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“Di mesta ma grande importanza è il tema del cimitero in architettura; come crescevano le città tanto crescevano i cimiteri ma è in questi ultimi che si stabiliscono i ricordi, gli affetti, i resti fisici delle persone, ma anche delle città” (Aldo Rossi). Il tema del cimitero nei secoli ha rappresentato per la collettività una delle maggiori espressioni di civiltà in un perfetto equilibrio tra arte e architettura, tra spazio fisico e spazio simbolico, spirituale, tra costruzione e monumento. A differenza del passato queste architetture hanno subito nella loro costruzione moderna la stretta dipendenza dall’organizzazione ed espansione della città, diventando temi urbani, a volte nuove città nella città; allo stesso modo questi spazi all’aperto nella ricerca tipologica, talvolta sottesa, hanno custodito, fatto memoria, accolto il dolore e la preghiera esprimendo un senso di rispetto. Diversi sono i cimiteri che incidono il territorio milanese in modi differenti: come semplici recinti individuano un dentro e un fuori costruendo spazi quieti e affollati, privati e pubblici, chiusi e affacciati nella ricchezza come nella povertà delle forme.
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Il tema del cimitero, nei suoi caratteri più generali, ha rappresentato per la società, nel trascorrere dei secoli, una delle maggiori espressioni di civiltà in un perfetto equilibrio tra arte e architettura, tra spazio fisico e spazio simbolico, tra costruzione e monumento. Edgar Morin affrontando il tema della morte in uno dei suoi primi libri, “L’Homme et la Mort” del 1951, sottolinea come conducendo un’analisi antropologica sulla nascita dell’umanità sia possibile individuare qualcosa, un avvenimento preciso e definito, che segni drasticamente il passaggio dallo stato naturale a quello pienamente umano. Nel capitolo “Ai confini della terra di nessuno”, racconta del primo segno che testimonia la nascita di una civiltà consapevole: “la sepoltura, come prima e sensibile prova della preoccupazione di una comunità e dell’individuo per la morte” (3). Allo stesso modo il legame che, nella letteratura, nell’arte, nel teatro, nell’architettura da sempre si stabilisce tra il mondo dei vivi e quello dei morti, che si congiunge ai nostri occhi in maniera indissolubile, ci spinge a considerare la possibilità di un continuo parallelo che rende incerto il confine culturale tra i due stati più assoluti dell’essere, permettendoci di parlare di città dei morti, casa della morte, monumento alla morte non distinguendo quasi le differenze, traslando le regole della città all’interno del tema cimiteriale. Come ci ricorda ancora Aldo Rossi “l’architettura spesso cacciata dai centri urbani, trovò nel cimitero un tema di alto impegno, presto superò il singolo monumento e lo rese sublime come la speranza “ultima dea” che fugge dai sepolcri” (4).
Per tutto l’Ottocento e sicuramente per buona parte del Novecento la progettazione di moderne necropoli, grazie al lavoro di alcuni tra gli architetti migliori delle differenti epoche, determina un capitolo fondamentale per la storia dell’architettura italiana; da Rodolfo Vantini a Gaetano Moretti, da Giulio Ulisse Arata a Carlo Maciachini fino a Giovanni Muzio la rispondente interpretazione al tema della memoria ha costruito un vero e proprio laboratorio a cielo aperto entro cui si è concretizzata una precisa idea di costruzione oltre che di società civile. Con queste premesse, in epoca moderna, il progetto del cimitero non costituisce più la semplice applicazione di regole prestabile, legate al solo suo funzionamento, ma diviene la vera e più profonda volontà di rappresentazione della “città dei morti” nella “città dei vivi”, del suo senso religioso in ogni professione di fede, del senso di rispetto legato al culto e alla custodia dei morti. La rappresentazione dei valori della civiltà e il rispetto indicano quindi il significato più profondo del luogo dedicato alle sepolture ricercando di volta in volta in epoche, popoli, culture e luoghi differenti, quella sintesi e quell’equilibrio necessario.
