From 01.03.2020 to 16.03.2020
Non vorrei commemorare ma ricordare momenti importanti per me vissuti con e grazie a Vittorio Gregotti.
Lo incontrai nel 1973 nello studio di via Circo per pubblicare su Casabella il dipartimento di Scienze dell’università di Palermo, progettato con Lugi Pollini. Mi chiamò allora a lavorare con lui al testo per la rivista Ottagono sulla storia del Design Italiano. Lo sentii pragmatico, concreto, capace di ascoltare, curioso, polemico e anche un poco visionario. Quando accettò l’incarico per la rinnovata Biennale di Venezia nel 1974, volle che all’arte fosse per la prima volta affiancata l’architettura. Credo che questo accoppiamento abbia aperto decisive connessioni culturali, tematiche e operative tra due mondi spesso tenuti separati e specialmente nelle facoltà di architettura, quello dell’arte contemporanea, ignorato. Lavorando io nella Casabella di Alessandro Mendini sperimentavo per la prima volta una simbiosi creativa e problematica tra i due mondi. Forse per questo Vittorio, anche se non benevolo verso quella Casabella, mi chiamò a lavorare con lui per la Biennale. Furono due anni entusiasmanti. Nel 1975 e ‘76 furono usati per la prima volta luoghi esterni ai tradizionali Giardini; i Magazzini del Sale, le fonderie alla Giudecca, chiese e musei come Cà Pesaro, il Museo Correr e Cà Corner iniziarono a far parte di una idea di Biennale diffusa che oggi ci sembra naturale. Ma l’apporto più interessante in questa visione di integrazione e confronto fu il coinvolgimento progettuale di architetti e artisti su temi comuni come il riuso del Mulino Stucky alla Giudecca, emblematico monumentale luogo di abbandono e di storia industriale. La profonda cultura di Vittorio lo portava naturalmente a considerare l’arte e gli artisti come intellettuali visionari e concreti al tempo stesso capaci di indurre analogie e riflessioni attuali e brucianti sulle crisi della modernità e sulle revisioni dei ruoli, dei fini e dei linguaggi. Che l’architettura non fosse estranea a tutto questo non era in discussione ,ma che dalla commistione e confronto programmatico di ipotesi di lavoro convenzionalmente lontane potesse nascere un modo diverso di concepire e fare mostre non era scontato. Il secondo aspetto innovativo di quella Biennale fu l’approccio tematico. Il tema dell’Ambiente come contesto ma anche come risorsa, fu l’asse portante di alcune mostre come Arte/Ambiente curata da Germano Celant e Europa/America da me curata insieme a Vittorio, che chiamava architetti americani ed europei a confrontarsi con la questione del contesto e dell’assenza di contesto. Il contrasto Urbe/Suburbio, Centro/Periferie, Città storica/Città senza città, sollecitarono progetti originali e presenze memorabili. Il convegno “Quale Movimento moderno” radunò per la prima e forse ultima volta i più importanti architetti del tempo a discutere sul senso del nostro mestiere. Fu una idea e un merito di Vittorio portarli tutti lì, non a mostrare le loro opere, ma a produrre progetti e pensieri ad hoc sul tema.
Non voglio spingermi a parlare di Vittorio architetto, solamente dico che tra il rigore geometrico e forse monotono di Bicocca e la schizofrenia linguistica di “City life”, preferisco di gran lunga il primo come modello urbano e civile.
Voglio infine ricordare la lucida visione di Gregotti saggista nel considerare l’architettura contemporanea come luogo simbolico dove ha prevalso il marketing urbano e la deriva immobiliar/finaziaria abbandonando la visione dell’architettura come strumento fisico precipuo di abitare sociale e autoconfinadosi in un superficiale ruolo decorativo e glamour per città tutte eguali fatte di accumuli edilizi insignificanti.
Grazie Vittorio.
Franco Raggi 17 marzo 2020