Caricamento...

Arte e architettura

temi

A cura di Claudio Camponogara Elisabetta Dulbecco

“Fra gli intenti che si posero gli architetti negli anni che seguirono la fine della guerra, i quali coincisero con la ripresa dell’attività edilizia, vi fu quello di riesaminare (con il celato proposito di confutarla) la nota intransigenza del funzionalismo più rigido contro la decorazione in architettura”. Così l’architetto Carlo Perogalli iniziava la propria relazione al Convegno su architettura e arti visive tenutosi a Roma nel marzo del 1958. La relazione continuava mettendo in luce come questo dibattito avesse il proprio centro a Milano, dove era stato fondato il “Movimento per l’Arte Concreta” (MAC), inizialmente nato come gruppo pittorico, al quale in seguito aderirono anche architetti e scultori. Questo breve itinerario ha lo scopo di mostrare da una parte alcune collaborazioni tra architetti e pittori o scultori, dove l’architetto “regala” la facciata all’artista, dall’altra la realizzazione di edifici in cui la struttura stessa costituisce una forma artistica.

(Materiale protetto da copyright, vietata la riproduzione)

La prima metà del XX secolo vede, in Europa, accanto alla nascita in ambito scientifico di una nuova idea di spazio, anche la diffusione di una nuova tensione culturale in ambito artistico e architettonico, che sia in grado di raccogliere e fondere assieme le diverse forme di espressione artistica: uno spazio dove le arti non siano più soltanto accostate e accostabili, ma compenetrate e coesistenti, in una sintesi concreta. Si pensa a uno spazio pluridimensionale (o almeno reso tale dalla percezione dello sguardo umano), e pertanto a priori indicibile, come appare nei desideri e nei sogni di uno dei maestri del Novecento, Le Corbusier.

Fra gli intenti che si posero gli architetti negli anni che seguirono la .ne della guerra, i quali coincisero con la ripresa dell’attività edilizia, vi fu quello di riesaminare (con celato proposito di confutarla) la nota intransigenza del funzionalismo più rigido contro la decorazione in architettura. A taluni architetti sembrò infatti che la decorazione non fosse proprio, o non fosse affatto, quel delitto di cui s’era detto”.

 

Carlo Perogalli

 

 

Così inizia la relazione tenuta da Carlo Perogalli al convegno sull’Architettura e le Arti visive, tenutosi a Roma la sera del 22 marzo 1958. Perogalli afferma che il centro di tale dibattito era Milano città in cui si tenevano riunioni, conferenze, nascevano associazioni, riviste ed esposizioni che avevano posto all’ordine del giorno il tema della “sintesi delle arti”; città, inoltre, che rappresentava il luogo dove maggiori erano state le realizzazioni. “Anche se c’è da sospettare che quanto .no ad ora conseguito in questa direzione possa rappresentare soltanto una serie di esperimenti, i quali abbiano i difetti ai quali sempre essi si accompagnano, seppure unitamente al fascino che pure ne costituisce una innegabile prerogativa”.

Due sono le vie seguite: la prima pre.gura una collaborazione tra architetto e pittore o scultore, in altre parole il progettista “regala” all’artista le facciate che da lui vengono decorate, la seconda vede l’architetto impegnato nella ricerca di composizioni più rigorose, nel tentativo di trasformare il manufatto architettonico in scultura.
E’ opportuno osservare il carattere di originalità di questo fenomeno sia nell’attuazione pratica sia come progetto culturale, questa originalità è espressa in quegli anni solo dal Movimento Arte Concreta, MAC. Questo movimento, nato inizialmente come gruppo esclusivamente pittorico (Dor.es, Monnet, Munari Soldati), successivamente si apriva ad altre forme artistiche l’architettura (Mariani, Menghi, Paccagnini, Perogalli, Ravegnani, Tito Varisco, Vigano, Zanuso) si faceva portatore di una potente istanza di rinnovamento in grado di superare il monopolio creato dal razionalismo-funzionalismo in vista di un modo nuovo e più dialettico di intendere la progettazione.
Milano diventa così, per un breve arco di tempo (dal 1948 al 1958), per gli architetti e artisti la città dove poter sperimentare una nuova concezione dei rapporti fra le arti.