La storia della sepoltura, nelle sue forme più antiche legate alla nascita dell’umanità, trova le sue origini nelle popolazioni primitive, attraversa le epoche classiche, il medioevo e oltre ma è forse alla fine del Settecento che si inizia a considerare lo spazio cimiteriale nella sua volontà progettuale, come luogo autonomo e definito, che diviene tema di architettura pubblica, riscattando gli esempi precedenti: architetture senza un progetto ideale o metafore dell’abitare sempre riferite ad elites o luoghi privi di senso civile come per la maggioranza delle sepolture ancora collettive. Il passaggio principale che dà origine all’attuale identità e carattere del tema funebre è quindi quello che si stabilisce tra i cimiteri costruiti fino al XVII secolo, posizionati nel cuore della città ma separati da essa, in cui l’immagine spoglia e priva di una qualsiasi volontà commemorativa ne è il carattere principale e i cimiteri che dalla metà del XVIII secolo riacquistano il loro significato e valore ridefinendo quel carattere urbano che è sintesi di sperimentazioni, ragioni politiche, religiose, sociali e al tempo stesso architettoniche. L’editto di Saint Cloud, emanato il 12 giugno 1804 da Napoleone ed esteso nel 1806 a tutto il Regno d’Italia, oltre ad ordinare le leggi, le norme, le prescrizioni in materia di sepoltura promuove un rinnovamento tanto politico quanto igienico-sanitario aprendo un dibattito serrato nella società per la definizione dei luoghi adeguati e dei progetti rispettosi delle condizioni stabilite.
A partire dalle sepolture al di fuori delle mura urbane, fino alla necessità di luoghi soleggiati ed arieggiati, dall’uguaglianza di tutte le tombe agli epitaffi riservati ai cittadini illustri, la portata politica e sanitaria dell’editto diviene la base razionale della nuova idea di cimitero, nuovo tema d’architettura capace di comprendere l’aspetto più civile dell’uomo, capace, lungo tutto l’Ottocento, di diventare uno straordinario manifesto delle potenzialità tipologico compositive dello spazio dedicato al culto dei morti al quale l’impercettibilità del tema e la fissità del programma funzionale hanno saputo dare forma. La ricerca sul tipo, il campionario tipologico che nel XVIII e XIX secolo traccia alcuni punti cardine, alcuni modi consueti, che danno origine e consolidano due principali corrispondenze ricorrenti nella definizione del tema cimiteriale, stabilisce come prima quella appartenente alla cultura anglosassone e dei paesi nordici che trova nella definizione del giardino l’adeguata dimora del corpo oltre la morte ma soprattutto il necessario tramite per rendere ai vivi più consueto e meno austero il luogo della sepoltura, la seconda, vicina alla cultura latina e del mediterraneo, che sperimenta nel suo carattere monumentale la definizione di luoghi racchiusi e definiti entro cui raccontare, in forma di città, la sacralità del rito. È così che riconosciamo nel cimitero Père-Lachaise a Parigi, progettato da Alexandre Théodore Brongniart nel 1803, definito da un giardino romantico, da una promenade tra le tombe di poeti e scrittori, il prototipo della ricerca che rende esplicito il legame con la natura del paesaggio cimiteriale.
Allo stesso modo in Italia, seguendo i programmi delle municipalità, si consolida una tipologia di cimiteri “monumentali”, da Brescia nel 1813 per opera di Rodolfo Vantini, a Verona nel 1829, Giuseppe Barbieri, a Genova nel 1835, Carlo Barabino, a Milano nel 1863, Carlo Maciachini, che confermano un senso di civiltà collettiva e al contempo di memoria individuale racchiusa in un luogo protetto. Sono schemi geometrici d’impianto neoclassico, esempi eccellenti, figli dei modelli che li precedono, sempre sovrapposti ad ambienti naturali, in cui prevale il ruolo del recinto nella definizione del luogo, sempre posizionati ai margini della città compatta dove l’architettura, senza creare suggestioni legate all’enfatizzazione del tema, usa con coerenza gli elementi dati, determinati spesso dal solo uso. Sono due modi compositivi differenti che accolgono infinite variazioni, contaminazioni, sperimentazioni in uno spirito di aggiornamento più che di re-interpretazione. Si pensi, tra tutte le variazioni al cimitero delle 366 fosse progettato a Napoli da Ferdinando Fuga nel 1762, un unicum tipologico che con definizione di “macchina per la morte”, nella razionale e democratica successione dei giorni dell’anno mette in poesia il diritto di chiunque, anche dei più umili, ad una degna sepoltura e commemorazione.
