Caricamento...

Milano '60/'70: esperienze fuori contesto

temi

A cura di Marco Biraghi Florencia Andreola Irene Gallina Schuster

Gli anni Sessanta rappresentano per l'architettura un momento di transizione. In sintonia con le molteplici trasformazioni in atto, gli architetti operano fuori dal tradizionale orizzonte di riferimento, fuori contesto. Quando lavorano in aree periferiche non consolidate si propongono di realizzare nuove centralità: fuori dalla città compatta sono i progetti stessi a portare il contesto. Quando intervengono in aree centrali, al contrario, il tessuto storico pone loro il problema della relazione con un eccesso di contesto. Gli esempi qui selezionati rifiutano la mimesi e l'adesione silenziosa compiendo scelte autonome, scelte fuori contesto. Le opere dell'itinerario non configurano dunque un quadro uniforme, ma si offrono come rappresentative dei diversi binari percorsi dall’architettura di quegli anni.

(Materiale protetto da copyright, vietata la riproduzione)

Contestazione e contesto sono termini che, pur con etimologie, significati e ambiti di utilizzo molto diversi, hanno segnato in maniera significativa gli anni Sessanta e Settanta; un’epoca di forte “rottura”, attraversata da tensioni sociali e politiche, di sovente sfociate in ondate di protesta, ma anche un’epoca alla ricerca di possibili (ma in realtà più probabilmente impossibili) “conciliazioni” con l’ambiente, inteso tanto come naturale quanto come costruito: epoca che tra le altre cose ha dato vita a un’architettura che si è autodefinita “contestuale”, e che al lungo elenco degli -ismi novecenteschi ha voluto aggiungere il contestualismo.  

È all’interno di quest’epoca carica di contraddizioni, ma anche di idee e di spunti imprevedibili – e a volte persino straordinari – che si dipana il presente itinerario: un percorso organizzato non sulla base di un criterio rigorosamente autoriale, né puramente tipologico, e neppure banalmente topologico. Piuttosto un itinerario critico che, assecondando il carattere spregiudicato e aperto ai cambiamenti dell’epoca cui si riferisce, cerca di mettere a fuoco i momenti di maggiore autonomia e inventività dell’architettura del periodo a Milano; momenti contrassegnati da una volontà di agire in una condizione di complessiva indipendenza rispetto all’orizzonte sino ad allora considerato “di riferimento” dalla cultura architettonica milanese. Così, il Quartiere Sant’Ambrogio (1962-1966) di Arrigo Arrighetti, dirigente dell’Ufficio progetti del Comune di Milano fino all’inizio degli anni Sessanta, non soltanto attinge alla lezione del Padiglione Philips di Le Corbusier e di Iannis Xenakis del 1958 a Bruxelles per la Chiesa di San Giovanni Bono, ma si avvale anche dei principî dell’organicismo aaltiano per animare le lunghe stecche residenziali che lo compongono; un abbinamento di soluzioni che ne fa un episodio imprevedibilmente felice all’interno della spesso deludente vicenda dei complessi economico-popolari della città.

 Pur attraverso l’impiego di caratteri e di scelte tipologiche radicalmente diversi, il medesimo senso di felicità si lascia rintracciare anche nel Quartiere San Felice (1967-1975) di Luigi Caccia Dominioni e Ludovico Magistretti: dove è soprattutto l’abbondanza del verde e la differenziazione dei livelli stradali (insieme all’impiego di un linguaggio capace di accordare modernità e tradizione e al buon livello delle finiture) a fornire il modello esemplare per lo sviluppo degli insediamenti residenziali di lusso inseriti nei territori dei comuni dell’hinterland milanese.  A ben altra concezione urbana è improntato il Complesso residenziale INA (1966-1971) di Cesare Blasi e Gabriella Padovano: pur integrandosi perfettamente nel tessuto della zona vicina a viale Zara, le sei stecche gradonate in cemento armato costituiscono gli avamposti di un modo differente di pensare il rapporto tra edificio e città rispetto alle tradizionali cortine edilizie, offrendo un’inedita possibilità di utilizzo degli spazi aperti e di quelli pubblici. Una possibilità che viene ancor di più messa a frutto dal Complesso residenziale Monte Amiata (1967-1974) di Carlo Aymonino e Aldo Rossi al Quartiere Gallaratese. Qui la relazione tra i corpi residenziali progettati dai due architetti (di natura assai differenti tra loro) e gli spazi pubblici che li mettono in connessione dà luogo a un “frammento” urbano di singolare interezza, pensato per accogliere al proprio interno una comunità metropolitana.  Al concetto di “centralità periferica” è ispirato anche il Centro servizi al Villaggio INCIS (1972-1981) a Pieve Emanuele di Guido Canella, Michele Achilli e Daniele Brigidini. La dissonante tensione che s’istituisce tra i nerboruti corpi dei diversi “attori” chiamati a recitare intorno alla piazza centrale (scuola materna ed elementare, edificio multiuso e centro parrocchiale) traduce in forme tridimensionali la funzione complessiva del centro di “condensatore sociale”, ovvero di luogo ad alto potere identificativo nella no man’s land del territorio suburbano.