 

Claudio Camponogara
Elisabetta Dulbecco

Nello scritto intitolato, appunto “Lo spazio indicibile”, apparso nel 1948 sulla rivista americana “New World of space” egli poneva all’attenzione degli architetti e degli artisti in generale la necessità di mettere a tema una riflessione sulla capacità che ciascuna delle arti aveva di modificare e di controllare lo spazio: “ciò che intendo sostenere – scrive – è che la chiave delle emozioni estetiche è una funzione spaziale”. La sua analisi ripercorre poi sinteticamente la storia degli ultimi cent’anni di arte e architettura, in cui le varie discipline hanno preso ciascuna una strada divergente, che ha impedito la ricostituzione di quella visione unitaria, di quella sintesi appunto, che invece ne aveva caratterizzato il passato. La necessità era allora quella di una sperimentazione, che lo stesso Le Corbusier riconosceva nel proprio lavoro di laboratorio. La possibilità della sintesi: “spalanca allora un’immensa profondità che cancella i muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miracolo dello spazio indicibile. Ignoro i miracoli della fede, ma vivo spesso quello dello spazio indicibile, il compimento dell’emozione plastica… lo scorrere del tempo e l’evoluzione degli eventi portano architettura, scultura e pittura inevitabilmente verso una sintesi” (1). Ne segue una ridefinizione delle competenze dell’architetto, che, oltre a essere un disegnatore e un costruttore impeccabile, deve conoscere e amare appassionatamente le arti.

 Questo sogno lecorbusieriano aveva iniziato a prendere corpo a Milano già nel 1933 quando la Quinta Triennale, la prima dopo il trasferimento da Monza, aveva posto come tema “Stile e civiltà – unità delle arti”. In questa occasione i pittori più d’avanguardia, che condividevano la visione degli architetti razionalisti, si misero all’opera e usarono le ampie pareti interne del Palazzo dell’Arte per operare una trasformazione percettiva degli spazi, attraverso la creazione di grandi pitture murali e mosaici, che riportassero in vita l’uso pubblico dell’espressività classica: la sala delle cerimonie venne dipinta da Sironi, Campigli, Funi, De Chirico e Severini, mentre altri spazi accolsero opere di Carrà, Savinio, Mucchi, Cagli e De Grada. Assieme ai pittori vennero chiamati alla decorazione del Palazzo dell’Arte anche importanti scultori: due grandi bassorilievi di Arturo Martini e Marino Marini composero la parete dello scalone, mentre i bassorilievi di Felice Casorati aprivano la Galleria dell’Architettura. D’altra parte, sempre nella stessa occasione, accadde che gli architetti Figini e Pollini prevedessero già, all’atto della progettazione della villa studio per un artista, l’inserimento di opere scultoree e pittoriche di Melotti, Fontana  e Dal Bon. Negli anni Quaranta il desiderio di rimettere assieme opere di artisti e di architetti è rintracciabile nei molti edifici pubblici che sorsero sempre a Milano, dove tuttavia fu predominante il tema della monumentalità, in ossequio ai dettami del regime. La guerra impose poi una stasi a tale dibattito e a tutta l’attività costruttiva e artistica in generale, ma al termine del conflitto la concreta necessità della ricostruzione, unita a un forte desiderio di cambiamento e di innovazione, fecero riemergere le problematiche, riattivarono con carattere di urgenza l’interesse al dibattito sulla città, che nel frattempo aveva acquisito anche nuove voci. Tuttavia in quegli anni in Italia non si parlava soltanto di ricostruzione edilizia, si voleva anche riprendere a produrre, a commerciare e ci si voleva spingere alla conquista di mercati oltre i confini. Accanto alla consapevolezza della storica povertà di materie prime, si faceva strada quella della valorizzazione della capacità, anch’essa storica, di mettere assieme buon gusto e utilità, eleganza e praticità. Si intravvedevano così le carte vincenti per affrontare la sfida europea della rinascita economica.

