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Il professionismo colto nel dopoguerra

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A cura di Maria Vittoria Capitanucci Grazie al contributo di

Gli anni del dopoguerra sono stati cruciali per la costruzione della città di Milano: una generazione di professionisti, erede del rinnovamento architettonico operato dal Movimento Moderno e al tempo stesso incline ad una certa libertà espressiva, ricostruiva la città bombardata dando vita alle sue visioni urbane, terreni fertili per scambi interdisciplinari e sperimentazioni. L'aspetto culturale era alla base della formazione di questi architetti, in bilico tra interessi per le nuove concezioni strutturali e le suggestioni provenienti dall'ambiente artistico internazionale. Nomi illustri e figure rimaste – talvolta inspiegabilmente – più in ombra furono protagonisti di articoli apparsi sulle più insigni riviste italiane ed internazionali, nonché di importanti pubblicazioni. Quasi tutti raggruppati attorno all'associazione MSA (Movimento Studi per l'Architettura), frequentando la Triennale, le medesime gallerie d'arte e riunendosi negli stessi studi di architettura, personaggi già affermati come Albini, i BBPR, Gardella, Figini e Pollini intrecciavano i propri progetti con Asnago e Vender, i Latis, Gho’, i GPA Monti, Malchiodi, Mangiarotti e Morassutti, ridisegnando il futuro di Milano.

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Gli anni del dopoguerra hanno segnato un momento importante nel panorama architettonico italiano ed europeo in generale. Se è vero che le distruzioni belliche avevano mietuto vittime eccellenti sul piano dei monumenti storici e dei sistemi residenziali e produttivi, nelle maggiori capitali del vecchio continente è assolutamente realistico – anche se cinico – ammettere che iniziarono, all’indomani della resa, opere di ricostruzione e rinnovamento urbano impensabili fino a pochi anni prima.

In Italia, anche sulla scia delle grandi trasformazioni urbane volute dal regime fascista, molte operazioni erano in corso o furono riprese permettendo così il completamento di alcune previsioni forse non tutte condivisibili ma certamente innovative se lette in una prospettiva di modernizzazione delle reti viarie, dei flussi e degli interventi architettonici. La Lombardia e il suo capoluogo, dalla forte vocazione industriale, risposero con gesti di grande modernità attuati da un gruppo di professionisti colti, intellettuali vicini sia al mondo dell’ingegneria, di cui non disdegnavano ricerca strutturale e sperimentazione sui materiali, sia a quello dell’arte, che proprio in quegli anni, anche in Italia, produceva filoni avanguardisti di notevole portata. Le riviste, dal canto loro, in primis “Casabella”, con il suo carattere internazionale – sotto l’indimenticabile direzione di E. N. Rogers – e “Domus”, da subito attenta anche al design e all’interior – guidata, tranne un breve periodo, dal suo storico fondatore Ponti – ma anche “Stile”, “Edilizia Moderna”, “L’Architettura”, pullulano di progetti, guardando all’estero e documentando, al tempo stesso, lo stato dell’arte italiano. Sul piano prettamente architettonico sono gli anni in cui l’editoria più alta e specializzata mette in scena titoli come Antologia di edifici moderni in Milano, Italy Builds - L’Italia Costruisce, Architettura Italiana Oggi, Architettura italiana ultima, Nuove Architetture a Milano (1): volumi dedicati alla ripresa edilizia post-bellica e tutti pubblicati tra il 1954 e il 1959. Ricognizioni attraverso l’architettura recente, ordinate molto spesso per temi, tipologie o itinerari, realizzate da importanti voci della storiografia e della critica d’architettura ma anche da architetti votati alla scrittura che tentavano così una codificazione del nuovo corso dell’architettura italiana.

