro che un’astuzia… se lei vuole una cosa e però ne ha paura non ha che da mettere un vetro in mezzo… tra lei e quella cosa… potrà andarle vicinissimo eppure rimarrà al sicuro… Non c’è altro… io metto pezzi di mondo sotto vetro perché quello è un modo di salvarsi… si rifugiano i desideri, li dentro… al riparo dalla paura… una tana meravigliosa e trasparente… Lo capisce, lei, tutto questo?”
Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, 1996
Nell’architettura contemporanea il vetro è indubbiamente uno dei materiali privilegiati dai grandi studi di progettisti, soprattutto per questioni legate alla possibilità di amplificare la presenza della luce negli interni, per la ricerca di un rapporto più diretto e fluido tra interno ed esterno ed ancora per l’applicazione di tecnologie di climatizzazione ambientale. In realtà si deve anche prendere atto che molta della fortuna di questo materiale sembra legata ad una sensualità dalla facile presa su chi privilegia la moda al pensiero progettuale, così i molti imitatori delle grandi firme, trovano nell’abuso o nell’uso insensibile del vetro l’illusorio imprimatur del lusso e dell’attualità. Nascono così edifici illogicamente dotati di grandi superfici vetrate senza alcuna relazione con il programma progettuale complessivo e colpevolmente assenti di consapevolezza tecnologica. Luoghi invivibili dove la manutenzione complessa e l’inevitabile termocondizionamento sovradimensionato diventano immediatamente errori ed “orrori”, come certe insignificanti torri che riflettono il nulla urbano all’ingresso cittadino di molte arterie autostradali milanesi. L’uso del vetro in architettura richiede la medesima maestria di certi artigiani veneziani: è un sottile gioco di superfici e volumi. È dosaggio di contrapposizioni, dove il pieno, l’opaco, il solido sorreggono ed esaltano il vuoto, il trasparente, l’evanescente. È scelta di superfici continue che producono riflessi e profondità, prospettive e giochi di immagini ripetute. Ancora è ricerca di un rapporto diverso con l’affacciarsi, con il guardare dentro oppure fuori; ma è anche colore, incrocio di luci, domino della tecnologia. Occorrono intuizioni chiare e intenti coerenti, per dominare tecnologie complesse che la produzione industriale offre in gamme sempre più ampie (vetri a spessore differenziato, ad abbattimento termico, fotocromatici, oppure lisci, scabri, sabbiati, acidati, lenticolari, oppure stratificati, blindati, a camera d’aria, etc.), che si sposano con materiali sempre più sofisticati nelle prestazioni e nelle conformazioni (basti pensare alle componenti metalliche delle strutture autoportanti). Questo breve itinerario vuole suggerire uno sguardo diversamente attento su alcuni edifici che nella Milano moderna e contemporanea, una città certamente non di vetro, se paragonata a Berlino o Londra o New York, sanno esprimere un’attenzione spesso discreta eppure raffinatissima alle potenzialità ed all’uso di questo nobile materiale da costruzione, che fa della sua apparente assenza il paradossale punto di forza che inevitabilmente corrode, buca, asporta la massa piena affinché luce ed aria compiano il loro incontro con l’architettura. Due grattacieli, due linee svettanti al cielo, dal disegno emozionante nella sua pulizia, la Torre Galfa ed il più noto Pirelli, rappresentano il punto di partenza ideale: il secondo ancora ancorato al pieno, diamante dai fianchi sottili, ma solidi che si aprono ad una studiata successione di moduli che sono una incredibile facciata vetrata, oggi restituita a miglior gloria dal recente restauro ed il primo che cerca di più la smaterializzatone delle superfici (architettura verticale che molto avrebbe da insegnare a certi futuri “cuginetti” tutti storture e stampelle).
Ancora il maestro: un Ponti che al Palazzo Montedoria fa della sequenza apparentemente libera di forature, il ricamo del vuoto sulle facciate diamantine di un troppo spesso poco apprezzato edificio per uffici, dove gli spessori dei telai dei serramenti corrono magicamente a filo della facciata stessa. Poi la Milano dell’oggi, che nel grigiore del suo inquinamento irrisolto osa ancora offrire grandi superfici alle poveri sottili, come avviene per la Sede del Sole 24 Ore che sembra una architettura di carte da gioco con quella sua successione di piani e superfici ortogonali, appoggiate tra loro si spigoli così sottili (ma sono carte “di vetro”) o che della trasparenza fanno panneggi appoggiati su perfici pre-esitenti (gioco di rimandi tra le diverse epoche, come stratificazioni archeologiche al vero) The Carlyle Group o ancora volumi interi accostati alla storia in un proficuo rapporto di contrasti Mediateca di S. Teresa. Una Milano che ricerca emozioni percettive differenti e soluzioni ecologiche alternative in via Bergognone o che si colora inaspettatamente e maliziosamente in via Piranesi, a ricordare che anche i riflessi del quotidiano possono nascondere la voglia di incontrarsi e di stare assieme.
“Noi viviamo perlopiù in spazi chiusi. Essi costituiscono l’ambiente da cui si sviluppa la nostra civiltà. La nostra civiltà è in certa misura un prodotto della nostra architettura. Se vogliamo elevare il livello della nostra civiltà saremo quindi costretti, volenti o nolenti, a sovvertire la nostra architettura. E questo ci riuscirà soltanto eliminando la chiusura degli spazi in cui viviamo. Ma ciò sarà possibile soltanto con l’introduzione dell’architettura di vetro, che permette alla luce del sole, al chiarore della luna e delle stelle di penetrare nelle stanze non solo da un paio di finestre, ma direttamente dalle pareti, possibilmente numerose, completamente di vetro, anzi di vetro colorato. Il nuovo ambiente che in tal modo ci creeremo dovrà portarci una nuova civiltà”.
Paul Scheerbart, Architettura di vetro, 1914