Questo quadro avviò un altro significativo momento di sintesi che vide artisti, architetti e design offrirsi al mondo della produzione industriale nell’intento di creare oggetti appunto funzionali e belli, di quella bellezza che nasceva certamente dalla funzionalità, ma anche dall’attenzione con cui si poteva modellare la materia, realizzare la forma, scegliere il colore. Sono gli anni in cui Joe Colombo, Roberto Menghi, Bruno Munari e lo studio B 24 (Bobi Brunori, Gigi Radice e Mario Ravegnani) sono impegnati nella realizzazione di arredamenti, mobili e complementi d’arredo. Già nel 1949, assieme ad altre aziende del settore, nasce la Kartell che utilizza un inaspettato materiale d’arredo, la plastica. La trasformazione sociale, culturale ed economica che sta travolgendo il mondo non può risparmiare l’arte né gli artisti, la creatività guarda al mondo della produzione, si mescolano così gli statuti, i linguaggi e le poetiche delle arti, che si contaminano tra di loro, attingono al mondo dell’industria e dei nuovi materiali. L’industria stessa però attinge a sua volta alla creatività e si instaura così un legame fecondo tra questi due mondi. Gli artisti tuttavia non rinunciano all’essenza del proprio lavoro, alla riflessione su che cos’è il mondo dentro e fuori la mente e il cuore umano. Nasce così l’arte che Dorfles, teorico del gruppo, definisce arte concreta: arte cioè “basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo…”(2). L’architetto Carlo Perogalli discutendo d’arte osserva: “…oggi non è possibile limitarsi ai quadri e alle sculture, cioè all’arte cosiddetta pura… la pittura dovrebbe invece indirizzarsi non verso il pezzo unico fine a se stesso, come fu in passato, ma piuttosto verso un originale già concepito perché debba essere riprodotto. Le conquiste tecniche di alcuni recenti e perfetti sistemi di riproduzione meccanica offrono delle possibilità grandissime in questo senso” (3). Nel prosieguo della sua analisi l’architetto ritrova nelle correnti artistiche dal Cubismo all’Arte Concreta, il passaggio dall’opera d’arte fine a se stessa all’oggetto. A seguito di questo dialogo si è giunti a un vero e proprio scambio di forme fra il mondo delle arti e quello della macchine e degli oggetti prodotti dall’industria. Anche Bruno Munari nel ‘Manifesto del Macchinismo’, nel 1952 affermava: “Gli artisti devono interessarsi delle macchine, abbandonare i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio; devono cominciare a conoscere l’anatomia meccanica, il linguaggio meccanico, capire la natura delle macchine, non più colori a olio, ma fiamma ossidrica, reagenti chimici, cromature, ruggine, colorazioni anodiche, alterazioni termiche, non più tela e telaio, ma metalli, materie plastiche, gomme e resine sintetiche”(4).

L’interesse nei confronti della produzione industriale e del design è evidenziato dall’organizzazione di ben due mostre, durante il 1952, che si tengono nella Saletta dell’elicottero della Galleria dell’Annunciata, in via Fatebenefratelli, la prima, a gennaio sul tema “Materie plastiche in forme concrete” dove vengono esposte opere in rhodoit, sicofoil, plexiglass, laminati plastici realizzate da Casarotti, Dorfles, Donzelli, Fontana, Garau, Mazzon, Monnet, Munari e altri; nel marzo dello stesso anno si apriva la seconda mostra intitolata: “Studi per forme concrete nell’industria motociclistica” in cui scultori pittori e architetti (Viganò, Munari Dorfles, Monnet e Iliprandi) cercano di dare forme nuove a un oggetto che stava in quel momento diventando di massa e che attirava l’attenzione di grandi industrie del settore: la motocicletta. Infine vogliamo ricordare che nello stesso anno, in edizione della trentesima edizione della Fiera Campionaria, Mario Revelli, Attilio Mariani, Carlo Perogalli, Alberto Rosselli, Ettore Sottsass jr., Albe Steiner e Marco Zanuso organizzano la mostra: “Arte ed estetica industriale” il cui fine era di mostrare i primi risultati del connubio arte e industria. Tutte le arti tendevano quindi in questo momento storico alla sintesi; per quanto riguarda l’architettura, in particolare, era ovvio che all’esigenza di carattere ideale, e in qualche misura etica, del raggiungimento di quello spazio indicibile, crogiolo di tutte le esperienze umane senza privilegi né gerarchie, vi era una ragione in più per potersi proiettare verso inconsuete realizzazioni: nuovi materiali aprivano nuove possibilità di strutture e di forme. “Il gusto per la solidità era naturale, osserva Ada Louise Huxtable in un mondo costruito in mattoni sopra mattoni in pietre su pietre; una preoccupazione per la leggerezza, la smaterializzazione e le forme dinamiche in equilibrio è naturale in un mondo di strutture di acciaio, di solidissimo reticolato, di sottili gusci in cemento e di plastiche amorfe che richiedono nuovi principi di costruzione e manifattura e l’impiego di nuove, stimolanti forme” (5). Una conseguenza di questa possibilità, che l’architettura incontra è anzitutto la compartecipazione delle diverse arti alle stesse forme: l’architettura può azzardare le forme della pittura e della scultura, i linguaggi perciò diventano comuni e lo spazio può essere condiviso, anzi si potrebbe dire concreto. Questa in sintesi è la ragione di un rapporto costitutivo organico in cui ogni soluzione può essere quella perfettamente aderente e appropriata all’obiettivo specifico e in cui la forma può essere unica, nata allo stesso tempo in struttura e decorazione che non ha più senso realizzare separatamente, dato che sono pensate assieme. “Fra gli intenti che si posero gli architetti negli anni che seguirono la fine della guerra, i quali coincisero con la ripresa dell’attività edilizia, vi fu quello di riesaminare (con il celato proposito i confutarla) la nota intransigenza del funzionalismo più rigido contro la decorazione in architettura. A taluni architetti sembrò infatti che la decorazione in architettura non fosse proprio, o non fosse affatto, quel ‘delitto’ di cui si era detto” (6).

