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Fare città è un’arte complessa, difficile. A Sesto San Giovanni, negli anni in cui lo spazio era ancora fortemente segnato dalle presenze dei complessi industriali, alcuni dei quali giganteschi, riuscire a trasformare il suo disastrato paesaggio in un ambiente urbano poteva apparire un’impresa velleitaria e comunque non prioritaria rispetto alla urgenza dei problemi sociali. Tra il realismo del fare “giorno per giorno” e l’utopia dei grandi progetti astratti, Piero Bottoni, l’esponente prestigioso della cultura architettonica e urbanistica moderna, dimostra con i suoi interventi che, tenendo insieme etica ed estetica, urbanistica e architettura, l’ascolto dei luoghi e la libertà d’immaginazione, era possibile a Sesto trovare la strada per fare di quell’ammasso di fabbriche e case una città.
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Nel 1961 i residenti, che nel 1901 erano 7.032, risultano più di 70.000 e su una popolazione attiva di 32.731 unità, pochissimi, solo 115 (0,35%), vivono di agricoltura mentre gli altri in gran parte (25.132, pari al 76,78%) risultano occupati nell’industria, senza contare la massa degli operai pendolari che tutti i giorni gravitano su Sesto. I circa tre milioni di aree industriali dismesse censite dal Documento di Piano del 2009, negli anni Sessanta sono ancora formicolanti di lavoro. I colossi della siderurgia, della metalmeccanica ed elettromeccanica − Falck, Breda, Magneti ed Ercole Marelli − più le numerose medie fabbriche, ognuna da 200-1000 dipendenti, a cui vanno aggiunte, altrettanto numerose, le piccole aziende, in quel periodo fanno di Sesto uno dei centri industriali più importanti d’Italia, ma anche uno dei più infelici dal punto di vista ambientale.
Poco o nulla è rimasto della bellezza e salubrità della campagna che fino alle soglie del novecento facevano di Sesto un luogo di villeggiatura delle ricche famiglie milanesi che qui avevano possedimenti terrieri, filande e bellissime ville. Anche l’antico nucleo ha perso definitivamente la sua aria di borgo contadino. Demolizioni e ricostruzioni fuori scala ne hanno sconnesso il volto. Le corti coloniche sopravvissute, basse e grigie, risultano spaesate accanto a lucidi palazzoni di sette, otto piani. Non più rurale ma neppure urbano, l’edificato si configura come un informe aggregato di frammenti, ostacolati nelle loro relazioni dalla ferrovia e dai corpi mastodontici dei giganti industriali: la vecchia Sesto, le cui condizioni pur così rinnovate sono giudicate da Bottoni «assolutamente inadeguate alla importanza attuale della città»; le “provvidenze” e i villaggi del paternalismo industriale sorti isolati e lontani, vere appendici di fabbrica; le case popolari del quartiere Razza realizzate in periodo fascista; le costruzioni banali del dopoguerra sorte sull’impianto del piano del 1934-1944: una maglia regolare di strade, concepita dallo studio di Ingegneria e Idraulica Sironi-Severi essenzialmente come una razionalizzazione della viabilità e del traffico, che andava a sventrare pesantemente il tessuto minuto del borgo ottocentesco e favoriva, sulla scia del piano di ampliamento del 1926, l’espansione massiccia dell’edificato a ovest della ferrovia.
La città che si costruisce dal 1946 per un quindicennio, senza un progetto che prefiguri un diverso disegno d’assieme, è tutt’uno con la cultura pragmatica, maturata nella fabbrica e nella lotta di Resistenza, di quegli operai, tecnici, impiegati che compongono, per la prima volta, l’ossatura della amministrazione comunale. Animati da una forte tensione civile, impegnati a difendere e a estendere nella fabbrica e nella società la presenza del popolo lavoratore, per i nuovi quadri dirigenti di Sesto i valori ambientali non costituiscono in quella fase un problema di cui preoccuparsi. Anche se tra gli obbiettivi dell’amministrazione rientra una «Sesto più bella», come recita un volantino elettorale del 1951, lo spazio è considerato innanzi tutto una risorsa da far fruttare nell’immediato per altre priorità, ritenute più urgenti: la salvaguardia e l’aumento dei posti di lavoro; la ripresa dell’attività edilizia e dei lavori pubblici (sia per rispondere nell’immediato alla disoccupazione creata dai processi di riconversione industriale post bellica sia per favorire l’insediamento di ulteriori attività produttive); infine, ma non meno importante, la creazione di servizi comunali e case economiche. Si voleva in questo modo riscattare la condizione operaia dalla secolare povertà dell’abitazione contadina, dai ricatti del paternalismo aziendale, dai disagi della coabitazione e dalle situazioni intollerabili di vita a cui le baracche, cresciute numerose in periodo fascista, avevano costretto a lungo gli immigrati.
