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La Milano di Vetro

tecniche

A cura di Marco Borsotti Claudio Camponogara

Nell’architettura contemporanea il vetro è indubbiamente uno dei materiali privilegiati dai grandi studi di progettisti, soprattutto per questioni legate alla possibilità di amplificare la presenza della luce negli interni, per la ricerca di un rapporto più diretto e fluido tra interno ed esterno ed ancora per l’applicazione di tecnologie di climatizzazione ambientale. L’uso del vetro in architettura richiede la medesima maestria di certi artigiani veneziani: è un sottile gioco di superfici e volumi. È dosaggio di contrapposizioni, dove il pieno, l’opaco, il solido sorreggono ed esaltano il vuoto, il trasparente, l’evanescente. Questo breve itinerario vuole suggerire uno sguardo diversamente attento su alcuni edifici che, nella Milano moderna e contemporanea – una città certamente non di vetro, se paragonata a Berlino o Londra o New York – sanno esprimere un’attenzione spesso discreta eppure raffinatissima alle potenzialità e all’uso di questo nobile materiale da costruzione, che fa della sua apparente assenza il paradossale punto di forza e che inevitabilmente corrode, buca, asporta la massa piena affinché luce ed aria compiano il loro incontro con l’architettura.

(Materiale protetto da copyright, vietata la riproduzione)

La superficie della terra cambierebbe moltissimo se l’architettura in mattoni venisse eliminata e ovunque sorgesse al suo posto l’architettura di vetro. Sarebbe come se la  terra si ricoprisse di gioie preziose in smalto e brillanti.  La magnificenza di un simile spettacolo è addirittura  inimmaginabile. E ovunque avremmo sulla terra splendori e delizie  più grandi di quelle che si trovano nei giardini delle Mille e una  notte. Avremmo un paradiso sulla terra e non sentiremmo più il  bisogno di guardare con nostalgia al paradiso nel cielo”.   

 

Paul Scheerbart, Architettura di vetro, 1914

 

 

Sono passati molti anni da quando Paul Scheerbart pubblicò il  volume “L’architettura di vetro” e Bruno Taut realizzò al Werkbund  di Colonia il Padiglione del Vetro, una struttura che intendeva dare  vita ad un’architettura di cristallo, immateriale e trascendente.   Dovremo aspettare la metà degli anni Venti per vedere, grazie  alla nuova cultura industriale, Mies van der Rohe ipotizzare  la possibilità di realizzare progetti per grattacieli di vetro, che  avrebbero permesso agli uomini di vivere in edifici trasparenti.  In Italia queste intuizioni progettuali trovarono la possibilità di  realizzarsi attorno agli anni Cinquanta, quando all’interno delle  principali realtà urbane prende piede la facciata di vetro, simbolo  della Ricostruzione.   Ancora una volta è l’industria a soccorrere l’architettura, grazie  alla raggiunta capacità di produrre grandi lastre; proprio grazie  agli sviluppi tecnologici, la facciata di vetro diviene sempre più  omogenea, anche per l’assottigliarsi dei giunti orizzontali e verticali.  L’architettura conquista il senso della leggerezza.

 

Claudio Camponogara

 

 

 

Lo sapeva, Hector Horeau. Lo sapeva benissimo che faccia aveva.  Quel pomeriggio, giù alla vetreria e tutte le altre volte. Ogni tanto  penso che tutta questa storia del vetro…, del Crystal Palace e di  tutti quei miei progetti… vede, ogni tanto penso che solo un uomo  spaventato come me poteva farsi venire una mania del genere.  Sotto sotto non c’è altro… paura, solo paura… Lo capisce?, è la  magia del vetro… proteggere senza imprigionare… stare in un  posto e poter veder ovunque, avere un tetto e vedere il cielo…  sentirsi dentro e sentirsi fuori, contemporaneamente… un’astuzia,  nient’altro che un’astuzia… se lei vuole una cosa e però ne ha  paura non ha che da mettere un vetro in mezzo… tra lei e quella  cosa… potrà andarle vicinissimo eppure rimarrà al sicuro… Non  c’è altro… io metto pezzi di mondo sotto vetro perché quello è un  modo di salvarsi… si rifugiano i desideri, li dentro… al riparo dalla  paura… una tana meravigliosa e trasparente… Lo capisce, lei, tutto  questo?” 

