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L’itinerario si propone di ripercorrere le tappe più significative del percorso professionale di Carlo De Carli a Milano. Carlo De Carli (1910-1999) si laurea in architettura nel 1934 ed è attivo professionalmente dai primi anni quaranta alla prima metà degli anni settanta. Egli è stato architetto e designer, docente e preside alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, promotore del rinnovamento della produzione mobiliera in Italia, membro della Giunta Tecnica Esecutiva della X e della XI Triennale e direttore delle riviste “il Mobile Italiano” e “Interni”. Tra le sue opere milanesi più significative si ricordano la casa per abitazioni e uffici in via dei Giardini (1947-1949), la chiesa di Sant’Ildefonso (1954-1956) e il complesso per l’Opera Don Calabria nel quartiere di Cimiano (1952-1965).
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De Carli è infatti un architetto “globale”, come tutti coloro che vanno oltre l’ambito della propria attività professionale e quello stesso dell’insegnamento universitario con le relative elaborazioni teoriche, metodologiche, storico-critiche, progettuali, per promuovere l’architettura fin nei suoi stessi processi costruttivi e fruitivi. Nel suo caso ciò è avvenuto soprattutto tramite l’attivazione di circuiti culturali fra professione, scuola, mondo della produzione, utenti: dalle Triennali, con cui collabora dal 1940 fino al 1973, alla pubblicistica (tra il 1957 e il 1960 dirige “il mobile italiano”, mentre tra 1967 e il 1971 è direttore di “Interni”), alle molteplici iniziative per il rinnovamento dei centri di produzione mobiliera. Docente di Architettura degli Interni, Arredamento e Decorazione e direttore del relativo Istituto, dal 1965 al 1968 è preside della Facoltà di Architettura, dove ha insegnato fino al 1986. L’intera attività di De Carli si dipana attraverso una serie di principi teorici ricorrenti, quali: la continuità fra architettura e natura, le unità di architettura, lo spazio primario.
Continuità fra architettura e natura
Fin dai suoi primi scritti, il pensiero progettuale di Carlo De Carli tende a relazionare le opere di architettura e di design a un unico disegno creativo del cosmo. Le forme artificiali della velocità e le forme degli animali veloci, con le fibre in tensione e un lievissimo contatto con la terra, danno suggestioni profonde ai suoi mobili, come nel caso delle sedie mod. 683 (premio Compasso d’Oro) e 693, prodotte da Cassina nel ‘54 e nel ‘59. Le architetture rifiutano il sistema volumetrico razionalista “a cassetti” tirati avanti e indietro su una matrice ortogonale, e articolano gli spazi in aderenza al terreno attraverso slittamenti e piani inclinati che permettono di realizzare, non solo funzionalmente, ma anche visivamente, uno sviluppo continuo dello spazio – “la casa non è un oggetto posato sul terreno, ma di ogni cosa intorno è la continuazione” (1944). Tale idea è la matrice di due edifici costruiti intorno al 1950: la Casa Galli a Cirimido (Como) e la Foresteria delle miniere di Monteponi (Cagliari). L’idea della continuità di forme pure ed essenziali, per cui ogni elemento ben definito è di per se stesso vivente, ritmato, necessario strutturalmente e in armonia con gli altri, riguarda non solo il rapporto con la natura (il grande platano accolto dalla sagoma poligonale della Casa in via dei Giardini 16, 1953; i “solchi nella terra” del progetto di ampliamento del Cimitero di Chiari, 1973), ma anche quello con le forme di altre epoche, cioè con la storia, senza nessun bisogno di revival storicisti.
Le unità di architettura
Il nucleo vitale che genera lo spazio abitabile si traduce naturalmente nella “unità singolare” di architettura, pensata “come l’albero della foresta fisica” completo e disponibile per essere vicino ad altri. Dalle case con piccoli giardini del Villaggio turistico “La Caletta di Siniscola” (Nuoro, 1951), alla sequenza di stanze a più letti, alternate a loggiati aperti, che si innestano diagonalmente sul percorso in quota del Ricovero per anziani di Negrar (Verona, 1955-62), ai tre corpi aerei delle Scuole professionali dell’Opera Don Calabria a Cimiano (Milano), separati da snodi spaziali interni-esterni, o alle stanze singole, raccordate da un loggiato comune, della prima Casa per anziani presso lo stesso complesso (1952-66), fino alle cellule abitative del progetto, non realizzato, di residenza per anziani a Soresina (Cremona, 1964-75), l’architettura dell’intero edificio o dell’insediamento si compone di parti minori, finite in se stesse ma in reciproca relazione. Quest’idea di “unità”, relazionabile ad altre, è trasferita da De Carli dallo spazio abitato ai suoi stessi elementi costruttivi, dal pilastro in c.a., inciso nell’angolo per relazionarsi all’intorno, presente in molte sue opere di architettura, al listello doppio in palissandro, fresato a V per animazione luministica, con cui è composta la serie di mobili prodotta per la Mostra di Firenze su “La casa abitata” (1965). Fra spazio abitabile ed elementi strutturali, l’idea di unità riguarda anche i mobili, nella loro interezza o nei moduli spaziali di diversa funzione e misura posti entro una struttura portante indipendente.
