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Franco Albini (1905-1977) è stato un architetto e designer italiano. La sua attività può essere interpretata come documento di una generazione di architetti, che ha traghettato la cultura e la prassi disciplinare dell’architettura moderna italiana attraverso il conflitto mondiale, cercando di attualizzarla e trasmetterla sia con le opere, sia mediante l’insegnamento. Cionondimeno conserva alcuni crismi originali e peculiari, ascrivibili a una poetica personale, che accomuna settori apparentemente distanti della pratica professionale. La fortuna critica di Albini, oltre che giustificata dalla qualità di alcune architetture e dei numerosi allestimenti, è infatti indissolubile da una biografia culturale e professionale comune a un gruppo ristretto di architetti, suoi coetanei e talvolta sodali, che hanno contribuito alla costituzione di una identità dell’architettura italiana tra gli anni Venti e gli anni Settanta del XX secolo.
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La fortuna critica di Albini, oltre che giustificata dalla qualità di alcune architetture e dei numerosi allestimenti, è infatti indissolubile da una biografia culturale e professionale comune a un gruppo ristretto di architetti, suoi coetanei e talvolta sodali, che hanno contribuito alla costituzione di una identità dell’architettura italiana tra gli anni Venti e gli anni Settanta del XX secolo (2). Un gruppo eterogeneo negli esiti disciplinari e nelle poetiche, ma i cui membri sovente condivisero alcuni caratteri fondamentali, talora destinati a permanere nella generazione successiva: raccolsero l’eredità familiare di architetti o ingegneri impegnati nel settore edilizio; ricevettero una formazione politecnica; parteciparono all’ampio dibattito culturale condotto sulle principali riviste nazionali di architettura; furono docenti universitari, senza rinunciare all’attività professionale privata. Questa comunanza, che raccoglie molteplici forme di identità, da quella professionale e sociale tramandata dai padri, a quella culturale sperimentata nella pubblicistica, omogeneizza almeno in parte l’esperienza dei singoli, esemplare di una stagione segnata ai suoi esordi tanto dalla parabola politica e culturale del fascismo, quanto dalla cultura artistica europea del primo dopoguerra. In seguito, dopo la seconda guerra mondiale e almeno fino allo scadere degli anni Sessanta, alcuni temi, metodi e tecniche già sperimentati durante il ventennio trovano compimento e sviluppo grazie alla continuità delle ricerche personali e collettive di quel gruppo di architetti, radicate peraltro nelle condizioni tecnologiche e organizzative peculiari del cantiere edilizio italiano, stabili da prima della guerra almeno fino agli anni Settanta (3).
La perdita inevitabile dei numerosi allestimenti – riconosciuti come l’esito più autorevole e convincente della poetica dell’architetto - e la discutibile distruzione o alterazione di numerose opere circoscrivono un ipotetico itinerario urbano milanese alla visita dei quartieri per abitazioni popolari, che sebbene progettati con altri architetti, occupano una parte rilevante della ricerca di Albini e svelano in filigrana un metodo di lavoro sperimentato alle diverse scale della progettazione. Una fotografia scattata nel 1953 alla “Mostra di arte contemporanea, arte decorativa e architettura italiana” di Helsinki, ritrae l’architetto sedotto dalla superficie levigata e dalla trasparenza di un vaso di cristallo. L’immagine, che probabilmente asseconda una precisa volontà di rappresentazione, sembra illustrare il rapporto tattile, empatico attraverso il quale Albini sapeva scandagliare le proprietà fisiche, le intrinseche attitudini d’uso, le qualità estetiche dei materiali. Una abilità che, trasfigurata e ridotta a innata sensibilità da una mitografia albiniana sorta fra gli addetti ai lavori, è stata costruita e raffinata ben più faticosamente, durante un solido apprendistato giovanile. Nella Milano degli anni Venti la formazione offerta dal Politecnico di Milano garantiva infatti una buona preparazione tecnico-scientifica e un’ampia dotazione di modelli architettonici tradizionali, alla quale tuttavia si affiancava la non trascurabile apertura verso la cultura europea, sia tecnica che artistica, veicolata principalmente dalle riviste, dai viaggi e dal magistero di architetti formati all’estero. Il vivaio professionale milanese era dunque tutt’altro che statico e Albini, insieme a Giancarlo Palanti, trovò in Piero Portaluppi e, soprattutto, in Gio Ponti, maestri aperti alla sperimentazione di nuovi linguaggi (4). Così matura l’attitudine artigianale al progetto di arredi e manufatti decorativi, che nella prima parte della sua attività si allinea al gusto raffinato di Ponti. Ma alla preziosità dei primi oggetti, alla cura dei materiali e all’ambizione di sovrintendere ad ogni aspetto del corredo della vita domestica della borghesia milanese, che Ponti avrebbe voluto educata ad un nuovo gusto, Albini presto affiancò una singolare abilità nello studio degli incastri e degli snodi di mobili, tavolini, oggetti decorativi. Queste attitudini sembrano condensate dalla inflessibile logica costruttiva e dalla stringente semplificazione geometrica della tomba Giampiccoli, opera di poco precedente l’impegno nei concorsi pubblici banditi a Milano, che furono per Albini pressoché l’unica occasione di costruire al di fuori del poetico e ovattato mondo degli allestimenti (5).
