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Chiesa della Madonna dei Poveri

Anno: 1952 - 1954

Località: Milano, Forze Armate

Indirizzo: Piazza Madonna dei Poveri 1

Destinazione d'uso: Edifici per il culto

Progettista: Luigi Figini, Gino Pollini

La chiesa della Madonna dei Poveri, dall’aspetto esteriore disadorno e quasi rude e dal linguaggio architettonico interno essenziale e brutale, che lascia alla sincerità dei materiali ed al gioco della luce naturale il compito di coinvolgere emozionalmente, non può essere compresa appieno se non riportandola al contesto storico in cui si colloca. Essa appartiene al novero degli edifici di culto di nuova edificazione che affrontano il delicato compito d’inserirsi nel panorama post bellico di una città che non solo si va ricostruendo, ma che deve anche trovare un equilibrio urbano all’espansione delle sue periferie, cui convergono possenti flussi migratori. In questo quadro si confrontano da un lato la volontà della Diocesi milanese, per voce dell’allora cardinale Ildefonso Schuster, di essere attivamente presente nella ricomposizione del tessuto sociale cittadino accompagnandolo ad una diffusa presenza di chiese, fulcro dell’identità comunitaria e dall’altro, l’esigenza degli architetti milanesi di proporre tipologie ecclesiali che fossero finalmente espressione del rinnovamento linguistico-architettonico nato con il Movimento Moderno.

 

Nel 1995 l’insediamento del nuovo cardinale, Giovanni Battista Montini, produce un rinnovato impulso a questi temi ed appena un anno dopo Figini e Pollini consegnano alla comunità della periferia lavoratrice di Baggio, un edificio di culto che si riveste di una estetica industriale, quasi un capannone appena ingentilito dall’inserimento di partiti murari in laterizio a vista (ma la facciata incompiuta prevedeva un quadriportico). Definito da un modulo di 14x10 metri a quattro pilastri, lo spazio interno tripartito, dove prevale l’essenzialità brutale del cemento a vista, definisce una sua mistica tutta interiore, che non ricerca il rapporto con l’esterno se non grazie all’uso drammatico della luce filtrata dalla tessitura discontinua dei setti che a coronamento della navata centrale definiscono i pseudo-matronei e da quella intensa e diretta proveniente dall’ampio lucernario sovrastante il presbiterio. L’effetto combinato di materiali grezzi e luci contrastate esalta il dettaglio strutturale delle due travi passanti traforate che sostengono il tiburio ad una delle quali è sospesa l’emozionante croce decorata a smalti, opera di Padre Costantino Ruggeri.

 

«Nella relazione che accompagna il progetto gli architetti insistono particolarmente sulla specificità tipologica dell’edificio (…) vengono così enunciati alcuni temi portanti:  l’idea di costruzione armonica (a partire dall’esagono del coro che racchiude l’altare – punto focale dell’intera pianta ? la costruzione è organizzata sulla base di “tracciati regolatori” derivanti da combinazioni di esagono, cerchio e quadrato); la dichiarata adesione alla tradizione ambrosiana con l’altare rivolto verso i fedeli (…); la riproposizione di caratteri presenti nella lunga tradizione ecclesiale occidentale (partizione dello spazio in tre navate, presenza del pronao, battistero esterno anteposto alla facciata, “cripta” sotto il presbiterio, pseudomatronei, presenza della cappella feriale che gli architetti – avendone fatto una specie di giardino interno – chiamano “cappella – hortus conclusus”. Ne deriva ciò che Figini descriveva come “primato dell’interno” dove la luce regola le forme e definisce gli spazi». La Madonna dei Poveri di Luigi Figini e Gino Pollini è forza vibrante del puro essenziale: primato dell’interno che si apre alla matericità apparentemente atona di superfici scabre per lasciare che sia la luce, condotta mirabilmente da mani invisibili, a disegnare lo spazio dando sostanza e volume alle forme così come alle assenze di forma. Modulazione vibrante che parla il linguaggio di una spiritualità intensa ed universale che coglie il credente così come l’ateo, quasi di sorpresa, dopo il primo diffidente incontro nel tessuto urbano con un volume indifferente, quasi inquietante per l’inespressività violenta del linguaggio industriale.

 

Marco Borsotti