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In uno studio del 1965, ancora oggi di grande fascino e acutezza, Guido Canella affrontava il tema del sistema teatrale a Milano, introducendo l’indagine contestualizzata al caso milanese con un saggio più teorico e generale sulla tipologia del teatro e sui compiti dell’architettura per la sua progettazione contemporanea. Rispetto ad una visione tecnicistica, incentrata sul congegno della sala e della scena, si tratta di privilegiare una visione tipologica, incentrata sul rapporto tra architettura del teatro e costruzione urbana. In sede progettuale ciò significa, per l’architetto che si occupa di teatri, superare una progettazione esclusivamente concepita al servizio della drammaturgia, rivelando invece le multiformi istanze teatrali diffuse nella città e nel territorio, mirando a configurarle in un sistema molteplice costruito su una continuità tipologica e funzionale.
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In merito al secondo punto, la tesi allora enunciata da Canella può essere così sintetizzata. Nell’affrontare l’architettura del teatro il punto di vista dell’architetto differisce necessariamente da quello del regista, dello scenografo, dell’attore. Mentre costoro si concentrano sulla dimensione interna dello spettacolo, sull’apparato scenico, sui requisiti tecnici, in coerenza a una specifica tendenza drammaturgica, l’architetto non può che riferirsi ai rapporti che legano il teatro alla città e alla società nel loro complesso, di cui le relazioni topografiche tra spazio del pubblico e spazio della scena sono la manifestazione più evidente, divenendo le invarianti che distinguono l’architettura del teatro in differenti stagioni storiche. In questa ottica, lo spazio metropolitano contemporaneo è caratterizzato da una varietà di esperienze ed espressioni teatrali che si manifestano in un molteplice nel quale il tipo edilizio specificamente deputato costituisce solo il momento culminante, istituzionale, di una più ampia teatralità diffusa nella città e nella società in forme più o meno latenti, sotterranee, itineranti. Da qui l’utilità, analitica e progettuale, della nozione di sistema teatrale, secondo la quale oltre all’edificio teatrale in senso stretto, inteso come dispositivo scenotecnico e per la disposizione del pubblico, diventa importante considerare il rapporto tra teatro e città e, all’interno di questo, il ruolo di reciproca complementarietà, di “sistema”, che svolgono da un lato le diverse forme del teatro istituzionale e dall’altro i luoghi diffusi della teatralità non istituzionale, cioè quelli che recentemente sono stati definiti teatri impropri o, anche, pseudoteatri (basti pensare a certe piazze urbane, agli spazi didattici legati ai vari gradi del sistema dell’istruzione, alle sale consiliari delle sedi municipali e degli enti locali, alla suscettibilità rappresentativa di certi spazi dell’architettura destinata al culto, eccetera).
In altri termini si tratta di privilegiare a una visione tecnicistica, incentrata sul congegno della sala e della scena, una visione tipologica, incentrata sul rapporto tra architettura del teatro e costruzione urbana. In sede progettuale ciò significa, per l’architetto che si occupa di teatri, superare una progettazione esclusivamente concepita al servizio della drammaturgia, tale da considerare esaurito il proprio compito nella messa a punto di un congegno scenotecnico capace di garantire la più vasta gamma di performances, fino ad arrivare in certi casi all’estremo del “teatro su misura” per un singolo regista o una singola poetica. Al contrario il ruolo dell’architetto progettista, secondo Canella, dovrebbe essere quello di rivelare le multiformi istanze teatrali diffuse nella città e nel territorio, mirando a configurarle in un sistema molteplice costruito su una continuità tipologica e funzionale che dalle forme più latenti o spontanee arrivi a quelle più tipiche e istituzionali. Dal punto di vista più propriamente tipologico, i caratteri e la variabilità della tipologia teatrale di epoca moderna, successivamente al teatro greco e romano, possono essere condensati in un itinerario assai sintetico (al di là delle specificità e delle articolazioni dei singoli casi), che dal Teatro Marittimo di Villa Adriana, attraverso alcuni esempi di teatri impropri quattrocenteschi e gli esempi classici del teatro rinascimentale, arriva alla cristallizzazione della sala all’italiana e al processo di riforma a cui essa venne sottoposta in Francia e in Germania tra metà Settecento e metà Ottocento, fino al punto di approdo del teatro wagneriano di Bayreuth; dopo il quale la progettazione teatrale prende strade nuove e sperimentali, in uno sviluppo parallelo tra nuove forme drammaturgiche e architettura d’avanguardia.