Tra i protagonisti di quelle pagine, con i loro progetti di qualità, ritroviamo gli ormai notissimi Ignazio Gardella, Luigi Caccia Dominioni, BBPR, Figini e Pollini, Vico Magistretti – la cui fama d’architetto in tempi recenti è stata ingiustamente offuscata da quella di designer – insieme a Mario Asnago e Claudio Vender – ormai entrati anch'essi nel firmamento dei grandi del dopoguerra – Vito e Gustavo Latis, Gian Carlo Malchiodi, Carlo Perogalli, GPA Monti, Gigi Gho’, figure, nel tempo e inspiegabilmente, relegate all’interesse di pochi studiosi ed estimatori. Voci di un dialogo serrato e di un confronto costante, quasi tutte coinvolte nel dibattito sulla ricostruzione attraverso le pagine delle maggiori riviste di architettura e nell’ambito del M.S.A. (Movimento Studi per l’Architettura), che propugnava una strategia di comune orientamento più ‘milanese’ e ‘post razionalista’ rispetto al più ‘romano’ contesto dell’A.P.A.O. (Associazione Per l’Architettura Organica), fondata da Bruno Zevi. Accadde che molti professionisti lombardi di quella generazione decidessero di reinterpretare gli aspetti tratti dall’uno e dall’altro movimento in una visione talmente libera da dogmi da far gridare, di lì a poco, allo scandalo del ‘neo-liberty’ da parte di critici della rilevanza di Reyner Banham (2). Questi giunse ad intessere con Rogers uno scontro sostanziale, anche sul piano degli effetti futuri, sull’approccio progettuale e linguistico delle nuove generazioni, espresso significativamente attraverso le pagine della rivista inglese “The Architectural Review” e dell’italiana “Casabella”. Ma quello che forse Banham non aveva voluto comprendere, quando al CIAM di Otterlo vennero presentati gli ‘scabrosi’ progetti dei BBPR, Magistretti, Gardella e De Carlo, era che in fondo l’Italia, troppo spesso giunta in leggero ritardo rispetto ai maggiori paesi europei, per una volta, forse proprio perché di nuovo indietro, era salva da ogni dogmatismo sul piano architettonico, attenta finalmente alle necessità pragmatiche e spinta da una volontà di cambiamento, di rottura con il recente passato, anche per motivi di carattere politico.

 “Un generico bisogno di rinnovamento, la necessità pratica di ricostruire il paese, l’indebolimento degli uomini che rappresentarono la retorica monumentale, il contributo delle nuove generazioni e soprattutto una generale evoluzione del gusto, furono determinanti per il rinnovamento moderno” (3): così Carlo Pagani lucidamente rileggeva in Architettura italiana oggi quella condizione post-bellica che superava i precedenti “dibattiti puramente estetici” che avevano inscenato “battaglie tra archi e colonne” per porsi di fronte al “diritto dell’uomo alla casa” (4). Il tema abitativo diviene campo di sperimentazione e confronto, anche a causa delle distruzioni belliche che tanta parte di popolazione avevano lasciato senza casa. In questo campo si sviluppano le maggiori ricerche: l’edilizia sovvenzionata e il piano INA casa, in particolare, furono occasioni uniche a cui quasi nessuno di questi progettisti si sottrarrà. E’ l’epoca dello sperimentale QT8 e di tutta una serie di quartieri 'corali' come l’Harar- Dessiè, il Ca’ Granda nord, il più tardo IACP Comasina e tanti altri. Certamente, però, anche la residenza borghese diviene spunto e sfida progettuale in linea con una modernità che deriva naturalmente, oltre che dalle più recenti espressioni compositive, architettoniche e artistiche, anche, e soprattutto, dalle nuove potenzialità strutturali e dalle disponibilità di materiali sempre diversi su cui fare ulteriori ricerche. In fondo si trattava di un tema già caro alla sperimentazione pre-bellica, assiduamente frequentato da Ponti, da Muzio e dai Novecentisti, ma anche dal giovane Belgiojoso – che in via Manin aveva dato prova dell'estro e dell'indipendenza di linguaggio che avrebbe poi caratterizzato il lavoro dei BBPR – e da Asnago e Vender – nell'edificio curvo di via Euripide – senza dimenticare l’eco e l’influenza che avevano avuto le cinque abitazioni razionaliste di Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni. Lo stesso Lingeri produrrà negli anni Cinquanta una serie di edifici residenziali di grande interesse con una forte sperimentazione tipologica come la casa di via Giulianova e la torre di via Melchiorre Gioia.

All’insegna delle concrete necessità post-belliche si ricerca anche una modernità del vivere con una grande attenzione ad una ‘umanizzazione dell’abitare’, al taglio degli alloggi, talvolta alla differenziazione dei livelli degli ambienti, alla presenza della luce e del verde come materie del costruire e non come elementi aggiuntivi. A tal proposito è significativa la ricerca sul tema delle 'ville sovrapposte', di cui Giuseppe de Finetti negli anni Venti e Adolf Loos prima di lui furono 'teorici' e anticipatori: non più dunque la sola 'villa sospesa' degli anni Trenta posta al piano attico – si pensi a casa Rustici di Terragni e Lingeri o alla torre Rasini di Ponti e Lancia – ma appartamenti differenziati per ciascun piano, grazie anche allo spostamento dei pilastri in facciata che, da un punto di vista compositivo, caratterizzano molta edilizia di questi anni. Da qui una flessibilità data anche dalla possibilità di una scelta a priori del taglio delle abitazioni, con una certa partecipazione dei futuri fruitori. In tal senso si pensi alla Torre al Parco di Magistretti, alla Casa ai Giardini d’Arcadia di Gardella, Castelli Ferrieri e Menghi, alla casa di via Quadronno di Mangiarotti e Morassutti, quest’ultima forse pronta ad inaugurare una nuova stagione, con la sua ‘flessibilità perimetrale’ data dalla pannellatura prefabbricata, alternatamente cieca o vetrata secondo un ritmo irregolare. L’attenzione alla struttura, alla flessibilità, all’industrializzazione e alla prefabbricazione, accompagnata dalle suggestioni derivanti dai movimenti artistici di quegli anni, dall’astrattismo all’informale, si esprimono in una serie di esperienze assolutamente innovative. Da qui le collaborazioni tra architetti e artisti – come quella tra Caccia Dominioni e Francesco Somaini, tra i fratelli Latis e Roberto Sambonet o Lucio Fontana, tra Minoletti e Antonia Tomasini – ma più ancora i chiari riferimenti a tali movimenti nelle scelte compositive e linguistiche dei nuovi edifici – l’astrattismo nel lavoro di Asnago e Vender e di Malchiodi, il Movimento d’Arte Concreta in quello di Carlo Perogalli e Attilio Mariani e Marco Zanuso: tutto con echi di continuità e suggestioni tratte dal recente passato.