Non bisogna dimenticare che dal periodo tra le due guerre Sesto aveva ereditato la crescita abnorme della popolazione, passata dai 19.205 abitanti del 1920 ai 40.184 del 1940 (con un affollamento medio nel 1946 di ben 5 abitanti per vano), e la mancanza di infrastrutture primarie in gran parte del territorio. Né si può trascurare che il Comune era privo di un demanio e con un territorio in mano a pochi privati. Il bilancio comunale era inoltre povero di risorse finanziarie, del tutto inadeguato a far fronte ai bisogni della popolazione. Senza contare il boicottaggio delle banche nei confronti della giunta di sinistra, il costo della vita alle stelle, e la ripresa massiccia, a partire già dal 1948, dell’immigrazione, che diventa travolgente all’avvio del boom economico. In questo contesto, in cui i rapporti di forza tra Comune e privati vedono Sesto totalmente svantaggiata, l’amministrazione popolare, incalzata dall’urgenza dei problemi sociali, adotta una prassi urbanistica improntata a un estremo realismo: senza alcuna visione organica circa gli esiti spaziali da perseguire, dà vita a una serie spregiudicata di convenzioni coi privati che si rivelano un’arma a doppio taglio. Le convenzioni, mentre consentono al Comune di aumentare il patrimonio di aree ed edifici pubblici, favoriscono la creazione di un quadro edilizio mediocre e disordinato, lontano da ogni forma di bellezza quale si addice all’immagine di una città. All’inizio degli anni Sessanta la politica della continua contrattazione col privato mostra tutti i suoi limiti. Non solo: anche il realismo del piano del 1958-59, steso dall’ingegner Franco Cambi, si rivela inadeguato per trasformare Sesto da agglomerato caotico di case e fabbriche in un organismo urbano a tutti gli effetti.
Fare città è un’arte indubbiamente difficile, tanto più in un contesto disastrato, pesantemente condizionato dalla presenza di giganteschi complessi industriali e dalle loro logiche aziendali, indifferenti alla qualità urbana dei luoghi. Ma il piano Cambi faceva dipendere il carattere urbano solo dalle nuove amplissime dimensioni previste per l’insediamento. Se con tali dimensioni veniva indubbiamente ribaltata la subalternità dell’aggregato umano rispetto allo spazio smisurato occupato dalle fabbriche, la qualità dell’abitare non ne ricavava un miglioramento. Il piano consentiva l’edificazione pressoché totale del territorio comunale. Scarsissima attenzione era riservata al sistema degli spazi aperti d’uso pubblico. La fascia verde prevista lungo il Lambro era in gran parte riservata al nuovo cimitero. Né erano previste zone verdi a impedire la saldatura con l’edificato dei comuni confinanti. L’ampliamento delle superfici da destinarsi ad attività produttive creava, poi, con quelle vastissime esistenti, una successione continua di industrie che avrebbe costituito un irreparabile ostacolo nel sistema di relazioni est-ovest sia comunali che intercomunali. In particolare andava a «strangolare» (P. B.) ogni possibilità futura di collegare la vecchia zona urbana, e al suo interno il futuro centro civico, con la grande espansione residenziale prevista a est.
Nel fuoco della polemica di allora, tra il realismo del fare “giorno per giorno” e l’utopia dei grandi progetti astratti, Piero Bottoni, l’esponente prestigioso della cultura architettonica e urbanistica moderna, dimostrerà con i suoi interventi che, tenendo insieme etica ed estetica, urbanistica e architettura, l’ascolto dei luoghi e la libertà d’immaginazione, era possibile a Sesto trovare la strada per fare di quel ammasso di fabbriche e case una città.
P. George
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