Così iniziava la relazione tenuta da Carlo Perogalli al Convegno su “Architettura e Arti visive”, tenutosi a Roma la sera del 22 Marzo 1958. Perogalli affermava che il centro di tale dibattito era Milano, città in cui si tenevano riunioni, conferenze, si organizzavano associazioni, riviste ed esposizioni che avevano posto all’ordine del giorno il tema della “sintesi delle arti”; città, inoltre che rappresentava il luogo dove maggiore erano state le realizzazioni. “Anche se c’è da sospettare che quanto fino ad ora conseguito in questa direzione possa rappresentare soltanto una serie di esperimenti, i quali abbiano i difetti ai quali sempre essi si accompagnano, seppure unitamente al fascino che pure ne costituisce una innegabile prerogativa” (7). Sempre in quella occasione Perogalli aveva proiettato immagini di edifici in cui la sintesi delle arti era applicata in modo eloquente. Se quindi la necessità di ricostruire era comune a pressoché tutte grandi città d’Europa, dopo le devastazioni degli anni della guerra, l’espansione di Milano si poneva in una sorta di linea di continuità con il tumultuoso e disordinato sviluppo urbano già iniziato già negli anni del fascismo, che era costato alla città la chiusura dei navigli e la perdita della sua fisionomia e ne aveva segnato l’avvio verso un’immagine meno affabile e più metropolitana. L’industria edilizia si trovò quindi naturalmente orientata a rispondere a quei principi del funzionalismo che prima erano solo presenti nelle realizzazioni delle avanguardie. Se non che questa improvvisa e massiccia conversione, osserva Agnoldomenico Pica in Architettura italiana ultima, rivelò subito il suo carattere esclusivamente pratico, la sua natura grossolanamente empirica, il suo pragmatismo impaziente e immediato nel quale, senza remissione, si sarebbero bruciati qualsiasi residuo ideale e, perfino, qualsiasi aspirazione ad una ricerca tecnica più approfondita e più raffinata (8). La riflessione sul Movimento Moderno, l’interrogarsi se la spinta all’innovazione, al cambiamento, alla democratizzazione del ruolo dell’architettura, fosse ormai un percorso compiuto ed esaurito, fu ampia e profonda, come mostra questo articolato pensiero di Giandomenico Belotti: “La purificazione razionalista in contrapposizione al caos strutturale del periodo precedente ha maturato la necessità di introdurre nell’equazione architettonica, in dialettico contatto, la scultura e la pittura, non per un passivo ritorno alla decorazione, ma per una vitale istanza dello spirito. Le necessità di rompere plasticamente e di dare una profondità cromatica alle superfici sono i motivi storicamente coesistenti di una profonda coerenza linguistica ormai matura per includere altre espressioni d’arte nell’organismo architettonico, non già di reazione a che gli elementi puri dell’architettura assumano l’assoluto ed incontrastato predominio, bensì per realizzare la perfetta simbiosi. Pensare in termini di architettura modernamente, ovverossia nel senso chiarito in precedenza, significa, in nome della cultura e della vita sociale, pensare semplicemente all’architettura senza categorie e differenze, che sia la testimonianza del progresso delle coscienze; all’architettura con la quale si stabilisca un rapporto di giustizia tra gli uomini di una stessa civiltà che hanno gli stessi diritti e le identiche necessità di ordine fisico e spirituale, per cui le assurdità di lusso in similoro e le assurdità popolari di calcinacci scompaiano per sempre” (9). Fu insomma subito chiaro che la ricostruzione non poteva limitarsi a dare una casa a tutti quale che fosse, purché a basso costo né a individuare un quartiere da riproporre ovunque per lo sviluppo della città, da realizzare in fretta, a costo di soluzioni affrettate e soluzioni approssimative. Uno dei temi sui quali si centrò il dibattito fu quindi quello del ruolo del razionalismo del quale si era appropriata la speculazione che lo aveva opportunisticamente svalutato e stravolto. Nasce così da parte del professionismo più impegnato una forte attenzione al tema dell’abitazione, del condominio e del quartiere, che andasse oltre il funzionalismo senza tuttavia negarne i principi fondanti di razionalità e di buon abitare.

