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Lo studio BBPR, fondato a Milano nel 1932 da Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, costituisce uno dei primi e più interessanti casi di sodalizio artistico e culturale fondato sul lavoro di gruppo. Questa forma d’intesa operativa si è rivelata un’intuizione fondamentale, che ha permesso di superare la dimensione artigianale dello studio professionale per orientarsi verso una concezione dell’attività dell’architetto basata sull’apporto collegiale come principio metodologico, e capace di affrontare temi sempre più vasti ed eterogenei, dal disegno degli interni alla progettazione paesaggistica. Grazie anche all’impegno culturale dei singoli soci su diversi fronti – la partecipazione ai CIAM e al Movimento di Studi per l’Architettura (MSA), l’insegnamento universitario tra Milano e Venezia, l’attività con le Triennali a partire dal 1933 e la direzione di "Domus" e di "Casabella-Continuità" da parte di Rogers – lo studio diventa, tra gli anni Quaranta e Sessanta, un vero e proprio laboratorio della modernità e un ponte con il dibattito internazionale per la diffusione della cultura progettuale italiana.
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Questa forma d’intesa operativa si è rivelata un’intuizione culturale fondamentale, che ha permesso di superare la dimensione artigianale dello studio professionale per orientarsi verso una concezione dell’attività dell’architetto basata sull’apporto collegiale come principio metodologico. Per i BBPR la collaborazione avveniva nel rispetto di una serie di propositi e di sinergie destinati a garantire la qualità del progetto nel segno della compattezza del gruppo. Questi principî venivano insegnati ai giovani collaboratori ed erano ribaditi pubblicamente: «qualsiasi progetto fatto in quattro è comunque migliore di quello che avrebbe potuto essere prodotto singolarmente da ciascuno, (…) e non riveleremo mai la singola paternità di un’idea, ogni idea è sempre la nostra idea» erano soliti ripetere i membri del gruppo. Unità d’intenti nelle scelte progettuali e nella discussione dei paradigmi culturali hanno accompagnato i BBPR fin dai primi anni della comune formazione universitaria al Politecnico di Milano all’adesione al Razionalismo, dai concorsi degli anni Trenta fino alla maturazione post-bellica che passa, però, attraverso l’iniziale adesione al fascismo, le dolorose esperienze delle Leggi Razziali che colpirono Rogers, la successiva adesione al Partito d’Azione, la drammatica deportazione di Belgiojoso e di Banfi e infine la morte di quest’ultimo, avvenuta il 10 aprile 1945 nel campo di sterminio di Gusen. All’indomani della Liberazione, Belgiojoso (salvatosi dal campo di Mauthausen-Gusen), Peressutti e Rogers (rifugiato in Svizzera dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943) decidono di proseguire l’attività dello studio mantenendo inalterato il nome BBPR e, come primo gesto, assumono un giovane architetto tedesco in nome di una rinnovata conciliazione.
L'organizzazione dello studio era diventata, nel secondo dopoguerra, un modo per dare risposte professionali adeguate alla crescente complessità progettuale, per affrontare temi sempre più vasti ed eterogenei, dal disegno degli interni alla progettazione paesaggistica. Per la prima volta uno studio professionale italiano si organizzava secondo un modello di suddivisione del lavoro affine al modello anglosassone e, quindi, a quello delle attuali società di progettazione.
I progetti venivano concepiti fin dall’inizio attraverso discussioni collegiali, spesso molto accese, che terminavano comunque con l’individuazione di una linea progettuale condivisa. Lo studio aveva diversi tipi di collaboratori: architetti e maestri d’arte incaricati di sviluppare i progetti, geometri e ingegneri addetti ad approfondire gli aspetti tecnici e a seguire i cantieri, oltre ad altri collaboratori più giovani (architetti e geometri) con il ruolo di disegnatori. La carriera all’interno dello studio era basata esclusivamente sul merito e sulle inclinazioni personali dei singoli individui. Anche per questo lo studio BBPR era un punto di riferimento della cultura milanese e italiana e un crocevia fondamentale della carriera dei giovani architetti milanesi.
Grazie anche all’impegno culturale dei singoli soci su diversi fronti – la partecipazione ai CIAM e al Movimento di Studi per l’Architettura (MSA), l’insegnamento universitario tra Milano e Venezia, l’attività con le Triennali a partire dal 1933 e la direzione di “Domus” e di “Casabella-Continuità” da parte di Rogers – lo studio diventa, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, un vero e proprio laboratorio della modernità e un ponte con il dibattito internazionale per la diffusione della cultura progettuale italiana. Di fatto, lo studio era la porta d’ingresso degli architetti e degli intellettuali di passaggio a Milano. Questo respiro culturale interdisciplinare era testimoniato anche dalle frequenti collaborazioni non solo con altri architetti, ma anche con artisti e intellettuali (Lucio Fontana, Max Bill, Alexander Calder, Corrado Cagli, Fausto Melotti, Saul Steinberg, Enzo Paci, Antonio Banfi e molti altri). Anche grazie a questa predisposizione al lavoro di gruppo, già negli anni Trenta i BBPR sono stati tra i primi in Italia a impegnarsi su temi alla scala del territorio, con gruppi di lavoro interdisciplinari: il Piano Regolatore della Valle d’Aosta del 1936, elaborato con Adriano Olivetti, Renato Zveteremich, Italo Lauro, Luigi Figini, Gino Pollini, Piero Bottoni, e il Piano turistico per l’Isola d’Elba del 1939, proposto come loro autonoma iniziativa ed esposto alla VII Triennale di Milano del 1940, e soprattutto, il Piano A.R., con Franco Albini, PIero Bottoni, Ezio Cerutti, Ignazio Gardella, Gabriele Mucchi, Giancarlo Palanti, Mario Pucci e Aldo Putelli, iniziato nel gennaio del 1943 sotto i bombardamenti e presentato al Concorso per il Piano Regolatore di Milano del 1945.