Se, dopo le prefigurazione filaretiana della Casa del Vizio e della Virtù e i disegni sperimentali del Leonardo milanese per un “teatro da predicare” – da inserire sia nelle parti absidali di chiese a croce greca o latina, sia come tipo autonomo nello spazio urbano – il Teatro Olimpico di Palladio può essere assunto come prototipo del teatro rinascimentale, la prima questione che si pone è come dall’impianto ad anfiteatro classico e a scena fissa del teatro palladiano, del 1580, si passi alla tipologia del teatro all’italiana, con sala a ferro di cavallo, sequenza di palchi disposti per più ordini verticalmente sul vuoto della sala, palcoscenico profondo e apparato scenotecnico complesso, per consentire il cambio frequente dei fondali e l’illusionismo scenico proprio del teatro barocco. Passaggio questo tra i più difficili da spiegare nella storia tipologica dell’edificio teatrale, e che probabilmente avviene per strade diverse a seconda dei contesti di corte (a Firenze con il teatro vasariano-bontalentiano degli Uffizi, 1565-1585, a Bologna con la Sala del Chenda, 1639, eccetera), ma che proprio a Milano trova un paradigma significativo nella transizione dal Salone Margherita, 1598, al Nuovo Regio Ducal Teatro, 1717 – entrambi teatri di corte nel secondo cortile a doppio loggiato di Palazzo Ducale –, fino al progetto di Giuseppe Piermarini per il Teatro alla Scala, 1776-78, nello spazio urbano fuori dal recinto di corte, concepito e realizzato per iniziativa della società dei palchettisti che ne erano i proprietari, e che del teatro barocco all’italiana costituirà esempio principe.
A fronte della straordinaria diffusione di questa tipologia in Italia e in Europa, che da metà Settecento si prolungherà fino a tutto l’Ottocento, un secondo passaggio decisivo del teatro moderno è quello che ha portato al cosiddetto “teatro riformato”, ovvero quella linea di reazione alla degenerazione mondana della sala a palchi all’italiana già stigmatizzata da Milizia sullo scorcio del Settecento (“caos di teste e mezzi busti”), che si svilupperà per circa un secolo soprattutto in area franco-tedesca, in coerenza con il generale ritorno all’antico greco e romano propugnato dall’Illuminismo. Una corrente di riforma della sala che attraverso la progressione tipologica che lega con un filo diretto i teatri di Soufflot, De Wailly e Peyre, Ledoux, Boullée, gli studi e le realizzazioni di Gilly e Schinkel, i progetti di Wagner e Semper, approderà alla formulazione esemplare del teatro wagneriano di Bayreuth, 1873, nel quale l’esigenza fondamentale di riconquistare al teatro quell’aura sacrale che veniva riconosciuta al teatro degli antichi si realizza compiutamente attraverso la rigorosa abolizione dei palchi chiusi e l’adozione di una sala inclinata a settore anfiteatrale, capace di garantire condizioni egualitarie nella disposizione del pubblico. Secondo un sentimento di purificazione che non investe solo la riforma interna della sala, ma si propaga anche all’esterno, elevando il teatro al rango di nuovo tempio civico, epicentro monumentale nella costruzione della città (si veda al riguardo la straordinaria testimonianza di Wagner L’ideale di Bayreuth).
