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Le piazze sono “collettori” e “generatori” al tempo stesso, raccolgono dalle strade convergenti quella vitalità che sono in grado di restituire e diramare a loro volta. Per questo, nella città storica europea, la piazza rappresenta il nodo architettonico più significativo, grazie proprio all’energia delle attività umane che in esso si genera. L’accelerazione verso l’espansione urbana avvenuta dal secondo dopoguerra ha condotto alla costante diminuzione di questa intensità; privata della propria centralità urbana, la piazza ha visto sempre più ridotta la propria attività. Una definitiva riduzione del ruolo della piazza si è inoltre verificata, nel corso del Novecento, in quelle città o parti di città che si sono sviluppate secondo una politica che ha privilegiato il trasporto automobilistico. La ricerca verso uno sviluppo urbano per parti formalmente compiute, avvenuta negli anni Sessanta, ha portato gli architetti a ripensare la piazza come un luogo vitale per i nuovi quartieri. Il presente itinerario, alla luce di queste esperienze, mostra alcuni recenti casi in cui la contemporaneità ha riproposto il tema della piazza reinterpretandone il significato urbano e sociale e il suo ruolo rispetto alla morfologia della città esistente.
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Le piazze sono “collettori e generatori” al tempo stesso, raccolgono dalle strade convergenti quella vitalità che sono in grado di restituire e diramare a loro volta. Per questo, nella città storica europea, la piazza rappresenta il nodo architettonico più significativo della città, grazie proprio all’energia delle attività umane che in essa si genera.
L’accelerazione verso l’espansione urbana avvenuta dal secondo dopoguerra ha condotto alla costante diminuzione di questa intensità; privata della propria centralità urbana, la piazza ha visto sempre più ridotta, da questo momento storico in poi, la propria attività a quella di luogo pubblico di riferimento limitato a specifiche zone della città. Inoltre, la quasi totale attenzione convogliata dagli architetti del dopoguerra sull’oggetto architettonico, ha spesso determinato, nella fase di ricostruzione immediatamente successiva al secondo conflitto mondiale, uno “scollamento” nella relazione tra spazi pieni costruiti e vuoti: la stessa torre Velasca (1950-58) del gruppo milanese BBPR risulta essere infatti “indifferente” alla “piazzetta” che ha determinato. La ricerca verso uno sviluppo urbano per parti formalmente compiute, avvenuta negli anni sessanta, ha portato invece gli architetti a ripensare la piazza come a un luogo vitale per i nuovi quartieri: nel progetto di Carlo Aymonino per il complesso Monte Amiata (1967-72) al Gallaratese di Milano, le due piazze per esempio non si addicono alla sosta ma «i due invasi triangolari rinviano l’uno alla ricerca dell’altro […]»(1). I percorsi interni, composti da porticati, gallerie, terrazze e ballatoi, tracciano una “ramificazione stradale” articolata che rende il quartiere progettato da Aymonino, un frammento urbano dalle caratteristiche metropolitane.
Una definitiva riduzione del ruolo della piazza si è inoltre verificata, nel corso del Novecento, in quelle città o parti di città che si sono sviluppate secondo una “politica” che ha privilegiato il trasporto automobilistico. In questi contesti le strade sono diventate, con il passare del tempo, i nuovi veri ambiti in cui l’uso quotidiano dello spazio pubblico si è trasferito: luoghi dinamici complessi in grado di raccogliere l’energia di buona parte di quelle attività umane che concorrono, oggi, a definire qualità e peculiarità della città stessa. Nelle città che hanno subìto questo processo difficilmente ci si incontra nelle piazze proprio perché gli spazi dell’autorappresentazione civica risultano essere più legati a situazioni di movimento, di passaggio oppure di transito, azioni comunque finalizzate al compimento di attività di carattere commerciale.
Nelle città contemporanee, la piazza rappresenta allora qualcosa che non vuole forse più essere rappresentato? Hanno ancora senso le piazze, e per chi? Ė proprio con quest’ultimo quesito che Giancarlo De Carlo ha intitolato un breve saggio pubblicato nella metà degli anni novanta nel volume Nelle città del mondo. Per De Carlo «è certo che le piazze continuano ad avere senso nelle città dove […] lo sviluppo non è stato distruttivo al punto da sconvolgere gli equilibri tra tessuti edificati e spazi aperti, da specializzare le attività umane dissipando l’energia che acquistano dall’essere molteplici e dal mescolarsi»(2). Di conseguenza, la piazza, risulta non avere più valore per De Carlo proprio in quelle città alterate dalla presenza impulsiva delle stesse automobili. Se Siena viene citata dall’autore come esempio emblematico di città appartenente alla prima categoria, è chiaro che Milano, pur non essendo mai esplicitamente nominata abbia tutti i requisiti per rientrare nel novero di quegli spazi fisici “condannati” a una congestione costante e diffusa. Questa presenza quanto più è diventata massiccia tanto più ha distrutto le corrispondenze tra spazi edificati e spazi aperti, facendo assumere, per esempio a molte delle piazze milanesi definite dall’incontro di più percorsi viari - le piazze Duca d’Aosta, Cadorna, Repubblica, Loreto, Susa, Piola, Baracca, Maciachini, Firenze, Lotto e Lodi -, le caratteristiche di “piazzale” e quindi di snodo stradale.
