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"[…] A Milano la costruzione più tipica è il Duomo. Sembra il giudizio di uno scolaro o l’inizio di una guida alla città, scritta nel modo più didascalico e ingenuo possibile, e forse lo è. Ma mi riferisco al Duomo come quel suo essere fabbrica di sé stesso, un opera che nei secoli insegue la sua immagine e la cui bellezza possiamo cogliere proprio in questa continuità, sovrapposizione, costruzione scempio di tipologie e di pietre, insieme di decisioni diverse e contrapposte […]". È lo stesso Aldo Rossi che ci aiuta con disegni, scritti, suggestioni ad immaginare i suoi progetti accostati uno all’altro, a comporre pezzi di città o città intere, a confondersi con la Milano che esiste da prima e rappresenta la radice più profonda di una città sempre in costruzione in cui l’architettura “non conosce mai – per la sua storia politica – l’ineffabile bellezza dell’opera unica”. I progetti realizzati come quelli rimasti su carta raccontano in modo unitario, originale, coerente una sottomissione alla città longobarda, un’adesione fiduciosa a quella radice milanese – resa costruzione fisica dal granito, la beola, il mattone, l’intonaco giallo – così necessaria ad immaginare cose grandi, moderne, rivoluzionarie. Architetto del mondo, Rossi torna sempre a Milano, la sua città è il suo mondo familiare, domestico, ciò di cui si riempie gli occhi ogni giorno, ciò da cui trae i suoi riferimenti; sacri monti che costruiscono con lui il progetto.
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Un’architettura profondamente autobiografica – e non vi è dubbio che quella di Rossi lo sia – si nutre di ricordi, di incontri, di emozioni, ma se è vero che le impressioni della giovinezza sono quelle che rimangono più marcate anche i luoghi in cui si sono manifestate costituiscono per un artista un imprinting formale da cui è difficile separarsi. Tanto più se, come Rossi, si pensa che l’analogia sia il dispositivo attraverso il quale le forme urbane si riproducono e che una città abbia sempre in altre città la sua origine e spesso il suo destino. Milano, dunque, è stata per Rossi ciò che Venezia è stata per Marco Polo secondo Calvino: il modello e la misura attraverso cui leggere il mondo. La pratica, da lui amata, del passeggiare per le strade aveva il senso di rinnovare il piacere della conoscenza e, insieme, di verificare, dal vero, misure, scorci, materiali, relazioni a lui familiari per riproporle altrove o nella speranza di reinterpretarle in patria, qualora se ne manifestasse l’occasione. Anche per questo, un itinerario milanese dedicato a Rossi può essere solo parte di un itinerario più vasto in cui Milano riemerge in luoghi imprevedibili e in progetti lontani.
Dovendoci però attenere ad una mappa strettamente milanese è necessario partire da un pugno di monumenti, tutti collocati a poca distanza dagli studi-casa dell’architetto: la Cappella Trivulzio del Bramantino, ingresso turrito alla chiesa di S. Nazaro, con i suoi muri di mattone rosso nel cui spessore era incastrata una piccola trattoria; la Torre Velasca, provocatoria dichiarazione di moderna milanesità; le guglie e le lastre in marmo di Candoglia del Duomo, il cui modello ligneo, acquistato negli anni della fama, campeggiava nello studio di via Maddalena; la Galleria, riproposta in tanti progetti o i “cortili” della Ca’ Granda e di S. Ambrogio, modello di tutte le corti; e ancora, il fianco-facciata della chiesa di S. Fedele del Tibaldi, e le “falsificazioni” storiche del Boito. Ma più che i monumenti in sé, si dovrebbero ricercare le associazioni visive che legano alcuni di essi e che i milanesi sanno di poter scorgere da pochi punti speciali. Bisognerebbe apprezzare il deteriorarsi dei materiali; intuire – se non conoscere – le vicende, private e pubbliche, di cui le piazze o le vie sono state sfondo e sentire il tempo – il tempo atmosferico e il tempo storico come distingueva Rossi – che costruisce, completa, distrugge, la città più di qualunque architetto o disastro.
Tutto ciò trapela anche in un altro itinerario – cartaceo questa volta – che si può percorrere attraverso gli schizzi di Rossi. Un sentiero fatto, anch’esso, di intrecci architettonici e di confronti tra diverse scale, disegnato su veline gialle o su quaderni azzurri, colorato su rugose carte da acquerello o ricalcato su fotocopie e che ha un suo complemento “nobile” nelle stampe dei progetti dell’Antolini per Foro Buonaparte, nelle tavole del Milizia o nelle cartoline dei Sacri Monti lombardi spesso e volentieri inseriti nei disegni a mo’ di collage. Una guida alle architetture milanesi di Aldo Rossi non può, poi, ignorare che anche gli scritti che l’architetto ha dedicato alla città nascondono guide al loro interno.