Dopo Bayreuth, che rappresenta il punto di arrivo della critica al teatro di corte e alla tradizione della sala barocca all’italiana nella prospettiva di un ritorno del teatro alle sue origini classiche, il contributo dell’Avanguardia, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, sperimenterà nuove ipotesi sull’assetto interno del teatro e sul suo rapporto con la città, muovendo fondamentalmente su tre linee: da un lato una caratterizzazione in senso monumentale dell’edificio teatrale, dall’altro una sperimentazione di assetti di sala e di scena funzionale a specifiche ricerche drammaturgiche, dall’altro ancora la definizione di un ruolo sociale nuovo del teatro rispetto ad un’utenza di massa fino ad allora sconosciuta e che si intendeva coinvolgere in un impegno di acculturazione allargata. Tralasciando il primo punto, sul terreno del teatro sperimentale gli esempi più noti e importanti vanno dai celebri progetti di Gropius per Piscator e di Barchin e Vachtangov per Mejerchol’d, teatri su misura caratterizzati per così dire da una certa opulenza scenotecnica, a teatri viceversa conformati a una drammaturgia d’avanguardia spesso sposata a una concezione povera del teatro, destinato a un pubblico ristretto di iniziati dove i tradizionali rapporti frontali tra pubblico e scena vengono rimessi in discussione attraverso disposizioni facilmente adattabili alle differenti esigenze di scena, come il “Teatro simultaneo” ricavato nello scantinato di una casa tipo del centro di Varsavia di Szymon ed Elena Syrkus, 1927, o quello in tutto simile del teatro “13 Rzedow” progettato da Jerzy Gurawski per il tetaro “magico sacrilego” di Jerzy Grotowski a Opole sempre in Polonia, 1959, o la scena rotante e tripartita pensata da Antonio Valente, 1928, o gli schizzi di Antonin Artaud per una sala ideale del suo “Théâtre de la cruauté”, 1932, fino al teatro di 299 posti progettato nel 1960 da Peter Blake e David Hays per il concorso della Ford Foundation per una nuova concezione del tipo teatrale, dimensionato sul lotto tipo di New York City così da poter sostituire uno qualsiasi dei fabbricati fatiscenti di Manhattan. Mentre, per quanto attiene al nuovo mandato sociale del teatro, Milano è sede di uno degli esempi più interessanti, con il Teatro del Popolo della Società Umanitaria, ricavato nel 1910 in un capannone industriale della Società Tecnomasio Brown Boveri da Luigi e Cesare Mazzocchi, in tutto confrontabile con i più conosciuti esempi europei della Volksbühne berlinese o del Théâtre Nationale Popoulaire francese.
Dopo la seconda guerra mondiale le tendenze prevalenti sembrano essere due, apparentemente opposte, in realtà complementari: da un lato la ricerca di sempre nuove opportunità tecniche attraverso un massimo di indeterminatezza e di flessibilità, secondo un punto di vista alienato agli imperativi della scenotecnica e dimentico del rapporto con la città (Théâtre expérimental à transformations multiples di Alain Bourbonnais, 1963, dove la connotazione tipica dell’assetto teatrale è dissolta in un assetto informale e continuamente cangevole); dall’altro lato la tendenza a concentrare, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, vere e proprie cittadelle teatrali specializzate, dove molteplici edifici garantiscono la compresenza di tutti i generi e di tutte le performances, come il Lincoln Center di New York o l’area di South Bank sulle rive del Tamigi a Londra. Mentre l’esperienza più recente di alcuni maestri dell’architettura italiana (Gardella e Rossi a Genova, Aymonino a Avellino, Canella a Taranto, Gregotti alla Bicocca) di fronte al compito di progettare un teatro d’opera sembra riproporre l’antica alternativa tipologica tra “teatro all’italiana”, con sala a palchi, e “teatro alla tedesca”, con sala a settore anfiteatrale. Se questo in estrema sintesi, necessariamente schematica, è l’excursus tipologico dell’edificio teatrale proposto, con altra profondità e ricchezza di argomentazioni, da Canella a introduzione dello studio sul sistema teatrale milanese, il caso di Milano viene indagato nelle sue specificità contestuali attraverso una successione di soglie storiche che, grosso modo di cinquantennio in cinquantennio, dai teatri di corte seicenteschi di Palazzo Ducale arriva al secondo dopoguerra fino ai primi anni Sessanta.