 Un tentativo di intensificazione che il Complesso per abitazioni, uffici, autorimessa e supermercato (1967-1969) di Vincenzo, Fausto e Lucio Passarelli e Giuseppe Chiodi si sforza invece di compiere in una zona della città ad alta densità abitativa qual è quella di Porta Romana. L’integrazione delle funzioni residenziali, terziarie e commerciali – oltreché un interessante sfruttamento della congestione – produce una sorta di “città nella città” dalle valenze fortemente espressive e dalle notevoli potenzialità urbane. A un’altrettanto interessante opera di “decongestione” è votato l’Autosilo meccanizzato di via Gozzi (1967-1969) di Carlo Perogalli. Per le ragguardevoli dimensioni e per l’alto grado di automazione che presenta, l’autosilo costituisce una punta avanzata (non soltanto per Milano e per l’Italia) della ricerca in materia di lotta alla (in)civiltà dell’automobile; una ricerca che, anche dal punto di vista architettonico, si avvale di soluzioni all’avanguardia, facendone un credibile tentativo di “immaginare il futuro”. Immerso nel verde, alle spalle del Quartiere Sant’Ambrogio, in zona Barona, il Centro per l’assistenza ai Paesi Africani (1971-1974) di Marco Zanuso e Pietro Crescini (oggi Collegio di Milano) è un atollo di qualità e di cultura architettonica: non soltanto un considerevole pezzo di architettura che guarda alle coeve ricerche anglosassoni sulle tipologie residenziali comunitarie, ma anche un meccanismo ben congegnato, orgoglioso dell’ingegnosa libertà che trae dai propri vincoli.

Un’isola infinitamente lontana rispetto al contesto in cui sorge è pure la Sede della Mondadori (1968-1975) a Segrate, di Oscar Niemeyer. Qui la decontestualizzazione è tanto più netta quanto più l’edificio rivela di far parte di una “sequenza evolutiva” intrapresa dall’architetto brasiliano diversi anni prima, in occasione della realizzazione dei palazzi del potere della nuova capitale del paese sudamericano. Ma non è senza uno stupore sempre rinnovato che la cattedrale di vetro e cemento armato del Palazzo Mondadori si lascia osservare transitando in prossimità dell’Idroscalo. Le opere comprese nell’itinerario non sono naturalmente le uniche, tra quelle realizzate a Milano tra anni Sessanta e Settanta, a presentare le caratteristiche sopra indicate; né si tratta evidentemente delle sole, all’interno della nutrita produzione del periodo, a rivestire un ruolo significativo e importante nel capoluogo lombardo. Si pensi soltanto – tra i molti altri – al Complesso per abitazioni e commercio in via Astesani (1961-1968) di Vito e Gustavo Latis; all’Edificio per uffici e abitazioni in corso Magenta (1963-1966) di Gianemilio, Piero e Anna Monti; al Palazzo per uffici Technimont (1970-1975) di Claudio Longo e Giulio Ricci; alle Torri residenziali al Gratosoglio (1963-1971) dei BBPR; al Palazzo Comunale a Sesto San Giovanni (1961-1971) di Piero Bottoni; alla Scuola media a Buccinasco (1965-1969) e al Municipio a Rozzano (1965-1970) di Virgilio Vercelloni. Univocità ed esaustività non sono tuttavia i caratteri salienti del presente itinerario, il quale ha piuttosto l’ambizione di farsi specchio dell’epoca all’interno della quale ci introduce: un’epoca che ha fatto della trasgressione delle regole la propria regola. È in questo territorio malcerto, pieno di sorprese e di contrasti, che esso si muove: raccogliendo ciò che sottopone a critica – se non rifiuta del tutto – gli schemi, per collocarsi così coscientemente fuori contesto.

 

Marco Biraghi