Ha il carattere evidente di una guida, il saggio d’esordio sul Concetto di tradizione nell’architettura neoclassica milanese (1956). Ma possono essere considerate guide di una Milano personale anche le relazioni didattiche o di ricerca che descrivono in modo appassionato case a ballatoio, isolati, libri o monumenti. Altre guide, di vita e di lavoro, sono contenute in alcuni saggi illuminanti come Un’educazione realista, vero e proprio manifesto di un’architettura che vuole essere scientifica e sentimentale al tempo stesso, oppure gli scritti autobiografici più famosi come Autobiografia scientifica o il film Ornamento e delitto, prova di posizionamento culturale e politico negli anni del post ’68, prodotto per la Triennale del ’73 e da cui, tra citazioni di Stalin, Benjamin e Loos, traspare una Milano in bianco e nero: dura, affascinante e svanita nel tempo insieme alla nebbia. A loro modo guide o cataloghi possono essere considerati anche gli allestimenti eseguiti in occasione di mostre, proprie o altrui, architetture effimere che assumono le sembianze note di ponti, muri, stanze, sezioni di case; effimere sì, ma anche tanto simili agli spazi “anonimi” delle periferie del dopoguerra, sottratti da Rossi al grigiore ordinario grazie al bianco totale o ai colori accesi – il giallo, l’azzurro, il rosso – e trasformati, come avrebbe detto Le Corbusier, in Objects à réaction poétique, prove di ciò che sarebbe stato, più tardi, il Teatro del Mondo veneziano, punto di partenza di una fama mondiale.
Anche le relazioni che integrano i progetti di concorso o i disegni realizzati per i grandi incarichi degli anni ’80, in fondo, sono o contengono la guida di una Milano auspicata. Sono questi i testi che costituiscono la chiave di lettura più utile per comprendere il rapporto tra Rossi e la città. Più degli articoli, dei saggi e delle opere che descrivono, essi costruiscono, infatti, un vero e proprio racconto urbano componendo frasi e parole come fossero architetture e spazi, evocando personaggi, film, canzoni, rimpiangendo, in anticipo, la Milano che avrebbe potuto essere. Se sono scomparsi i cinema del centro, i teatri, la Casa della Cultura, la redazione di Casabella-Continuità, come molti altri luoghi di formazione per la generazione degli architetti milanesi del dopoguerra, i testi e i progetti di Rossi descrivono, ancora oggi, una città possibile, un’idea di futuro rispetto alla quale la città attuale appare, in ritardo, come se ancora dovesse attendere quelle opere “sapienti” in grado di traghettarla da un’epoca ad un’altra.
Infine è capitato che, nell’opera di Rossi, il punto di vista milanese prendesse la strada del mondo. Da quel momento, consumatosi tra gli anni ’80 e la sua morte nel 1997, possiamo incontrare Milano, per “sequenze”, dentro a progetti freneticamente prodotti per le Americhe o l’Asia: Fragments come il titolo di un noto disegno di quegli anni. Ed è un altro itinerario che si potrebbe seguire tra quei disegni e quelle opere, quello di una città che per ritrovare se stessa deve guardarsi, o essere guardata, da lontano.
Non c’è luogo a Milano, frammento di una città interessata negli ultimi anni da importanti cancellazioni, di cui Rossi non abbia direttamente o indirettamente parlato; molti suoi disegni, tanti scritti e progetti mai costruiti, da Garibaldi-Repubblica alla Bicocca, da San Siro alla Bovisa, fino a via Farini, hanno cercato nel corso del tempo di inserirsi con precisione, ma al tempo stesso con naturalezza, come fossero esistiti da sempre, in quell’opera milanese corale e coerente che Aldo Rossi tanto ammirava. Opera collettiva, non opera unica; una strategia diretta, capace di far dialogare a distanza epoche e ideologie differenti, capace di confrontare, opporre, sommare contemporaneamente sotto i nostri occhi in un’originale storia urbana Filarete, Bramante, Piermarini; a lui il solo compito di raccontarli, tradurli, farli risplendere ancora oggi nella loro necessità.
