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Milano, culla natale e professionale di Gio Ponti, è anche il luogo in cui egli ha realizzato alcune delle icone più note della propria opera. Edifici come il Grattacielo Pirelli o la Chiesa di San Carlo Borromeo sono il simbolo dell’indissolubile legame instaurato da Ponti – architetto “globale” ante litteram, attivo tanto a Denver quanto a Bagdad, Caracas, Hong Kong o Stoccolma – con il tessuto culturale ed artistico, prima ancora che edilizio, della sua città. L’itinerario si pone l’obiettivo di approfondire criticamente l’attività di Ponti attraverso l'analisi delle proposte attuate per la costruzione di una Milano finalmente moderna, ripercorrendo le tracce del suo percorso attraverso tre categorie (la casa borghese, il palazzo per uffici e la chiesa) accomunate da una costante ricerca tesa al rinnovamento dello spirito di un’epoca.
(Materiale protetto da copyright, vietata la riproduzione)
Nel 1957, introducendo l’agile guida “Milano oggi”, Gio Ponti scrisse il manifesto del suo “innamoramento” per la città che fu lo sfondo più partecipe di tutta la sua lunga vita umana e professionale, dalla prima architettura – la casa per la sua famiglia in via Randaccio – alle ultime visioni di architetture ridotte a puro scintillio di luci e di colori. Nessuno meglio di lui infatti seppe riassumere lo spirito di Milano, distillarne gli umori e farne lievitare le aspirazioni alla modernità, incanalandone al tempo stesso le ambizioni della migliore borghesia verso un’autenticità di espressione che non sarebbe mai più stata raggiunta negli anni a venire dopo la sua morte nella casa di via Dezza. “Milano moderna” fu lo slogan che sintetizzò la sua impaziente ricerca di una civiltà tecnica come espressione di una civiltà di costumi, in un’equiparazione sostanziale tra modernità e sincerità espressiva, cui attribuì sempre il significato di una rivoluzione che partiva dal basso: dall’accettazione individuale, prima ancora che di massa o di classe, di quelli che, prima di lui, Giuseppe Pagano aveva definito i ”benefici dell’architettura moderna”.
Inventore della rivista “Domus” nel 1928, Ponti non a caso aveva individuato nella casa d’abitazione il nucleo di resistenza attorno al quale combattere la sua battaglia per la civilizzazione moderna: al punto di intitolare “domus” la lunga serie di case costruite a partire dalla fine degli anni Venti, proposte come prototipi abitativi di una borghesia urbana che rinunciava al finto antico, ripudiava il “milanese” e si sforzava di parlare il linguaggio colto dell’Europa, seguendo le esortazioni di Edoardo Persico e di Raffaello Giolli. Modello “all’italiana” delle Siedlungen razionaliste, le “domus” pontiane introducevano il colore, le “figure” dell’architettura classica (l’arco, innanzitutto, e poi la pergola), la generosità di balconi e terrazze destinati al verde, anticipando una posizione che allora sembrò velleitaria ma che oggi ha tutti i caratteri della profezia realizzata.
ll tema della casa è forse il vero leitmotiv dell’attività di Gio Ponti, il filo conduttore della sua prodigiosa creatività, il punto cruciale della sua battaglia per una cultura dell’abitare, che doveva trovare nell’autenticità degli spazi e degli arredi la conferma – quasi religiosa – della giustezza dell’idea moderna. La casa per Ponti era il laboratorio dove la modernità diventava pratica quotidiana di accettazione della vita, e come tale essa doveva ricevere dagli architetti l’onore della centralità nella loro pratica progettuale e nel loro sforzo inventivo. Dalla casa individuale alla casa condominiale, le scelte dell’itinerario evidenziano la continuità di quest’impegno, rivelando la grande duttilità e la capacità dell’architetto di valorizzare la continuità del pensiero senza rimanere prigioniero di formule da lui stesso create.
La casa torre Rasini al parco, da questo punto di vista, segna uno snodo tra la prima produzione di Ponti nella sua associazione ad Emilio Lancia e la sua successiva totale adesione alle istanze avanzate dalla giovane architettura razionalista. Ma neanche il razionalismo fu per Ponti una formula: anzi la sua accettazione passò per la necessità di una severa selezione, che discriminava i motivi essenziali della libertà di abitare dall’inevitabile soggezione a uno stile che diventava moda.
La casa Marmont e, ancor più, la casa in via Brin (dove per qualche tempo visse con la sua famiglia) mostrano in maniera evidente l’elegante semplificazione grafica di una composizione che si avviava sempre più all’esaltazione della “leggerezza”.