Così, dopo l’antecedente seicentesco del Teatrino della Commedia e del Salone Margherita (1598, poi consolidato nel Nuovo Regio Ducal Teatro, 1717), ricavati negli spazi di Palazzo Ducale, nelle prime soglie storiche viene analizzato il passaggio alle prime forme di teatro pubblico fuori dal recinto di corte, che vede nella costruzione del Teatro alla Scala (1776-1778) e del Teatro della Canobiana (1777-1779), entrambi di Giuseppe Piermarini, il formarsi del primo nucleo fondamentale del sistema teatrale milanese, con due sedi tra loro complementari (sala maggiore e sala minore) e destinate a un pubblico cittadino, pur nella conferma di un’impronta elitaria essendo costruiti per iniziativa di aristocratici riuniti nella società dei palchettisti. Nella prima metà dell’Ottocento, ad opera dei principali architetti neoclassici milanesi, si assiste a una forte moltiplicazione di edifici teatrali, per lo più replicati sulla tipologia con sala a ferro di cavallo e più ordini di palchi sovrapposti, costruiti prevalentemente a struttura lignea e dunque spesso soggetti a incendi e successivi rifacimenti. Tra questi i principali sono: il Patriottico, poi Filodrammatici, nell’ex-Chiesa di San Damiano, limitrofo alla Scala, destinato a teatro di prosa della Società Patriottica, con apparato scenotecnico semplificato (1799, architetti Piermarini, Pollack e Canonica); il Lentasio (1801, architetti Pollack e Canonica) e il Carcano (1803, architetto Canonica), entrambi in corso di Porta Romana; il Santa Radegonda (1803, architetto Moraglia, in via Santa Radegonda); il Re (1813, architetto Canonica, dietro il Coperto dei Figini); il Fiando, piccolo teatro delle marionette con soli 200 posti che diventerà successivamente il Gerolamo (1815, architetti Canonica e Tazzini, dietro il Duomo in contrada Palazzo di Giustizia).
Ma in questo periodo la novità più significativa dal punto di vista tipologico è rappresentata dai Teatri diurni, teatri che non hanno la sala coperta (copribile con teloni in caso di necessità), i cui spettacoli si svolgono soprattutto di giorno, con un repertorio destinato a un pubblico popolare, comprendendo anche spettacoli di circo e ballo (tra i più importanti: il Teatro diurno dei Giardini Pubblici, 1809; della Stadera in corso di Porta Venezia, 1810; della Commenda, 1833, poco lontano dal Carcano). Nel periodo successivo, dall’Unità fino a circa la prima guerra mondiale, gli interventi più consistenti e innovativi riguardano il Teatro Fossati, 1859, il Teatro della Commedia, 1872, e il Teatro Dal Verme, 1872. Il Teatro Fossati, dell’architetto Fermo Zuccari, si pone nel solco dei teatri diurni, collocato nella zona urbana densamente popolare dell’attuale corso Garibaldi (corso di Porta Comasina): ha tre ordini di logge con sala a ferro di cavallo aperta verso il cielo tramite copertura in ferro e vetro, a memoria delle sale scoperte dei teatri diurni, e presenta la singolare caratteristica del doppio fronte, uno verso il Castello, l’altro verso il corso, entrambe nelle forme comunicative dell’architettura patriottica. Il Teatro della Commedia, che dopo la morte di Alessandro Manzoni nel 1873 ne assume il nome e dal 1912 diviene sede della Compagnia Stabile Teatro Manzoni, è destinato soprattutto alla prosa ma con pianta comunque a ferro di cavallo e tre ordini di palchi più uno a galleria-loggione, in piazza San Fedele di fronte alla chiesa, la cui innovazione principale consiste nella compresenza di altre funzioni, abitazioni e studi professionali, che si configurano come importante economia esterna dell’iniziativa teatrale privata (verrà distrutto dai bombardamenti del 1943). Il Dal Verme (architetto Pestagalli) presenta pianta a ferro di cavallo e due ordini di palchi, ma con gradinata intorno alla platea trasformabile in arena, così da poter ospitare spettacoli equestri oltre che lirici, e con annessa birreria-ristorante, conformemente al pubblico popolare cui era precipuamente destinato.