Sono progetti urbani, o meglio, brani di città come parte di un unico grande disegno a più mani il cui carattere civile è per Rossi ugualmente dimostrato ed esaltato dai grandi monumenti, dagli edifici pubblici così come da tutta quell’architettura popolare che è completa adesione a un “realismo quotidiano” verso cui sempre tendere; sono la Milano borromaica, la Milano napoleonica, neoclassica, fino al ’900 razionale, progetti di città governate da un’idea complessiva alla quale affiancare, come un unico quadro, fotogrammi sapientemente diretti nel cinema, nella letteratura come nel teatro, da Pasolini, Gadda, Testori ad esempio, immagini iconiche di vita quotidiana spesso spogliate di ogni apparenza, rese espressive proprio dal loro carattere profondamente popolare. Grandi ricchezze già a disposizione dei nostri occhi, sapendole guardare, sapendole trovare, “objet trouvé” appunto, nella definizione duchampiana, che – quasi – senza trasformazioni prendono posto in un racconto complesso.
In questo senso la Milano voluta e costruita da San Carlo Borromeo, lo ammette lo stesso Rossi, è in parte una sua invenzione personale, una preferenza autobiografica giovanile, un’ossessiva volontà di identificare nel ripetersi di alcune architetture civili e popolari allo stesso tempo, la mano di un unico uomo che ha saputo trasmettere un progetto globale su Milano e su chi la abita. Non è difficile oggi immaginare la somma di questi suoi progetti, lui stesso ci ha abituato con i disegni a vedere il sovrapporsi delle sue architetture quasi a comporre una Milano nuova, lui stesso ha legato indissolubilmente ogni progetto, costruito o meno, a quei riferimenti milanesi da cui trarre il senso vero del luogo tanto da trascinarli, ogni volta con più o meno evidenza, dentro ad ogni suo disegno come parte di un’unica scena teatrale. Lui stesso – ancora – ci ha abituati a immaginare le lunghe gambe del Gallaratese stagliarsi sopra periferie sironiane, guglie del Duomo trasformarsi in elementi puntuali quasi come torri gotiche o lampioni di piazze lombarde, l’aeroporto di Linate, colmo dei suoi aerei colorati, guardare alla Torre Velasca e appena più in là alla grande costruzione del Duomo; architetture che crescono sopra la città, o meglio ancora due città, una sull’altra.
Per Rossi, ogni luogo di Milano, della Lombardia, dalla Ca’ Granda ai Sacri Monti, dal San Carlone al Castello Sforzesco sembra diventare unico, singolare nella misura in cui possiede affinità, infinite analogie con altri luoghi, trasformandosi così in territorio della mente in cui gli stessi riferimenti, accostati uno all’altro, suggeriscono un nuovo ordine ideale. In fondo la stessa Milano di Rossi, così profondamente reale come scopriamo nei suoi disegni fantastici, è a tratti frutto di sogni ad occhi aperti, d’invenzioni oniriche, della sua immaginazione. Milano è una città in cui la verità è dimostrata dall’immaginazione che segue coerente la storia. I disegni, come i progetti, sembrano inseguire questa trama di nessi, di relazioni, di rimandi, di ricordi che lui conosce, vede e ritrova passeggiando per Milano spesso di ritorno dal Mondo. Rossi insegue la storia civile che nella città lombarda rende vana ogni invenzione, il progetto diventa semplice scomposizione e ricomposizione di architetture già note, frammenti di luoghi, alle volte figure geometriche, chiare ed evidenti nel loro significato semantico, materiali che sono memoria di una storia di appartenenza: “il riuso forse solo apparente di altri progetti è anche e soprattutto il riuso delle forme della città”.
Milano è – infine – per l’ultimo Rossi, più maturo, disincantato, spesso fisicamente lontano ma ugualmente dipendente dal territorio lombardo, la mancata possibilità di attuazione di un programma generale, di una regia collettiva per governare e ordinare il carattere, i valori più profondi della città, è per questo, che tutti i suoi progetti lombardi sono sempre andati oltre, già dalla trama delle relazioni che li accompagnano, al singolo episodio per ricercare la possibilità di una risposta generale; un programma ideale di progetto urbano. Oggetto visibile di questa guida sono, invece, i pochi edifici costruiti da Rossi a Milano. A partire dall’“archeologica” piazza di Segrate e dalla lunga strada al Gallaratese fino all’aeroporto di Linate, uno dei pochi aeroporti italiani in cui ancora si riconosce un valore architettonico, al Monumento a Pertini a costante rischio di trasferimento. Così la Milano di Rossi, come quella di Sironi, le cui periferie vuote costituiscono il modello dei primi disegni dell’architetto, la Milano vera e surreale di Miracolo a Milano di De Sica o quella de La Gilda del Mac Mahon di Testori, frequentato poco prima della morte di entrambi, ha indubbiamente lasciato il posto a un’altra città.