 

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, 1996   

 

 

Nell’architettura contemporanea il vetro è indubbiamente uno  dei materiali privilegiati dai grandi studi di progettisti, soprattutto  per questioni legate alla possibilità di amplificare la presenza della  luce negli interni, per la ricerca di un rapporto più diretto e fluido  tra interno ed esterno ed ancora per l’applicazione di tecnologie di  climatizzazione ambientale. In realtà si deve anche prendere atto  che molta della fortuna di questo materiale sembra legata ad una  sensualità dalla facile presa su chi privilegia la moda al pensiero  progettuale, così i molti imitatori delle grandi firme, trovano  nell’abuso o nell’uso insensibile del vetro l’illusorio imprimatur del  lusso e dell’attualità. Nascono così edifici illogicamente dotati di  grandi superfici vetrate senza alcuna relazione con il programma  progettuale complessivo e colpevolmente assenti di consapevolezza  tecnologica. Luoghi invivibili dove la manutenzione complessa e  l’inevitabile termocondizionamento sovradimensionato diventano  immediatamente errori ed “orrori”, come certe insignificanti torri  che riflettono il nulla urbano all’ingresso cittadino di molte arterie  autostradali milanesi. L’uso del vetro in architettura richiede la  medesima maestria di certi artigiani veneziani: è un sottile gioco  di superfici e volumi. È dosaggio di contrapposizioni, dove il pieno,  l’opaco, il solido sorreggono ed esaltano il vuoto, il trasparente,  l’evanescente. È scelta di superfici continue che producono riflessi  e profondità, prospettive e giochi di immagini ripetute. Ancora  è ricerca di un rapporto diverso con l’affacciarsi, con il guardare  dentro oppure fuori; ma è anche colore, incrocio di luci, domino  della tecnologia. Occorrono intuizioni chiare e intenti coerenti,  per dominare tecnologie complesse che la produzione industriale  offre in gamme sempre più ampie (vetri a spessore differenziato, ad  abbattimento termico, fotocromatici, oppure lisci, scabri, sabbiati,  acidati, lenticolari, oppure stratificati, blindati, a camera d’aria,  etc.), che si sposano con materiali sempre più sofisticati nelle  prestazioni e nelle conformazioni (basti pensare alle componenti  metalliche delle strutture autoportanti). Questo breve itinerario  vuole suggerire uno sguardo diversamente attento su alcuni edifici  che nella Milano moderna e contemporanea, una città certamente  non di vetro, se paragonata a Berlino o Londra o New York, sanno  esprimere un’attenzione spesso discreta eppure raffinatissima alle  potenzialità ed all’uso di questo nobile materiale da costruzione,  che fa della sua apparente assenza il paradossale punto di forza  che inevitabilmente corrode, buca, asporta la massa piena affinché  luce ed aria compiano il loro incontro con l’architettura. Due grattacieli, due linee svettanti al cielo, dal disegno emozionante  nella sua pulizia, la Torre Galfa ed il più noto Pirelli, rappresentano  il punto di partenza ideale: il secondo ancora ancorato al pieno,  diamante dai fianchi sottili, ma solidi che si aprono ad una studiata  successione di moduli che sono una incredibile facciata vetrata, oggi  restituita a miglior gloria dal recente restauro ed il primo che cerca  di più la smaterializzatone delle superfici (architettura verticale che  molto avrebbe da insegnare a certi futuri “cuginetti” tutti storture e  stampelle).

Ancora il maestro: un Ponti che al Palazzo Montedoria  fa della sequenza apparentemente libera di forature, il ricamo del  vuoto sulle facciate diamantine di un troppo spesso poco apprezzato  edificio per uffici, dove gli spessori dei telai dei serramenti corrono  magicamente a filo della facciata stessa. Poi la Milano dell’oggi, che  nel grigiore del suo inquinamento irrisolto osa ancora offrire grandi  superfici alle poveri sottili, come avviene per la Sede del Sole 24  Ore che sembra una architettura di carte da gioco con quella sua  successione di piani e superfici ortogonali, appoggiate tra loro si  spigoli così sottili (ma sono carte “di vetro”) o che della trasparenza  fanno panneggi appoggiati su perfici pre-esitenti (gioco di rimandi  tra le diverse epoche, come stratificazioni archeologiche al vero)  The Carlyle Group o ancora volumi interi accostati alla storia in un  proficuo rapporto di contrasti Mediateca di S. Teresa. Una Milano  che ricerca emozioni percettive differenti e soluzioni ecologiche  alternative in via Bergognone o che si colora inaspettatamente e  maliziosamente in via Piranesi, a ricordare che anche i riflessi del  quotidiano possono nascondere la voglia di incontrarsi e di stare  assieme.

 

Marco Borsotti

 

 

 “Noi viviamo perlopiù in spazi chiusi. Essi costituiscono l’ambiente  da cui si sviluppa la nostra civiltà. La nostra civiltà è in certa  misura un prodotto della nostra architettura.   Se vogliamo elevare il livello della nostra civiltà saremo quindi costretti, volenti o nolenti, a sovvertire la nostra  architettura. E questo ci riuscirà soltanto eliminando la chiusura  degli spazi in cui viviamo. Ma ciò sarà possibile soltanto con  l’introduzione dell’architettura di vetro, che permette alla luce del  sole, al chiarore della luna e delle stelle di penetrare nelle stanze non solo da un paio di finestre, ma direttamente dalle pareti,  possibilmente numerose, completamente di vetro, anzi di vetro  colorato. Il nuovo ambiente che in tal modo ci creeremo dovrà portarci una nuova civiltà”. 

 

Paul Scheerbart, Architettura di vetro, 1914