Lo spazio primario
Il pensiero teorico di Carlo De Carli ci riporta all’origine prima del fenomeno architettonico, là dove lo spazio è il “fare spazio”, cioè il dare forma a un luogo accogliente e armonioso per l’insediamento e lo svolgersi della vita umana, che in esso si proietta e riconosce. I suoi scritti, che hanno dimostrato l’infondatezza di ogni separazione fra esterno e interno, fra grande e piccolo, non propongono all’attenzione lo spazio o l’oggetto in quanto tali, ma il “processo di formazione” di spazi e oggetti, e della loro reciproca relazione, in cui molteplici fattori entrano in gioco, con interessi anche conflittuali, richiedendo una soluzione che insieme li risolva e trascenda. Alcune occasioni professionali fanno nascere in De Carli l’idea centrale del suo pensiero teorico e pedagogico, lo “spazio primario”, che è posto come principio genetico dell’intera architettura.
Ad esempio: il progetto, non realizzato, della Scuola professionale di Montevecchio (Sassari, 1951), con la sua “geometria di moto” di pareti liberamente sfaccettate attorno a fulcri spaziali di rapporto intersoggettivo, sia interni che esterni; il piccolo Teatro Sant’Erasmo (Milano, 1951-53), a scena centrale, ricavato coi suoi gradoni entro uno scantinato dal perimetro irregolare, con un soffitto a doppia inclinazione e sfaccettato che nasconde i proiettori e pensato in relazione al ruolo dell’attore, anzi: come “una proiezione del moto stesso che anima l’attore” che, con la forza esclusiva dei suoi movimenti e della sua trasfigurazione interiore, “riesce a trascinare lo spettatore nel gioco dell’azione con l’efficacia di una partecipazione diretta”; la Chiesa di Sant’Ildefonso (Milano, 1955-56), espressione di una comunità di fede solidale, aperta al trascendente e agli altri, con fulcro spaziale in un castello esagonale praticabile di pilastri e travi che diffonde la luce bianca del tiburio sull’altare e nell’intorno, per poi articolarsi in due navate laterali che abbracciano il sagrato esterno. Definito come “spazio delle prime tensioni interiori”, ma anche come “spazio del gesto” e come “spazio di relazione”, lo spazio primario nasce nel momento in cui l’io si apre agli altri e al mondo in un atto di incontro e di umana solidarietà: io e tu, io e voi, qui ed ora, in qualsiasi occasione: anche questa. Non è semplicemente l’atmosfera fisica in cui siamo tutti immersi e che respiriamo, ma una attribuzione o “donazione di senso” a questo incontro e, di conseguenza, al luogo in cui esso avviene o può avvenire. Lo spazio primario non ha, all’inizio, proprietà fisiche o figura o altra determinazione formale e sta tutto nell’attenzione alla “preziosità” della persona umana, in un rapporto stringente fra architettura ed etica, e fra architettura e politica, che supera la semplice utilità funzionale per interpretarne il senso e tradurlo in opera costruita, fino a “trascolorare” in rappresentazioni cariche di momenti esistenziali, “immagine fisica di rivelazioni spirituali”. Esso infatti “nasce intriso di vissuto di tutta l’esperienza vissuta”.
in «Stile», n. 32-34, pp. 37-48, agosto- ottobre 1943
in «Domus», n. 194, pp. 48-57, febbraio 1944
in «Domus», n. 226, pp. 49-51, 1948
in “Domus”, n. 227, pp. 8-10, 1948
in «Edilizia Moderna», n. 51, pp. 57-60, dicembre 1953
in «Domus» n. 276-277, pp. 27-29, dicembre 1952
in «Domus», n. 290, pp. 7-14, gennaio 1954
Hoepli, Milano 1982
Stampa grafiche CAM, Pandino 1990
La Rondine, Stampa grafiche CAM, Pandino 1993