Negli anni Cinquanta i BBPR avviarono una profonda riflessione sul rinnovamento dell’architettura moderna in rapporto al contesto, alla storia e alla tradizione. In quest’ottica, la teoria delle preesistenze ambientali promossa da Rogers sulle pagine di “Casabella- Continuità” proponeva di affrontare la progettazione in relazione ad una nuova nozione di ambiente, tentando di rappresentare empiricamente nel linguaggio architettonico alcuni caratteri significativi dei luoghi, recuperandone gli aspetti materici, di colore e d’immagine. L’edificio-simbolo che esprime i risultati di questa teoria è sicuramente la Torre Velasca, terminata a Milano nel 1958 dopo una vicenda progettuale e di cantiere durata quasi dieci anni. Sul progetto e sulla realizzazione della Velasca, nonché sul dibattito che si è scatenato intorno ad essa, si è formata un’intera generazione di progettisti. Rispetto al tema del curtain- wall tipico dell’International Style i BBPR propongono nella Velasca – e in molti altri progetti – un principio di tamponamento che, in senso perretiano, affianca alla struttura portante lasciata in evidenza una serie di pannellature prefabbricate opache alternate a pannelli finestrati.
Con il restauro e l’allestimento del Castello Sforzesco, condotto tra il 1956 e il 1963 insieme al curatore delle raccolte d’arte Costantino Baroni, i BBPR danno il loro contributo alla grande stagione museale italiana, nel segno di una carica fortemente espressiva e simbolica che gioca sull’allusione al passato attraverso gli occhi della modernità. Il culmine di questo allestimento è la sala finale dove, al termine di un percorso processuale, si giunge alla Pietà Rondanini, l’ultima opera di Michelangelo, contornata da una quinta avvolgente in pietra serena e appoggiata, alla maniera del Cinquecento, su una stele votiva di epoca romana. In questo caso, e nella loro opera in generale, sarebbe vano ricercare un gusto per il dettaglio raffinato, per la delicatezza, per l’armonia o la leggerezza, come in altri maestri italiani a loro contemporanei. La storia artistica dei BBPR si sviluppa invece attraverso una ricerca formale all’insegna della gravità, ossia dell’esasperazione della trasmissione al suolo dei carichi, mediante una sorta di sovradimensionamento vigoroso delle membrature architettoniche e degli elementi che entrano in contatto fisico con l’uomo (corrimano, scalini, maniglie, parapetti, ecc.). Questa “ipertrofia formalista”, che a volte sconfina in una premonizione di brutalismo, ha segnato in modo particolare la loro opera milanese, dalla già citata Velasca fino ai più tardi interventi degli anni Sessanta in piazza Meda e in corso Vittorio Emanuele, con l’unica significativa eccezione del leggero, immateriale e poetico traliccio metallico del Monumento in ricordo dei caduti nei campi di concentramento in Germania, al Cimitero Monumentale del 1946.
A partire dalla metà degli anni Sessanta, gli spostamenti di baricentro della cultura architettonica e urbanistica verso la dimensione urbana e territoriale e verso esperienze che mettono in crisi i tradizionali valori della disciplina architettonica, fanno progressivamente perdere ai maestri della scuola milanese di prima generazione il loro ruolo primario di punti di riferimento nel dibattito. Dopo la morte di Ernesto N. Rogers, avvenuta nel 1969, l’impegno progettuale dei BBPR e di altri protagonisti milanesi si chiude all’interno delle singole esperienze professionali. Inizia a manifestarsi proprio in questo periodo, inoltre, una sorta d’inattualità di un’intera generazione di progettisti nei confronti della dimensione metropolitana dei fenomeni insediativi. Non a caso, le prove più alte in ambito milanese degli stessi BBPR – ma anche di altri loro contemporanei – avvengono quasi tutte nella città consolidata, mentre nelle aree esterne si registrano alcune indubbie flessioni, come nel caso, ad esempio, del Quartiere Gratosoglio realizzato per lo IACP di Milano tra il 1963 e il 1967 lungo via dei Missaglia.
Ed è proprio su questi temi che si potrebbe aprire un capitolo di ricerca su questa generazione di progettisti, delicato e finora poco esplorato: il confronto tra una parte della loro produzione d’indubbia qualità – rappresentata da preziosi “frammenti irripetibili” incastonati nei centri storici – e un’altra parte della loro opera che si mantiene su un tono decisamente minore, che è meno pubblicizzata ma che è comunque importante, proprio perché risente di un più problematico rapporto con la committenza e di un indubbio disagio dovuto alla necessità di confrontarsi con un territorio e con delle condizioni di lavoro ormai irrimediabilmente coinvolte dal boom edilizio di massa.
G. L. Banfi, L. Barbiano di Belgiojoso, E. Peressutti, E. N. Rogers
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G. Ponti
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E. N. Rogers
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E. Bonfanti, M. Porta
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C. De Seta (a cura di)
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E. N. Rogers
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L. Ferrario, D. Pastore (a cura di)
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S. Maffioletti (a cura di)
Zanichelli, Bologna 1994
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E. López Reus
Christian Marinotti Edizioni, Milano 2009
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Skira, Milano 2013