La tendenza prevalente in questi anni fino al volgere del secolo riguarda, infatti, una accelerata diffusione nelle zone di periferia e di nuova urbanizzazione di teatri per un pubblico popolare con un repertorio ad esso conforme (Teatro Nuovo Re, 1872, in corso di Porta Ticinese; Castelli, 1874, in via Palermo, poi trasformato in sala per il gioco della pelota; Pezzana, 1881, ai bastioni di Porta Genova, fino al Teatro Eden, 1892, al piano terreno del primo edificio di Foro Bonaparte di Giuseppe Pirovano, primo esempio di caffè-concerto, con sala regolare, logge su tre lati, palcoscenico piccolo, libera disposizione dei tavoli). Nel 1899 l’Eden verrà “raddoppiato” nel suo omologo Teatro Olympia, sempre di Giuseppe Pirovano in piazza Castello, che sarà però il primo teatro sotterraneo, dove la drastica contrazione tipologica risulta funzionale alla massimizzazione dell’investimento immobiliare, secondo un modello ampiamente replicato in seguito (Apollo, 1908, nei portici settentrionali di piazza Duomo; Trianon, 1903, in corso Vittorio Emanuele). Altre novità di questo periodo, tutte nella logica della contrazione tipologica e della redditività commerciale dell’investimento teatrale sia pur perseguita in forme differenziate, sono il Teatro Stabilini concepito come caffè-concerto al piano terra dell’edificio residenziale Reininghaus realizzato nel 1898 da G.S. Locati alla fine di corso Genova; il Politeama Milanese (poi Puccini), 1902, in corso Buenos Aires; il Kursaal Diana, realizzato nel 1908 da Achille Manfredini, sulle aree degli antichi Bagni di Diana del Pizzala, come infrastruttura consolidata del tempo libero, con albergo, ristorante, piscina, sala da ballo gioco della pelota, teatro all’aperto e coperto. Una assoluta alternativa tipologica e ideologica della concezione del teatro è invece, in questi stessi anni di diffusione del teatro d’evasione, il Teatro del Popolo della Società Umanitaria, ricavato nel 1910 in un capannone industriale della ex Tecnomasio Brown Boveri in via della Pace da Luigi e Cesare Mazzocchi: un teatro povero, per duemila persone, rispondente alla più generale strategia di acculturazione popolare come strumento di riscatto sociale perseguita dall’Umanitaria (scuole professionali, biblioteca ambulante, quartieri di edilizia popolare).