Tra il 1933 e il 1940 infatti realizzò una serie di mostre temporanee leggibili come il progressivo affinamento di un linguaggio rarefatto e non monumentale, ispirato al magistero di Edoardo Persico, ma sempre più personale e volto, secondo le parole dello stesso architetto, a “dare valore all’ambiente come potente elemento di suggestione sul visitatore. [...] L’atmosfera non deve essere ferma, stagnante, ma vibrare, e il pubblico vi si deve trovare immerso e stimolato, senza che se ne accorga” (6). Così le mostre degli anni Trenta e Quaranta e in seguito i musei permanenti genovesi celano, sotto l’apparente povertà dell’allestimento, una articolata sequenza metrica e prospettica che aggancia gli oggetti esposti alle coordinate essenziali dei volumi interni, guidando silenziosamente la logica percettiva e i movimenti dell’osservatore. Nonostante la centralità dei progetti per mostre, musei e appartamenti borghesi, spesso intesi come garbato allestimento dei riti domestici, il progetto della casa popolare è sin dagli esordi al centro dell’attività di Albini, che poco più che trentenne con Renato Camus e Giancarlo Palanti partecipa ai bandi di concorso dell’Istituto Fascista Case Popolari di Milano. La bibliografia concorda sul carattere fortemente innovativo dell’impostazione urbana del quartiere Fabio Filzi (1935-1938), il primo realizzato, e dei quartieri Ettore Ponti (1938-1941) e Gabriele D’Annunzio, ora S. Siro (1938-1941). Ma se da un lato, proponendo uno schema planimetrico composto da stecche multipiano parallele e almeno in parte svincolate dai tracciati viari e orientate secondo l’asse eliotermico, gli architetti aderiscono a modelli di insediamento urbano d’avanguardia, dall’altro, nell’approntare la disposizione interna degli spazi domestici, sembrano piuttosto rielaborare i più recenti modelli distributivi della casa popolare milanese. Intessendo una sintesi esemplare fra le teorie urbanistiche centro europee e le sperimentazioni tipologiche italiane, Albini, Camus e Palanti sviluppano e perfezionano un sistema di distribuzione e accorpamento dei servizi del singolo alloggio che è possibile far risalire alle case progettate da Giovanni Broglio e da Enrico Agostino Griffini all’inizio del Novecento (7). In modo del tutto simile a quanto accadde per il quartiere Solari, progettato da Broglio per la Società Umanitaria, e ammirato dai visitatori dell’Esposizione Internazionale del Sempione del 1906, l’appartamento tipo di viale Argonne fu ricostruito in scala reale alla mostra dell’abitazione della VI Triennale del 1936 ancor prima che il cantiere fosse ultimato (8). Le soluzioni tipologiche dei due quartieri, come quelle di diversi altri dei due architetti, sono accomunate da una contiguità spaziale tra loggia, aperta sul soggiorno, bagno – spesso un semplice servizio – e una piccola cucina. Fra le principali differenze la loggia, che nelle proposte di Broglio movimenta i prospetti, in Albini è completamente scavata nel volume del blocco per rispettare la stereometria dell’involucro edilizio, infranta soltanto dalle colonne verticali delle scale. Lo studio della migliore combinazione planimetrica della cucina, del bagno e della loggia – che nel quartiere Fabio Filzi sono articolati a L attorno all’ambiente di soggiorno in modo da incorporare gli impianti verticali nelle pareti perimetrali del vano scale – accomuna, al di là delle differenze tipologiche e di occupazione del lotto, e ben oltre l’affinità formale del linguaggio delle facciate, gli alloggi popolari progettati per la FAM Vanzetti (1944), il progetto dei quartieri D’Annunzio e Ettore Ponti (9).