Nascono sperimentazioni significative quali quelle del QT8 e i quartieri dell’Ina Casa. L’attività culturale e professionale a cui Carlo Perogalli faceva riferimento nel suo intervento era quella degli architetti e degli artisti che si riconoscevano nel Movimento per l’Arte Concreta, il MAC appunto. Il Movimento era sorto nel 1948 e fu inizialmente un gruppo eminentemente di pittori, tra cui Atanasio Soldati, Bruno Munari, Gillo Dorfles e Gianni Monnet che ebbero come luogo di incontro la Libreria Salto. Il 1948 si può considerare l’anno di nascita del movimento con la pubblicazione della prima cartella di arte concreta, composta di 12 stampe a mano di soggetto astratto, presentata appunto alla Libreria Salto il 22 Dicembre dello stesso anno. Nell’intento dei partecipanti appariva predominante un interesse per l’arte in quanto tale, senza che ne prevalesse in modo schiacciante un’anima, una teoria sulle altre. Ciò che unificava comunque gli artisti era il loro sguardo oltre i confini, all’Europa e al mondo, la ripresa del dialogo interrotto durante la dittatura con le avanguardie europee. Secondo gli studi di Luciano Caramel sul MAC, nella vicenda del movimento è opportuno individuare una periodizzazione in due fasi: la prima che va dal 1948 al 1952 caratterizzata dalla prevalenza della pittura. La seconda invece, dal 1952 al 1958, vede invece entrare nel dibattito anche architetti, ingegneri e design. Dalle immagini e da questo breve itinerario dedicato a quelle architetture si individuano due vie: la prima prefigura una collaborazione tra architetto e pittore o scultore, in altre parole il progettista “regala” all’artista le facciate che da lui vengono interpretate: la seconda in cui l’architettura è impegnata nella ricerca di composizioni rigorose, nel tentativo di trasformare il manufatto architettonico in scultura, dove la forme e struttura coincidono e determinano la bellezza del manufatto. E’ opportuno osservare il carattere di originalità di questo fenomeno sia nell’attuazione pratica sia come progetto culturale; questa originalità è espressa in quegli anni solo dal Movimento Arte Concreta. Questo movimento, inizialmente nato come gruppo esclusivamente pittorico (Monnet, Soldati, Dorfles, Munari) successivamente si apriva ad altre forme artistiche come l’architettura (Mariani, Menghi, Paccagnini, Perogalli, Ravegnani, Varisco, Viganò, Zanuso); si faceva portatore di una potente istanza di rinnovamento in grado di superare il monopolio creato dal razionalismo-funzionalismo in vista di un nuovo e più dialettico modo di intendere la progettazione. Milano diventa così per un breve arco di tempo (dal 1948 al 1958), per architetti e artisti la città dove poter sperimentare una nuova concezione dei rapporti fra le arti.  Si può rilevare, al fine di offrire un quadro il più ampio possibile del movimento, che esso non toccò solo alloggi signorili in quartieri eleganti, ma coinvolse anche zone destinate ad un’utenza più comune, dominata quindi da insediamenti di minori pretese. Ad esempio al QT8 si riscontrano inserimenti di opere scultoree e pittoriche di artisti, taluni ignoti, altri invece, in qualche modo riconducibili all’esperienza del MAC. E’ possibile trovare sia decorazioni a mosaico, a porcellana smaltata e ad altre tecniche eseguite su disegni dei pittori Roberto Crippa, Gianni Dova, Atanasio Soldati e dell’architetto Bottoni, poste nel sottoportico della grande INA CASA di Lingeri e Zuccoli, sulle pareti del padiglione per Mostre e della casa INCIS di via Bertinoro di Bottoni stesso. Inoltre nella chiesa di Santa Maria Nascente si trova un’opera di Monnet e Vairano “Quest’interno – scrive Monnet – dai colori viola, giallo e nero, mostra come le forme concrete non sono pitture semplicemente applicato alle pareti di un edificio progettato separatamente da un’altra persona, ma nascono e si sviluppano insieme all’architettura con la quale si identificano” (10).