Il cimitero inteso dunque come paesaggio naturale o come spazio urbano inventa due grandi temi, due grandi alternative, entro cui tra Ottocento e Novecento vengono costruiti o solo progettati, immaginati, luoghi che nella loro vocazione museale fissano un idea di “città ideale dei morti e della memoria”. Sono modelli urbani, perimetri chiusi, composti e misurati da semplici assi distributivi o giardini disegnati, spazi aperti con grandi qualità naturali; il muro di cinta, l’ingresso, i percorsi, la natura, i singoli monumenti dedicati alle famiglie, le cappelle, il crematorio, sono i principali attori di queste composizioni che nel tempo hanno modificato il paesaggio, abituandoci alla loro presenza.
A differenza del passato queste architetture moderne hanno subito nella loro costruzione più recente la stretta dipendenza dall’organizzazione ed espansione della forma urbana, diventando temi della città, parte di essa. Negli esempi migliori il cimitero contemporaneo, spesso come semplice ampliamento di cimiteri già esistenti, ha avuto il compito di sintetizzare i princìpi in forme semplici, unendo in un unico disegno il rapporto diretto con la natura nei cimiteri nordici e la delimitazione del luogo sacro più frequente nell’Europa meridionale.
Il Cimitero nel Bosco di Stoccolma di Gunnar Asplund, costruito tra il 1917 e il 1940 con Sigurd Lewerentz, ha rappresentato un modello d’architettura ancora insuperato della capacità di coniugare il dolore per la separazione e il rispetto per la morte con il paesaggio naturale. Esempio di cimitero giardino si è costruito negli anni con la successione di piccoli segni che indicano le tappe di un percorso nella natura: la cappella, il crematorio, la croce, le tombe nel bosco, sono luoghi emozionanti per la loro semplicità, per la loro adeguatezza, sono architetture che riescono a stabilire un equilibrio sereno con il paesaggio capace di circondare il percorso e costruire l’unità del luogo.
In epoca più recente il Cimitero San Cataldo di Aldo Rossi a Modena, progettato nel 1971 con Gianni Braghieri, rappresenta l’esempio più chiaro dell’idea di città dei morti. La sua forma chiusa come una città di fondazione, le relazioni urbane attraverso le porte, le analogie con spazi della città costruita, che caratterizzano tutta l’opera di Rossi, sono tradotti in questo progetto a disegnare un grande impianto osteologico che meglio di altri mette in scena il legame stretto tra la vita e la morte. Ancora più recente il V ampliamento del Cimitero di Voghera di Antonio Monestiroli, realizzato nel 1995 con Tomaso Monestiroli, nel suo impianto a corte aperta supera il confine tra le due differenti tipologie, costruendo un luogo protetto, quieto, direttamente affacciato alla campagna. Un grande atrio aperto in cui mille lapidi mute segnano le sepolture raccolte all’interno del recinto perimetrale che sovrappone i piani delle gallerie.