Così alle coppie di ferro del milieu ambrosiano, da Asnago e Vender a Figini e Pollini, da Mangiarotti e Morassutti ai Soncini, dai Latis ai Monti (che invero erano in tre, con Anna Bertarini) si affianca la maestria di quella lunga schiera di professionisti già citati cui va senz’altro aggiunto il nome del romano Luigi Moretti che con il suo condominio di corso Italia lasciò un segno indelebile nella nuova stagione dell’architettura. Frammenti urbani, esercizi di stile ma anche risposte ad un bisogno reale che porta a ridefinire lo skyline e la morfologia di Milano dal 1947 a tutti gli anni Sessanta. A questi si aggiunge anche la sensibilità per le tematiche urbanistiche, o meglio di disegno urbano. Tale attitudine si riscontra ancora nel lavoro di Asnago e Vender – si pensi solo all’isolato di via Albricci e all’opportunità di costruire una porzione di città nel suo centro storico – ma anche nella torre Velasca dei BBPR, con il corpo ‘minore’ a creare un filtro tra città ed edificio, così come nel Ponti del grattacielo Pirelli, anticipato dalla maestria delle sedi Montecatini – prima e dopo la guerra – e poi ancora i Latis in via Turati con il risvolto ‘brutalista’ su via Porta e nello schermo contemporaneo che è l’edificio di piazza Repubblica; infine Gigi Gho’ con il suo edificio diametralmente opposto a quest’ultimo, nella stessa piazza, che guarda ai giardini e ai bastioni disegnando un angolo della città così come farà, di lì a poco, con la sede della Bayer su viale Certosa. Il rapporto con la strada e con l’intorno diviene elemento primario per le nuove costruzioni ma anche per le occasioni di ristrutturazione, i restauri e, soprattutto, i numerosi sopralzi, frutti di un dialogo necessario tra preesistenza e nuovo, di cui rimangono esemplari i progetti dei BBPR in via Verdi o in via Bigli, protagonisti anch’essi di una ‘città che sale’ in pochissimi anni, assieme alle torri. I nuovi timidi, e meno timidi, grattacieli, ma anche i numerosi palazzi per uffici nel cuore della città storica, come gli “armigeri neri” di Caccia Dominioni in corso Europa che, affiancati dal raffinato palazzo per uffici di Magistretti, disegnano una delle arterie nel cuore della città, contrappunto a quegli interventi del ventennio che avevano visto protagonisti Ponti, Lancia, Rimini, Portaluppi e che, a poca distanza, avevano ridisegnato corso Matteotti e piazza San Babila. Continuità e rinnovamento come valori costanti nella nuova città che nel dopoguerra cresce e si trasforma in una sfida per la qualità, prerogativa di una conoscenza a 360° da parte di un professionismo eroico e indimenticabile che contribuì a immaginarla ma anche, e soprattutto, a realizzarla.

 

Maria Vittoria Capitanucci

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(1) Piero Bottoni, Antologia di edifici moderni in Milano, Editoriale Domus, Milano 1954; George Everards Kidder Smith, Italy Builds: its modern architecture and native inheritance - L'Italia costruisce: la sua architettura moderna e la sua eredità indigena, Edizioni di Comunità, Milano 1954; Carlo Pagani, Architettura italiana oggi, Hoepli, Milano 1955; Agnoldomenico Pica, Architettura italiana ultima, Edizioni del Milione, Milano 1959; Roberto Aloi, Nuove architetture a Milano, Hoepli, Milano 1959.

 

(2) Si veda Reyner Banham, Neoliberty: The Italian Retreat from Modern Architecture in “The Architectural Review” n.747, 1959.

 

(3) Carlo Pagani, Architettura italiana oggi, Hoepli, Milano 1955, pp. 27-28.

 

(4) Ivi, p. 24

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