Nel dopoguerra persino la deroga alla stereometria e la frammentazione dell’involucro dell’edificio dei progetti più raffinati sono interpretabili come ulteriore variazione e disarticolazione del nucleo tecnico precisato nei progetti prebellici, piuttosto che come esito di considerazioni linguistiche o ambientali. Nelle piante del quartiere Mangiagalli (1950-1952 con I. Gardella), come delle case Incis a Vialba (1950-1953), o nella casa di Colognola (Bergamo, 1954-1956 con F. Helg) l’espulsione dei corpi scala e l’andamento sincopato e spezzato delle facciate sono leggibili come risultato estremo della distinzione tra aree di soggiorno diurno e notturno, che mantengono una disposizione più regolare, e aree dei servizi, conformate dalla scissione e dalla rotazione del gruppo loggia-cucina-bagno-vano scala. Una logica distributiva analoga, che dispone a L attorno alla scala interna il soggiorno e la cucina con le relative logge, è rintracciabile, allitterata e applicata a una diversa tipologia, nelle schiere a due piani del quartiere Ina-Casa di Cesate (1951-1954) (10). Un metodo, quello dell’articolazione di parti funzionali ben distinte in un unicum più o meno armonico, analogo a quello impiegato nel progetto degli arredi e degli allestimenti, dove la configurazione generale dell’oggetto presuppone per Albini il controllo della tecnica esecutiva e delle modalità di assemblaggio dei singoli pezzi. Ma anche uno schema analitico praticato dai migliori progettisti della generazione di Albini e condiviso soprattutto con Ignazio Gardella: il confronto fra gli spazi domestici dei due architetti evidenzia infatti come l’alterazione dei rapporti interni fra i locali di servizio e gli ambienti di soggiorno fosse per entrambi all’origine del rinnovo dell’aspetto esterno dell’edificio.
Se dunque l’opera di Albini manifesta “una evidente inclinazione per il disegno di ambienti interni” negli esiti migliori le sue case popolari sembrano suggerire come questa inclinazione fosse tutt’altro che circoscritta all’ambito degli allestimenti, o confinata nei limiti del progetto di arredo, ma costituisse il motore stesso di una originale rivisitazione tipologica (11). Soprattutto in un primo periodo il metodo di lavoro di Albini, concentrato sull’oggetto edilizio e scrupolosamente dipanato dal nodo meccanico dell’arredo sino all’armonizzazione dei volumi interni di un appartamento, si coniugava anche con una visione urbana generale, secondo la quale gli episodi realizzati sembravano “volersi proporre come modulo ripetibile di una città alternativa” (12). Albini era infatti fra gli ideatori del Piano “Milano Verde” nel 1938, del progetto di “Quattro città satelliti alla periferia di Milano” nel 1940 e del piano “A.R.” del 1945, tutti ascrivibili al tentativo di prefigurare uno sviluppo della città antitetico alla prassi tradizionale di espansione urbana, sia dal punto di vista tipologico e morfologico, sia per il ruolo affidato all’intervento pubblico rispetto alla speculazione fondiaria (13). Nell’ultima fase della sua attività, condivisa con Franca Helg a partire dal 1952, con Antonio Piva dal 1962 e con Marco Albini dal 1965, le opere dell’architetto mantengono e talora amplificano la logica sequenza di montaggio di singoli componenti, frutto ognuno di un disegno accurato, di precise necessità tecniche e spesso realizzato con tecnologie innovative, ma solo in alcuni episodi raggiungono la cristallina eloquenza delle opere precedenti (14).