Diversi sono gli esempi che incidono il territorio milanese in modi differenti, spesso come semplici recinti individuano prima di tutto un dentro e un fuori costruendo spazi quieti e affollati, privati e pubblici, chiusi e affacciati così nell’espressività come nella povertà delle forme. Le vicende che riguardano più da vicino la definizione del tema accompagnano la storia stessa della città, la sua costruzione e la sua morfologia, sottolineano segni preesistenti, occupano luoghi, trasformano permanenze, si appropriano di pezzi di città. Come in tutta la cultura e la tradizione latina riferita al culto cristiano i primi cimiteri, o più propriamente i luoghi dedicati alla sepoltura dei morti, trovano in realtà il germe della loro origine in moltissime tra le chiese ancora oggi presenti nel territorio milanese, nate come dimora per accogliere le reliquie dei primi martiri. Nel susseguirsi dei secoli i cimiteri, tanto accolti quanto più volte allontanati dal cuore della città per ragioni d’igiene, hanno occupato silenziosamente pezzi di Milano, spesso confondendosi con i complessi chiesastici o gli edifici umanitari.
Fino all’inizio del ‘600 Milano ha continuato ad affidare il rito della sepoltura a piccoli cimiteri cittadini (tre nel Brolo ad uso della chiesa di Santo Stefano e di due ospedali limitrofi, uno di fronte alla basilica di San Lorenzo, uno in San Pietro in campo lodigiano, uno di fronte la chiesa di Santa Eufemia, altri quattro presso la chiesa di Sant’Antonio, presso san Carpoforo, presso Santa Maria della Scala, e l’ultimo nella zona absidale del Duomo, detta del Campo Santo) ma il notevole e ormai incontrollato accrescimento del numero degli abitanti e le condizioni d’igiene critiche, in continuo peggioramento, portano negli stessi anni a considerare la necessità di altre strutture cittadine a supporto dei sepolcreti già esistenti.
L’adeguamento di parte dell’Ospedale Maggiore per ospitare le sepolture dei corpi dei malati morti in tutti gli ospedali cittadini e la successiva costruzione del Foppone dell’Ospedale, chiamato “Nuovi sepolcri”, in stretta dipendenza dal primo, rappresentano il tentativo di colmare questa nuova emergenza attraverso l’utilizzo di architetture, strutture urbane, che all’interno della città erano già presenti e fissate tipologicamente integrandole in seguito con la definizione di costruzioni autonome appositamente dedicate. Dalla seconda metà del Settecento, sostenendo con forza le ragioni d’igiene pubblica promosse da una cittadinanza illuminata, il governo austriaco decide di provvedere al trasferimento di tutti i cimiteri urbani fuori dalle mura della città promulgando un editto, nel 1776, che vietava di seppellire attorno e dentro le chiese e programmando dal 1785 la sistemazione e la successiva apertura di cinque nuovi cimiteri destinati ciascuno ad un settore urbano e alla relativa porzione esterna di territorio comunale. La soppressione di questi cinque cimiteri coinciderà poi con la lunga e faticosa decisione per Milano di dotarsi, come già accadeva per altre città italiane, di un unico grande cimitero destinato a diventare unico sepolcro per tutta la città.
Il cimitero del Maciachini e, qualche anno dopo, il cimitero di Musocco in questo senso trovano la loro ragione rappresentativa civile e al tempo stesso funzionale nella volontà di dotare la città di un unico luogo per rendere onore ai defunti e permettere ai vivi di fare memoria dei propri cari. Al tempo stesso questo sdoppiamento (che nasce dalla volontà di separare centro storico residenza borghese da periferia-residenza operaia) rappresenta per Milano l’ultima vera occasione in cui la progettazione dei cimiteri, dei due grandi cimiteri cittadini, è protagonista al pari di altri progetti urbani nel piano di trasformazione della città. Dall’inizio dell’Ottocento, intanto, anche i piccoli comuni autonomi limitrofi alla città, Bruzzano e Lambrate ad esempio, iniziano a dotarsi di piccoli cimiteri, semplici nelle forme essenziali che ricalcano la composizione degli elementi funzionali della definizione del luogo, dell’ingresso, della distribuzione dei campi d’inumazione.