Nel ventennio tra le due guerre, a fronte di una serie di ristrutturazioni di sedi storiche, alcune delle quali anche consistenti (il Carcano, il Filodrammatici, e soprattutto la Canobiana, che da fine Ottocento ne subirà addirittura tre progressivamente più radicali, fino ad assumere l’attuale assetto del Teatro Lirico ad opera di Cassi Ramelli), si assiste a una sempre più netta differenziazione tra sistema centrale e sistema periferico. Il sistema centrale è dominato dalla diffusione del nuovo tipo del teatro commerciale con sede sotterranea, con già molti precedenti dall’inizio del secolo e nuove realizzazioni come l’Odeon, 1929, e il Nuovo, in piazza San Babila, 1938; mentre nel sistema periferico la tendenza prevalente è quella della trasformazione dei teatri già esistenti prima in cinema-teatri e poi direttamente in sale cinematografiche, accompagnata da una vasta serie di nuove realizzazioni di cinema-teatri che si possono definire “di quartiere”, corrispondenti alla rapida crescita edilizia di Milano. Tra le trasformazioni di sedi preesistenti in cinema-teatro o direttamente in cinematografo sono da ricordare: Politeama Milanese 1924, Fossati 1924, Politeama Verdi 1924, Stabilini 1925, Dal Verme 1927, Diana 1928, Eden 1932, Carcano 1947; mentre tra le nuove realizzazioni: Nazionale in piazza Piemonte 1924, Principe in viale Bligny 1927, Alcione in piazza Vetra 1928, Impero in via Vitruvio 1937, Plinius in viale Abruzzi 1937, Tonale in via Ponteseveso 1938, Smeraldo e Anteo entrambi in zona Porta Garibaldi ed entrambi del 1938, Orfeo in viale Coni Zugna 1938. Dal punto di vista architettonico, nei cinema-teatri di nuova realizzazione prevale il linguaggio moderno, tipo “Moderne Bauformen” (dal nome della rivista tedesca) con ampio sbalzo della balconata, grande schermo-palcoscenico, caratterizzazione formale di pareti e soffitto; mentre in quelli riadattati da edifici precedenti permane l’impronta teatrale d’origine, con colonnine in ghisa sul ritmo dei palchi, sedili in velluto rosso, spesso il sipario. Rispetto a questa tendenza generale alcuni casi si presentano come anomalie. Da una parte le sale teatrali ospitate nei Gruppi Rionali Fascisti, di cui costituiscono il nucleo tipologico più originale, all’insegna del nuovo ruolo di acculturazione di massa affidato al teatro (anche se in senso ideologicamente opposto al Teatro del Popolo dell’Umanitaria). Dall’altro il Teatro Excelsior, unico nuovo teatro “centrale” realizzato fuori terra, in forme tra Secessione e Novecento, da Livio Cossutti e Ugo Patetta nel 1928 nella manica occidentale della Galleria del Corso; e il Teatro dell’Arte realizzato da Muzio nel Palazzo della Triennale nel 1933, inserito come elemento funzionale importante in un complesso espositivo di arti decorative (in questo rimandando all’esempio parigino del Théâtre de l’Exposition des Arts décoratifs di Perret del 1925).
Il periodo dell’ultimo dopoguerra conferma le tendenze avviatesi nel ventennio tra le due guerre. Nel sistema periferico prosegue la progressiva trasformazione dei cinema-teatri in sale cinematografiche tout court, con conseguente contrazione o totale rimozione dell’apparato scenotecnico, e dove spesso anche le sale cinematografiche adottano il tipo commerciale della sede sotterranea. Semmai nei quartieri periferici si assiste in questo periodo alla rinascita di un teatro impegnato, condotto in forme povere e spontanee in spazi di fortuna, ma con grande determinazione ideologica e culturale. Anche il sistema centrale sembra confermare le tendenze d’anteguerra, tra cui spiccano tuttavia il teatro di via Manzoni, 1950, per la notevole capienza e la forte integrazione ad altre attrezzature per il consumo e il tempo libero, e soprattutto il Sant’Erasmo, 1953, di De Carli e Carminati in via dei Giardini, di piccole dimensioni e sotterraneo ma di grande qualità e dalla originale tipologia a scena centrale. Ma la presenza nuova e fondamentale nel sistema centrale di questo periodo è costituita dal Piccolo Teatro della Città di Milano, realizzato da Rogers e Zanuso nel 1952 in uno stabile di proprietà comunale nella centralissima via Rovello, e configuratosi da subito, secondo le intenzioni di Paolo Grassi, come servizio pubblico, sottratto ai condizionamenti del teatro commerciale e capace di garantire la continuità del repertorio classico della tradizione teatrale, anche grazie alla compresenza di una scuola di arte drammatica e di una biblioteca teatrale, che fanno del Piccolo un’istituzione pubblica, in una linea di lavoro che rimanda alla tradizione del Théâtre National Popoulaire francese di Jean Vilar.