È il caso del greve insediamento per uffici in zona Madre di Dio a Genova (1972-1979), mentre più felice appare il complesso per uffici Snam (1969-1974) a San Donato Milanese, dove l’iperbolica modanatura realizzata con innovativi materiali plastici colorati di rosso-arancio e tuttavia allusiva alla tradizione classica ingloba e distribuisce sulle facciate gli impianti di condizionamento dell’edificio. I risultati più seducenti, tra i quali spicca l’edificio della Rinascente a Roma (1957-1961), sono viceversa quelli in cui la fabbrica, cesellata e curata come un pezzo unico non riproducibile, conserva una dimensione di eccezionalità e dove l’inesorabile logica del teorema costruttivo è mitigata dalla deroga espressiva (15). A Milano, seppur tradito nei caratteri più distintivi dalle recenti modifiche, il disegno dell’interno della Metropolitana Milanese (1962-1969), ancora oggi testimonia la tenacia e la passione del ragionamento sull’uso e sulla funzione in rapporto alla forma dell’oggetto, che muoveva Albini nel concepire il progetto d’interni. Nelle stazioni e nei mezzanini della metropolitana il procedimento di disarticolazione del programma assegnato è spinto sino a individuare i nuclei minimi costitutivi, poi ricomposti in un quadro unitario, declamato con rara chiarezza: illuminazione, indicazioni, tinte, forme degli arredi fissi, tutto è studiato riducendo agli elementi essenziali lo spazio lineare delle stazioni, secondo uno schema che privilegia i flussi e le direzioni. In conclusione e specialmente rispetto alle recenti modifiche apportate alla metropolitana non è forse retorico chiedersi che rapporto intercorra tra la vocazione all’essenzialità di Albini e l’attuale moltiplicazione delle funzioni e degli usi delle infrastrutture urbane, sottoposte all’intervento di attori del progetto edilizio e della filiera produttiva sempre più numerosi e specializzati.
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(1) La prima monografia dedicata all’architetto era suddivisa in settori - architettura, design e residenza popolare - avvalorando una distinzione riproposta dalle più recenti monografie: F. Helg, Nota introduttiva, in Franco Albini. Architettura e design, catalogo della mostra (Milano 1979), Centro Di, Firenze 1979, p. 11.
(2) L’attenzione della pubblicistica specializzata per l’opera di Franco Albini (Robbiate 1905, Milano 1977) risale agli anni Trenta e prosegue sino agli anni Novanta, per trovare un’occasione di sintesi e revisione in concomitanza con il centenario dalla nascita dell’architetto. Cfr. F. Bucci, Franco Albini, Electa, Milano 2009; G. Bosoni e F. Bucci, Il design e gli interni di Franco Albini, Electa, Milano 2009; Zero Gravity. Franco Albini. Costruire le modernità, a cura di F. Bucci e F. Irace, catalogo della mostra (Milano 2006), Triennale Electa, Milano 2006; I musei e gli allestimenti di Franco Albini, a cura di F. Bucci e A. Rossari, Electa, Milano 2005.
(3) Sul legame tra teorie dell’architettura e storia materiale del cantiere cfr.: S. Poretti, Modernismi italiani. Architettura e costruzione nel Novecento, Gangemi, Roma 2008.
(4) Piero Portaluppi era professore incaricato dei corsi di Architettura Pratica negli anni in cui Albini frequentò il Politecnico.
(5) Albini realizza numerosi allestimenti per la Triennale di Milano, per la Fiera Campionaria di Milano e per altre occasioni espositive. Basti qui ricordare: la sala dell’aerodinamica alla Mostra dell’Aeronautica Italiana del 1934, il padiglione INA alla Fiera Campionaria di Milano del 1935, la Mostra dell’antica oreficeria italiana (con Giovanni Romano) e la stanza per un uomo alla VI Triennale del 1936; la stanza di soggiorno in una villa alla VII Triennale del 1940, l’arredo del proprio appartamento in via De Togni a Milano, pubblicato da Domus nel 1940.