Questa però paradossalmente trovò la sua prima applicazione nella severa mole della Montecatini, la casa perfetta per lavorare, precisa come un orologio, netta e funzionale come una macchina. Qui, il disegno delle ampie vetrate sostenute dai sottili infissi di alluminio realizzò per la prima volta il primato della complanarità, fondendo in un’unica superficie piatta le lastre di marmo della facciata e le lastre vetrate delle finestrature. Il tema della “finestra leggera” trovò poi nel dopoguerra la sua completa teorizzazione e la sua applicazione nei complessi intensivi nel cuore della Milano antica (come l’edificio Ina in via San Paolo) e nelle prime espansioni della città ottocentesca (l’edificio Montedoria alle spalle della Stazione centrale). Autentici capolavori della piena maturità, questi edifici – cui per natura compositiva appartengono anche i tre edifici per il culto inclusi nel nostro itinerario – segnano uno degli apici più espressivi (e tuttavia ancora meno noti) della propensione di Ponti per il comporre a pareti leggere, svuotando la massa di ogni tentazione tettonica. Un lavoro prestigioso, che utilizza la tecnica della ripetizione e quella dello scarto, per trasformare prodotti edilizi seriali in vere dimostrazioni di un’architettura non “pigra”.
Ad essa bisogna naturalmente aggiungere la pratica del rivestimento ceramico, con piastrelle disegnate dallo stesso architetto a forma di diamante e di losanghe, capaci quindi di conferire all’architettura una lucentezza resa umbratile e variabile dalla diversa incidenza durante la giornate dei raggi del sole.
Sull’importanza della luce in Ponti – soprattutto nell’ultimo Ponti, quello descritto da Luigi Moretti in una delle ultime visite prima della scomparsa – molto è stato detto e in parte anche scritto: basterà qui ricordare le sue profonde, radicate implicazioni religiose, per spiegarne l’ossessione durante la progettazione della cappella di San Carlo e delle chiese di San Luca e San Francesco (preparazione necessaria all’exploit della concattedrale di Taranto).
Le facciate piegate come un retablo barocco (ma adottate già nell’esotica villa Planchart a Caracas) si aprono come ali per delimitare il sagrato dei fedeli. Le loro pelli – tesissime – assumono la cadenza di un origami delicatamente ma decisamente inciso, con tagli di aperture e di finestre che guidano la luce all’interno, plasmandola in una varietà di lame taglienti.
Abbiamo lasciato per ultimo il grattacielo Pirelli, il capolavoro più conosciuto, per il quale tuttavia la riabilitazione e l’assunzione all’altare della santità architettonica è dovuta passare attraverso il purgatorio della critica o l’inferno della denigrazione. Un mobile ingrandito, fu definito in Italia da Bruno Zevi; l’unica architettura moderna nella “ritirata italiana dal moderno”, invece, dal critico inglese Reyner Banham. Oggi nessuno oserebbe negare l’importanza del Pirelli, il grattacielo con l’”aureola” secondo Ponti, per giustificarne la sagoma volante della copertura. Eppure per quanti decenni l’ingiusto (e ingiustificato) paragone con la Torre Velasca condannò il Pirelli nel limbo dell’indifferenza? Rinato dopo il restauro condotto tra il 2002 e il 2004, il Pirelli non teme confronti: non solo con l’opera dei BBPR, ma con le tante goffe clonazioni di edifici alti che stanno punteggiando, tutt’attorno, lo skyline della nuova Milano.
“Io amo questa mia città in tutto quanto la vedo partecipare a quell’animoso movimento di civiltà che amo nel mondo e nell’epoca straordinaria – pur nella drammaticità dei suoi eventi – nella quale ho la fortuna di vivere. Amo Milano, dove è moderna, bella, ardita, nuova; la detesto dove la modernità è da essa tradita con realizzazioni volgari”.
in «Domus», Milano 1930
L. Sinisgalli
Editoriale Domus, Milano 1937
Editrice Italiana, Milano 1945
A. Libera, G. Vaccaro, P. G. Bosisio, P. Pozzi, E. Soncini, C. Villa, G. Beretta
Editrice Italiana, Milano 1945
J.S. Plaut (prefazione a cura di)
Guarnati, Milano 1954
Galleria del Sole, Milano 1956
Vitali e Ghianda, Genova 1957
M. Labò (a cura di)
La Rinascente, Milano 1958
Ugo La Pietra (a cura di)
Rizzoli, Milano 1995
Lisa Licitra Ponti
Leonardo, Milano 1990
Gloria Arditi, Cesare Serratto
Il Cardo, Venezia 1994
Marco Romanelli
Abitare Segesta, Milano 2003
Gio Ponti
Vitali e Ghianda, Genova, Arti grafiche San Giorgio, 1957.
Gio Ponti
Editrice italiana, Milano, 1945.
Ugo La Pietra (a cura di)
Rizzoli, Milano 1995.
Fulvio Irace
Electa, Milano 1988.
Lisa Licitra Ponti
Leonardo, Milano 1990.
Gloria Arditi, Cesare Serratto
Il Cardo, Venezia 1994.
Marco Romanelli
Abitare Segesta, Milano 2003