Tra le realizzazioni che si muovono nell’ottica della collaborazione tra architetti e artisti, oltre a quelle che vengono proposte di seguito nelle schede, meritano di essere citate, a nostro avviso anche il cinema Arlecchino, realizzato nel 1948 da Roberto Menghi e Mario Righini, che vede la collaborazione di Lucio Fontana in più interventi. Il compito affidato a Menghi e Righini era quello di ricavare, da un preesistente rustico cantinato, un cinematografo che doveva avere il carattere e l’aspetto accogliente di un circolo più che di una semplice sala da spettacolo. Dall’atrio d’ingresso una scala scende al ridotto dove si trovano: la biglietteria, il guardaroba e il bar. La sala di proiezione, di ridotte dimensioni, è ingrandita e movimentata dall’andamento del soffitto a grandi lamine in gesso bianco, dal gioco delle pareti anch’esse bianche e dal motivo a spina di pesce dei dorsi delle poltrone. Il pannello di Lucio Fontana sotto lo schermo è pensato come spettacolo esso stesso, non una cornice ma un quadro: un pannello in ceramica, coperto di vernice, che illuminato da lampade a luce Wood, doveva assumere colorazioni diverse nell’ambiente buio; anche le poltrone avevano rivestimenti di colori diversi, come il vestito di Arlecchino. Inoltre all’ingresso, appesa al soffitto è collocata la scultura da cui deriva il nome del cinema: un Arlecchino a mosaico in rilievo in modo da essere particolarmente sensibile alla luce artificiale. Nel foyer vicino al bar, si trovano inoltre cinque grandi pannelli laccati di Fornasetti che rappresentano scene tratte dalla vita di Arlecchino. Tra le opere in cui invece sono gli stessi architetti che, facendo proprio il modello di Le Corbusier, realizzano edifici con innesti di arti diverse, meritano attenzione gli edifici realizzati, nei primi anni Cinquanta, dallo studio Mariani Perogalli. Il più emblematico è la “Casa Astratta” di via Beatrice d’Este 24, ispirata a un dipinto di Alberto Magnelli, pittore astrattista di origine toscana, ma attivo a Parigi. Mariani stesso in un’intervista rilasciata nel 2001 affermava: “Considero quel condominio il nostro migliore risultato in quest’ambito: l’idea non era quella di far “scomparire” il condominio, ma di vederlo il meno possibile, una composizione di soli elementi architettonici coincidenti con le parti strutturali della casa. Abbiamo così creato il motivo astratto dei balconi blu, giocando sul motivo del colore e su quello dei pieni e dei vuoti”(11). Il compito di rompere la stereometria dell’edificio è affidato ai balconi che, uniti in un sapiente gioco cromatico, movimentano il fronte con fasci di blu intenso e danno l’impressione di una grande composizione astratta gradevole all’occhio e funzionale. Lo stesso disegno viene ripreso in negativo all’interno dell’androne, dove un intarsio del pavimento di gomma ha lo scopo di istituire uno stretto rapporto tra la facciata esterna e lo spazio interno, dove si trova inoltre una scultura Mariani. Anche Perogalli giudica questa realizzazione una delle più originali e significative in cui “la sintesi delle arti …si segnala anche per la forte componente cromatica: la facciata dell’edificio possiede un rivestimento in spaccato di marmo bianco e tessere in ceramica blu. La decorazione si esprime sia nella libera composizione sia nella scelta dei colori in facciata”(12). Qualche anno dopo, a fianco della “Casa Astratta”, quasi a chiusura del lotto, viene realizzato un altro edificio d’abitazione, in cui l’elemento principale è questa volta il colore che, sulla facciata laterale, imprime un effetto dinamico e rompe la staticità della scatola muraria tramite pannelli di clinker sfalsati di diversa grandezza e a tinte alternate, arancio e marrone. Nel corso del decennio che vide il MAC fiorire e spostarsi da Milano a Firenze, Torino, Genova, Roma, Napoli e Catania, esso tuttavia cambiò spesso forma e si aprì a nuovi apporti, in quanto non fu mai un movimento chiuso ed in alcun modo esclusivo, tanto che nel 1953 si fuse con il gruppo francese “Espace” guidato da André Bloc, prendendo il nome di “MAC-Espace”. La mancanza di un organico sostrato teorico e di una effettiva omogeneità tra le diverse componenti il movimento è congenita alla realtà dello stesso, tanto da portarlo, proprio per l’eccesso di adesioni e la divergenza di scelte, alla perdita di identità, preludio della dissoluzione. Proprio per le sue multiformi anime il MAC ha comunque raggiunto, prima di dissolversi, un grandissimo numero persone che, pur ignorando l’esistenza del movimento, ne hanno a lungo goduto dei prodotti; a conclusione di questo nostro scritto ci piace ricordare un’immagine che chi come noi non è più giovane ha certamente nella memoria: la struttura che su uno sfondo di nuvole, accompagnata dalla musica del Guglielmo Tell di Rossini, apriva le trasmissioni RAI, era la “Composizione di geometrie proiettive a forma libera” realizzata appositamente da Tito Varisco.