[1] Vittorio De Feo, Piazza, piazza bella…, in Carlo Aymonino, Piazze d’Italia, Electa, Milano 1995, p. 7
[2] Giancarlo De Carlo, Nelle città del mondo, Marsilio, Venezia 1995, p.
[3] Carlo Aymonino, Le mie piazze, in C. Aymonino, Piazze d’Italia, op. cit. p. 20.
[4] Paolo Portoghesi, Architettura e spazio del sacro nella modernità: una recente mostra alla Biennale di Venezia, in Lo spazio della celebrazione religiosa e le arti, atti del Seminario, Museo della Basilica di sant'Ambrogio, Milano, giovedì 18 febbraio 1993, Sinai, Milano 1995, p. 24.
Già alla fine degli anni settanta vengono però inviati i primi segnali - a livello internazionale la piazza d’Italia a New Orleans (1977-79) di Charles Moore è l’esempio più rappresentativo - per un ritorno della piazza come questione fondamentale di progettazione sia architettonica che urbana. La presenza in molte città italiane di luoghi urbani non risolti - collocati spesso nei centri storici - insieme alla necessità del recupero dello spazio pubblico e di spazi collettivi d’incontro, anche collocati all’interno di nuove realtà architettoniche e urbane, hanno elevato nuovamente la piazza a essere uno dei temi più interessanti nell’ambito delle discipline architettoniche; restituendo in questo modo alla piazza stessa il proprio valore originario di «luogo di relazione tra la struttura urbana e la soluzione architettonica»(3). Un orientamento questo sostenuto, nei primi anni novanta, anche da Paolo Portoghesi: «Sono anni che sto predicando che vengano costruite delle piazze, perché la piazza è un tentativo di riproporre un ordine gerarchico all’interno della città e quindi collocare una serie di funzioni collettive tutte insieme, in modo tale da creare una specie di fortezza della socialità, dello scambio collettivo»(4).
A Milano infatti, dalla metà degli anni ottanta e per tutti gli anni novanta, molti interventi realizzati nel centro città - piazza Croce Rossa (1986-88) di Aldo Rossi, piazza San Nazaro in Brolo (1989-92) di Umberto Riva, piazza San Babila (1996-97) di Luigi Caccia Dominioni, piazza Cadorna (1997-2000) di Gae Aulenti e la sistemazione dell’area di San Lorenzo (1986-1999) di Emilio Battisti e Silvano Tintori - sono stati finalizzati alla riqualificazione di spazi irrisolti nel centro storico. Per una parte di questi progetti, dove cioè la piazza come vuoto già preesisteva, sono stati utilizzati mezzi relativamente ridotti non alterando in questo modo la struttura urbana; altri fanno invece parte di una serie di incarichi per la riqualificazione di aree coinvolte nello sviluppo infrastrutturale della città (ampliamento di linee ferroviarie e metropolitane).
Diverso sono le condizioni per le zone periferiche della città: qui il rapporto stabilito tra i percorsi pedonali e quelli stradali definisce la piazza non come luogo di rappresentanza ma come spazio ordinatore del luogo stesso. I progetti ad Affori di Paolo Favole e quello di Cino Zucchi al quartiere Gratosoglio si pongono infatti come obiettivo quello di collegare i diversi spazi aperti per conferire loro una soluzione compositiva unitaria.
Negli ultimi anni il Comune di Milano ha provveduto a bandire diversi concorsi per la riqualificazione di alcuni spazi urbani degradati. “Cinque piazze per Milano” ha riguardato cinque aree distinte, in quartieri periferici della città, per ognuna delle quali è stato proclamato un vincitore nel novembre 1999: Paolo Favole per piazza S. Giustina, Angelo Bugatti per piazza Tirana, Francesca Marchetti per piazza Anita Garibaldi, Vincenzo Corvino per piazza Gabrio Rosa ed Emilio Battisti per piazza Costantino. I progetti sono stati realizzati e l’esperienza è stata ripetuta con il concorso “Piazze 2001” che ha premiato Giovanni Multari per piazza Ohm, Vincenza Lima per piazza Gambara, Riccardo dell’Osso per piazza Roserio. Nel 2004 lo studio francese Bodin et Associés Architectes ha vinto il concorso per la Darsena, attualmente in fase di costruzione. In precedenza altri concorsi per aree prestigiose della città sono stati occasione di dibattito all’interno del mondo dell’architettura. In particolare il progetto vincitore del concorso indetto per piazza Duomo nel 1988, redatto da Ignazio e Jacopo Gardella, non ha avuto seguito. Il progetto di Gino Pollini, Giulio Marini e Giacomo Polin, vincitore per l’area di piazza Fontana nello stesso anno, è ancora in corso di approvazione.
Un discorso a parte meriterebbero i progetti per i parchi pubblici, poiché anche a Milano si riscontra un rinnovato interesse nei confronti di questo tema. In questa sede ricorderemo il concorso per il Parco Forlanini (vincitore Gonçalo Byrne, 2001) e quello per i Giardini di Porta Nuova (vincitore gruppo Inside/Outside con Boom, Maltzan, Oudolf, Zardini). Lo studio Land, inoltre, ha realizzato la sistemazione del parco nell’area Innocenti-Maserati, nel quartiere Rubattino, mentre Charles Jencks ha progettato il parco nell’area Portello nel complesso del piano urbanistico redatto da Gino Valle.
MARIO VIGANÒ - GIZMO