La storia di questi semplici esempi, costruiti spesso senza un progetto completo, si trasforma o addirittura cessa lungo il ‘900 quando ampliamenti più o meno consistenti, spesso nuovi disegni fondativi, modificano in modo definitivo l’impianto cimiteriale originale. Costituiscono un caso a parte il Monumento ai Caduti e il Cimitero di Guerra al parco di Trenno che indicano, nella selezione cronologica proposta, due occasioni differenti di rappresentazione della memoria collettiva di fronte ad un evento bellico che accomuna tutti nello sgomento di fronte alla morte della ragione.
Il monumento di Giovanni Muzio nel 1929 costruito dopo la vittoria del concorso assieme ad Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati, Gio Ponti, Tommaso Buzzi interpreta in modo quasi didascalico il suo nome proprio, il tema del sacrario all’interno della città costruita. Una forma geometrica regolare e una composizione delle parti esatta, centrale, univoca segnano il carattere immutabile di questa architettura che nella pretesa monumentalità tocca il limite della forma scultorea allontanando il vero senso comune del compianto a favore di una inanimata commozione ufficiale. Allo stesso modo al parco di Trenno difficilmente ci riconosciamo nel sacrario inglese che ha caratteri troppo lontani dalla nostra storia; manifestati con estremo ordine e semplicità i pochi segni che costruiscono il cimitero ci commuovono nel ricordarci i caduti della seconda guerra mondiale più che per la commozione dello spazio che costruiscono.
La storia recente chiude la successione, riportando il tema cimiteriale alla sua tradizione declinata nella contemporaneità; allo stesso tempo apre a forme nuove di relazione tra la definizione fisica dello spazio cimiteriale e la dispersione nella natura. In questo senso il cimitero di Aldo Rossi a Rozzano progettato nel 1988 e realizzato, a pochi anni dalla sua morte, con Giovanni Da Pozzo e Francesco Saverio Fera ripropone una nuova interpretazione del cimitero-città dei vivi che nonostante le ridotte dimensioni si radica al territorio come un piccolo borgo fortificato, di cui ci ricorda struttura e regole. E’ infine il cimitero recente di Adalberto Del Bo ed Elisabetta Cozzi con Luca Larosa che apre ancora una volta alla ricerca del giusto equilibrio tra ambiente naturale e definizione tipologica dello spazio. Nel nuovo Cimitero parco a Novate Milanese il disegno aperto dei campi di inumazione, segnato dalla struttura solida dei muri e da più domestici percorsi pergolati, costruisce l’ossatura dell’impianto planimetrico che si sovrappone senza modificazioni all’ambiente naturale che accoglie al proprio interno.
La sequenza scelta costruisce un itinerario in dodici stazioni. Dodici temi rappresentativi ordinano, all’interno della varietà tipologica sedimentata nei secoli, un racconto cronologico che evidenzia le costanti nel rapporto tra il tema cimiteriale, la città e la natura e decide di sottolineare gli esempi che più di altri, nella diversità delle singole ragioni, compongono una sequenza esaustiva capace di rendere evidente l’evoluzione storica dell’idea di cimitero che nei suoi caratteri più generali è allineata a quella italiana. Dodici opere che mostrano diverse possibilità d’interpretazione del tema sacro, differenti modi di rapportarsi alla città o al territorio, differenti traduzioni formali di precise scelte tipologiche che sono accomunate da una forte capacità evocativa tanto nella riduzione dei segni che li identificano quanto nella chiarezza delle forme che li costruiscono.
(1) Aldo Rossi, Relazione al progetto per il cimitero di Rozzano, in: Alberto Ferlenga (a cura di), Aldo Rossi, Opera completa. 1993-1996, Electa, Milano 1996.
(2) Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
(3) Edgar Morin, L’Homme et la Mort, Corrêa, Paris 1951 (trad. it. a cura di Livia Bellanova Pascolino, L’uomo e la morte, Newton Compton, Roma 1980).
(4) Aldo Rossi, QA 7, in: Aldo Rossi, I Quaderni Azzurri (1968-1992), Electa-The Getty Research Institute, Milano 1999.
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M. Felicori (a cura di)
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M. Giuffre (a cura di )
Caracol, Palermo, 2007