Dal 05.11.2009 al 05.12.2009
Breve resoconto dell'incontro con Renzo Piano del 5 Novembre al Corriere della Sera, in occasione del numero monografico di Abitare a lui dedicato
Sala gremita. Religioso silenzio. Immagini che si susseguono sullo schermo di fondo. La redazione di Abitare racconta la genesi di Being Renzo Piano, questo “diario inedito” nato da una sorta di “pedinamento itinerante” di 6 mesi tra cantieri greci e americani e gli studi di Parigi, Londra e Genova.
La parola a Renzo Piano.
Si, Abitare mi ha messo letteralmente a nudo (mi hanno fotografato pure senza scarpe!). Le due abili giornaliste Anna Foppiano e Giovanna Silva, sapientemente dirette da Mario Piazza e Stefano Boeri hanno assistito alla mia vita quotidiana e hanno saputo comporre un puzzle in cui, devo dire, mi riconosco.
Emerge tra le pagine questo concetto di architettura “arte corsara”, che si nutre di furti continui. Io osservo tutto e misuro tutto. Ho sempre un metro in tasca e prendo appunti in modo maniacale. In fondo molte altre arti sono corsare: la musica, la letteratura… Ricordo Italo Calvino in cantiere al Beaubourg con il suo taccuino pieno di piccole note.
Oltre a “rubare” ascolto. Ascolto i luoghi, che parlano moltissimo ma a bassa voce. Ascoltare significa capire. Nessun progetto nasce senza che io abbia passato sul luogo ore e ore a zonzo con le mani in tasca, per ascoltare quello che la natura ha da dire. Ascolto la gente. Architettura è l’arte di fare e soddisfare sogni e bisogni della gente. Quando il loro rapporto è equilibrato, vuol dire che il progetto funziona.
Questo mestiere è totalizzante. Per me anche un piatto d’insalata può essere architettura. Quando ho un progetto in testa compongo una sorta di ologramma tridimensionale fatto di appunti, ricordi, musica, che piano piano diventano architettura. Mai fare disegni o modelli troppo belli. Odio le simulazioni al computer. I giovani devono smetterla di giocare col computer a inventare forme nuove. Devono imparare a come far respirare forme vecchie su una terra divenuta così fragile.
Un altro aspetto per me molto importante è la bottega: la parte invisibile dell’iceberg, un museo degli orrori pieno di progetti che non funzionano (quelli che funzionano stanno fuori dalla bottega e diventano architetture). Fare l’architetto significa mischiare arte, scienza e sociologia. Alle ore 9 sei poeta, alle 10 costruttore, alle 12 psicologo. Occorre osservare la pietra, sentire il vento, individuare il corso dell’acqua. L’architetto è un mestiere che si impara dalla tenera età. Si comincia da molto piccoli a “voler cambiare il mondo inseguendo il bello”.
Io passavo le giornate in cantiere con mio padre. Sono nato prima della guerra, “nato nella paura e pronto all’avventura”. Chi ha vissuto la guerra acquisisce un ottimismo straordinario e un fortissimo attaccamento alla vita. Sono nato Genova, città d’acqua e di transito, città anche di pietra, con un centro storico importante. Ho fatto il biennio a Firenze. Città perfetta. Una noia mortale. Sono passato a Milano. Città imperfetta con un fermento straordinario. Di giorno lavoravo da Albini. Di notte occupavo l’università.
Poi gli anni della contestazione. A Londra con Rogers sembravamo due Bealtes, dei ragazzacci. Forse per questo abbiamo vinto il concorso del Beaubourg tra 681 partecipanti. Il progetto era talmente innovativo che per i primi dieci anni, a Parigi non mi presentavo mai come il progettista del Centre Pompidu. Nemmeno al taxista. In quegli anni bisognava cambiare il concetto del museo e noi abbiamo colto questa occasione. Un’avventura un pò folle.
Sono stato fortunato. Ho lavorato a moltissimi musei e spazi pubblici. Luoghi in cui la gente ha la possibilità di sentirsi in una piazza protetta, un luogo che dà un senso alla città. Uno tra tutti, il centro Culturale a Noumea in Nuova Caledonia, dedicato alle performing arts degli aborigeni. Ho ascoltato il soffio degli alisei e ho concepito delle strutture in legno di iroko che si integrassero in quello scenario meraviglioso e giocassero anche loro con le correnti d’aria.
Anche a New York ho ascoltato la natura e il contesto. Per la sede del NY Times, subito dopo il crollo delle torri gemelle in America si concepivano solo bunker sotterranei. Ma NY è una città metamorfica e atmosferica, che cattura la luce e la proietta sui grattacieli. Sono riuscito a convincere il committente che la sua sede doveva riflettere i mutevoli cieli della città ed essere trasparente, come la stampa, con i giornalisti sempre in strada. Ecco nascere un edificio trasparente anche al suo interno, dove dalla 41esima strada riesco a vedere la 42esima attraversando la redazione. Con l’antenna in cima al tetto, poi, ci siamo fermati un piede sotto l’Empire State Building. Era il momento giusto per accettare di essere secondi.
Concludo parlando di sostenibilità. Odio questa parola e detesto il fatto che oggi dobbiamo essere tutti verdi. Amo la leggerezza e il suo linguaggio. Sono genovese. Amo fare con poco (sono nato nella filosofia del “non si butta via niente”). A San Francisco, per il museo della scienza ubicato nel Golden Gate Park abbiamo fatto piantare tre milioni di piante sul tetto, per abbassare i consumi dell’edificio ed integrarlo con il contesto. Anche a Oslo e a Trento sono riuscito a progettare edifici con bassissimo impatto, che consumano un quinto di un edificio tradizionale. Uso mille metri cubi di legno e pianto mille alberi. Anche a Milano bisogna piantare alberi e bisogna fare in fretta, come dice l’amico Abbado. Una città verde funziona meglio. Sono felice che il progetto Expo si stia delineando con meno volumi e più alberi. Se c’è da piantar alberi, io sono pronto. Completiamo questa cintura verde e smettiamola di far parcheggi. Più ne facciamo, più aumentiamo il traffico.
A questo link Abitare 497 "Being Renzo Piano" trovate la ripresa video dell'evento.
Nell'allegato il resoconto della conferenza sul Corriere della Sera del 6-11-2009