(6) F. Albini, Le mie esperienze di architetto nelle esposizioni in Italia e all’estero, prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 1954-55 dello I.U.A.V, Venezia, oggi in Zero Gravity. Franco Albini. Costruire le modernità, cit., pp. 75-77.
(7) Cfr.: O. Selvafolta, “100.000 locali di abitazione”: profilo biografico di Giovanni Broglio architetto delle case popolari, in La casa popolare in Lombardia 1903-2003, a cura di R. Pugliese, Unicopli, Milano 2005, pp. 41-45; M. Savorra, Enrico Agostino Griffini, Electa, Napoli 2000.
(8) O. Selvafolta, “100.000 locali di abitazione”: profilo biografico di Giovanni Broglio architetto delle case popolari, cit., p. 45, nota 12.
(9) Nonostante le soluzioni simili in progetti di diversi architetti e il rigido programma imposto dall’IFACP, la ricorrenza degli schemi distributivi degli alloggi di Albini è stata individuata fra i primi da: B. Garzena, G. Salvestrini, Edilizia popolare, composizione urbana e residenza collettiva, in Franco Albini. Architettura e design, cit. pp. 46-65, ridotto e con bibliografia aggiornata in: B. Garzena, G. Salvestrini, Franco Albini e l’edilizia popolare: le prime esperienze, in La casa popolare in Lombardia 1903-2003, cit., pp. 78-81.
(10) R. Dulio, Ville in Italia dal 1945, Electa, Milano 2008, pp. 5-25.
(11) A. Belluzzi, L’architettura senza licenze di Franco Albini, in Casabella, n. 659, settembre 1998, pp. 87-88.
(12) M. Baffa, La casa e la città razionalista, in Zero Gravity. Franco Albini. Costruire le modernità, cit., p. 29.
(13) I tre piani sono redatti rispettivamente con: I. Gardella, G. Minoletti, G. Pagano, G. Palanti, G. Predaval e G. Romano; P. Bottoni, R. Camus, E. Cerutti, F. Fabbri, C. e M. Mazzocchi, G. Minoletti, G. Palanti, M. Pucci, A. Putelli; L. Belgiojoso, P. Bottoni, E. Cerutti, I. Gardella, G. Mucchi, G. Palanti, E. Peressutti, M. Pucci, A. Putelli, E. N. Rogers. Anche la casa Pestarini è stata interpretata come il prototipo edilizio ripetibile in un quadro più ampio, come “frammento di un edificio lineare da inserire nel progetto di Milano Verde” (F. Bucci, Franco Albini, cit., p. 17).
(14) È stato osservato che le architetture di Albini, a differenza degli allestimenti e degli arredi, esprimono “[...] una professionalità impeccabile, senza passi falsi, ma anche senza punte qualitative particolarmente elevate” (A. Belluzzi, L’architettura senza licenze di Franco Albini, cit.).
(15) Nell’edificio della Rinascente la struttura metallica esterna si rivela un felice apparato espressivo, svolgendo solo in parte funzioni portanti, affidate a un nocciolo centrale celato all’interno dell’edificio. Cfr.: C. Conforti, Franco Albini: architetture di utilità, in Zero Gravity. Franco Albini. Costruire le modernità, cit., pp. 165-183.
AA. VV.
Centro Di, Firenze 1979
M. Grandi, A. Pracchi
Zanichelli, Bologna 1980
M. Boriani, C. Morandi, A. Rossari
Designers Riuniti Editori, Torino 1986
S. Leet
Princeton Architectural Press, New York 1990
F. Rossi Prodi
Officina, Roma 1996
A. Piva, V. Prina
Electa, Milano 1998
F. Bucci, A. Rossari (a cura di)
Milano, Electa 2005
F. Bucci, F. Irace (a cura di)
catalogo della mostra (Milano 2006) Triennale Electa, Milano 2006
G. Bosoni, F. Bucci
Electa, Milano 2009