 

Claudio Camponogara
Elisabetta Dulbecco

Note

(1) Le Corbusier, Lo Spazio indicibile in Rosa Tamborrino, Le Corbusier, scritti, Einaudi, Torino 2003, p.246.
(2) Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, Milano, 1961.
(3) Carlo Perogalli, Introduzione all’arte totale, Libreria A. Salto, Milano 1952, p.57.
(4) Bruno Munari, Manifesto del macchinismo in “Arte Organica”, 1938.
(5) Ada Louise Huxtable, Pier Luigi Nervi, Il saggiatore, Milano 1960, p.28.
(6) Carlo Perogalli, Architettura, ambiente, sintesi artistica nella Milano postbellica in Aspetti, problemi, realizzazioni di Milano. Raccolta di scritti in onore di Cesare Chiodi, Giuffré, Milano 1957 p. 413.
(7) Carlo Perogalli, op. cit. p. 415.
(8) Agnoldomenico Pica, Architettura italiana ultima, Edizioni del Milione, Milano 1959 pp. 24-25.
(9) Giandomenico Belotti, Una casa in via Cimarosa a Milano in “Architettura cantiere”, n. 13 Giugno 1957 pp. 22-23.
(10) Martina Corniati (a cura di), Arte a Milano, 1956-59 MAC e dintorni, Edizioni dell’aurora, Verona 1999 pp. 66-67.
(11) Anna Chiara Cimoli, Milan Builds: professionisti, architetti, istituzioni, tesi di dottorato di Storia dell’architettura, Politecnico di Torino, pp. XXXI-XXXII.
(12) Giuliana Ricci, Guardare l’architettura. Passato e presente negli scritti di Carlo Perogalli, un architetto moderno, Unicopli, Milano 2002 p.52.

BIBLIOGRAFIA SUL TEMA:

 

C. Colleoni

Carlo Perogalli e la sintesi delle arti: architetture a Milano

in AL, n. 5 2004

 

C. Camponogara, M. E. Dulbecco

Rapporti tra architettura e arti visive in esempi milanesi

in AL, n.4 2005