I decenni dopo il 1965 esulano dall’excursus temporale dello studio dedicato da Canella al sistema teatrale milanese, e dunque non vengono considerati in queste note, se non per ricordare come dai primi anni Settanta si è assistito a una fioritura non effimera di iniziative teatrali, di cui forse le più significative sono quelle del Salone Pier Lombardo, fondato nel 1972 da Franco Parenti e Andrée Ruth Shammah con la stretta vicinanza di Giovanni Testori e Dante Isella (recentemente rinominato Teatro Franco Parenti e dotato di una sede rinnovata per opera di Michele De Lucchi), e del Teatro dell’Elfo, fondato nel 1973 da un gruppo di giovani poco più che ventenni, recentemente trasferitosi nella nuova sede dell’ex Teatro Puccini, profondamente ristrutturato per questa nuova destinazione. Una sorte simile ha vissuto il Teatro Dal Verme, che dopo un lungo intervento di restauro e alterne vicende d’uso, è sede, dal 2001, della Fondazione I Pomeriggi Musicali, che nell’edificio profondamente ristrutturato dispone di una sala grande per l’auditorium di 1420 posti, una sala piccola di 200 posti e una sala terrazzo per mostre, conferenze, esposizioni. Ma certamente i casi più significativi di questi ultimi decenni riguardano i due più importanti teatri milanesi: la Scala, per la lirica, e il Piccolo Teatro, per la prosa. Entrambi infatti sono stati protagonisti di profondi interventi di ristrutturazione e di riarticolazione, con modalità ed esiti non tutti parimente convincenti, che hanno portato da un lato alla realizzazione della cosiddetta Scala-bis, poi Teatro degli Arcimboldi, all’interno della vasta operazione urbanistica-immobiliare della Bicocca sulle aree ex Pirelli, di Vittorio Gregotti, dall’altro alla felice ristrutturazione del Fossati in Teatro Studio e alla contemporanea, travagliata edificazione della nuova sede del Piccolo Teatro (ora Teatro Strehler), entrambi di Marco Zanuso, che insieme alla recente ristrutturazione della sede storica di via Rovello (dedicata al nome di Paolo Grassi) hanno impresso un organico consolidamento istituzionale al Piccolo Teatro della Città di Milano. Le schede che accompagnano questo testo, per lo più tratte dallo studio di Guido Canella “Il sistema teatrale a Milano” del 1966, analizzano sinteticamente i casi più significativi che documentano i caratteri originali e i principali momenti di transizione del sistema teatrale milanese, dai capisaldi settecenteschi della Scala e della Canobiana fino agli anni Venti e Trenta del Novecento e ai primi decenni del dopoguerra. Una scheda finale è dedicata a ”I teatri di Guido Canella”, non solo come omaggio all’autore dello studio e alla sua figura di architetto, ma anche perché le realizzazioni “teatrali” di Canella, in una sorta di reciproca chiarificazione, costituiscono la verifica progettuale del suo modo di intendere la funzione del teatro nella città e la sua tipologia.
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Riportiamo il video dedicato all'itinerario realizzato in collaborazione con la piattaforma MemoMi - La memoria di Milano
G. Canella
Dedalo, Bari 1966
G. Canella
in “Nuova Corrente”, n. 39-40, pp.355-367, 1966
G. Canella
in “Ulisse”, n. 65, pp. 9-18, luglio 1969
G. Canella
intervista di G.Morale in “La tribù, a.III, n. 40, pp.1-12, 14 febbraio 1983
G. Canella
in AA.VV., Strutture teatrali dell’800 in Puglia – Province di Bari e Foggia, Assessorato alla cultura della Regione Puglia, Dedalo, Bari, 1987
G. Canella
in C. Quintelli (a cura di), La Città del Teatro, Clup, pp. 233-249, Milano 1989
G. Canella
in “Zodiac”, n.s., n.2, pp. 70-93,settembre 1989
G. Canella
in “Zodiac”, n.s., n.2, pp. 136-153, settembre 1989
G. Canella
in C. Quintelli (a cura di), La Città del Teatro. Per una Scuola di Architettura, Abitare Segesta, pp. 200-205, Milano 1995