Dal 13.08.2009 al 13.09.2009
Segnaliamo il dibattito aperto su "Fare l'architetto in Italia" presente sul sito del Sole 24 Ore
Lui, Vittorio Gregotti, 82 anni. Lei, Ludovica Di Falco, 34 non ancora
compiuti. Tra questi due estremi, 135mila architetti (erano 50mila
negli anni 80) e almeno quattro generazioni in guerra continua fra
loro. Perché l'architettura in Italia, negli ultimi 30 anni, non ha
tramandato valori, visioni e saperi dai padri ai figli. Ma ha vissuto
fratture, competizioni esasperate, la difficoltà dei più giovani ad
affacciarsi a una ribalta dominata a lungo dall'asse
politica-professione-università-riviste. Se i 60-70enni Renzo Piano e
Massimiliano Fuksas hanno dovuto vincere in Francia per tornare profeti
in patria, il 50enne Mario Cucinella entra ora in rotta di collisione
con il sistema dei concorsi in Italia dopo aver avuto riconoscimenti
internazionali prestigiosi e i 40enni come 5+1, Labics o Metrogramma
hanno scoperto dopo i primi successi che la strada per gareggiare alla
pari con i vecchi è ancora lunga.
Gregotti, pensiero dominante dell'architettura «impegno civile»
degli anni 70 e 80, è stato a lungo all'interno di quell'ingranaggio
del comando. Ora lavora molto in Cina, lamenta «la licealizzazione di
un'università che ha dimenticato il sapere tecnico» e dice che «a
Milano, dietro la deregulation che ha ridotto la visione della città a
bolli e autorizzazioni, se non sei contiguo a Comunione e liberazione
non progetti». Bolla come «acriticamente asservito al capitalismo
internazionale» il «caro amico» Rem Koolhaas, l'architetto olandese che
come nessun altro ha saputo estrarre business dall'intreccio fra
architettura e marketing di altissimo livello.
Di Falco, socia dello
studio romano "-scape", considera Koolhaas «un genio» e non rigetta il
marketing «se serve a promuovere un progetto di valore e a inserirlo in
un contesto che è sempre più complesso». Nel mercato Ludovica ci è
tanto immersa da aver costituito nel 2004 con i suoi tre partner,
coetanei, nientemeno che una società per azioni. «Abbiamo dovuto
classificarla come società di ingegneria - dice - perché agli studi di
architetti non è ancora permesso di costituirsi in spa».
I giovani di "-scape" (Paolo Mezzalama, Francesco Marinelli e Alessandro Cambi oltre a Ludovica) maneggiano con abilità lo strumento della spa che da decenni è considerata dagli Ordini professionali alla stregua del diavolo. «Noi quattro soci architetti – racconta Ludovica – abbiamo insieme la maggioranza del capitale come in una sorta di patto di sindacato, mentre il nostro quinto socio, esterno allo studio, è un manager che ha creduto in noi e ci ha finanziato. In prospettiva pensiamo all'ingresso di un nuovo socio, qualcuno sul modello di Richard Burdett, un economista, sociologo e urbanista, che ci aiuti a capire il mercato e le tendenze d'evoluzione della città».
Il rodaggio è però lungo. «Il fatturato – aggiunge Di Falco – è in
crescita dal 2004 non tanto grazie ai concorsi di architettura, che
restano il nostro obiettivo professionale, quanto ai lavori e alle
consulenze nel mercato privato e a qualche lottizzazione urbanistica».
La crisi per ora non spaventa: la progettazione di qualità riguarda
ancora una piccola percentuale del costruito in Italia e i margini di
recupero sono enormi nel pubblico e nel privato.
Ad ascoltare Gregotti e Di Falco appare chiaro come proprio l'ingresso del capitale e della competizione sia la discontinuità più forte di questi trent'anni nel fare professione. La città privata ha sostituito quella pubblica, si potrebbe dire citando le parole di Koolhaas. Il rapporto con il mercato ha via via preso il posto della politica nella determinazione delle scelte sulle trasformazioni urbane. Si può parlare di disegno tecnico e cartongesso, di tariffe e leggi sulla professione, di tecnologie, concorsi di architettura che non funzionano, precarietà del lavoro. Ma senza affrontare il rapporto con il mercato e la politica non si comprende il mestiere di architetto, allora e oggi.
«Siamo partiti negli anni 50 e 60 – dice Gregotti – da una dimensione artigianale per attraversare, negli anni 80, una trasformazione epocale: il numero di architetti in Italia è esploso e da allora è stato costantemente quattro volte superiore al resto d'Europa. Soprattutto sono entrate in scena le real estate che interrompono il rapporto diretto fra architetto e committente, frapponendovi elementi che con la pratica architettonica e artistica non hanno nulla a che fare, come il marketing, il controllo dei costi, i servizi finanziari. Il mercato che ne è scaturito a me pare una concorrenza orientata al successo mediatico». Solo negli ultimi sei anni, il numero degli architetti è cresciuto da 103.989 del 2003 ai 136.186 del 2008. Il 19% ha meno di 35 anni, il 37% fra 36 e 45, il 38% tra 46 e 65 anni, il 6% oltre i 65 anni. Il 40% sono donne. «Questa esplosione - dice Gregotti - ha portato fin dagli anni 80 a una perdita di riconoscibilità dell'architetto moderno». Fa mille cose. Il suo ruolo mediatico lo ha messo al centro del processo di produzione edilizia....