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Enzo Mari

From 20.10.2020 to 20.11.2020

Si è spento a Milano, all'età di 88 anni, Enzo Mari, tra i più grandi designer del Novecento. Lo ricordiamo con un pensiero dell'architetto Franco Raggi

Si è spento a Milano, all'età di 88 anni, Enzo Mari, tra i più grandi designer del Novecento, importante autore e teorico del design moderno.
Oggi lo ricordiamo con un pensiero dell'architetto Franco Raggi. 

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Qualche anno fa Enzo Mari mi chiese (mi fece chiedere da Lea Vergine sua moglie e mia grande amica, purtroppo anche lei scomparsa oggi) se potevo portarlo a fare un giro in auto per mostragli le nuove architetture milanesi. Costretto a casa da qualche anno a causa di problemi fisici sapeva che la città, la sua città adottiva, stava cambiando e che l’architettura vi stava svolgendo, nel bene e nel male, un ruolo propulsivo sul piano delle funzioni e soprattutto dell’immagine. Decisi di fargli fare un viaggio a ritroso cominciando da City Life, passando per la nuova Bocconi e la Fondazione Prada e per finire in piazza Gae Aulenti. Durante il “tour” espresse quasi sempre giudizi negativi e alla fine stanco, seduto sul bordo della fontana disse. “…se ne avessi la facoltà io farei chiudere le facoltà di architettura”. Enzo era così, un giudizio anche leggermente positivo gli sembrava un cedimento alla necessità di una coscienza critica implacabile, la accettazione di un compromesso gli pareva una debolezza dove il giudizio “abbastanza buono” è sinonimo di mediocrità. Alla ricerca di una qualità assoluta nel progetto non concedeva, né a sé né agli altri, margini di approssimazione nella continua ricerca del senso delle cose, senso che risiedeva nella ricerca logica e coerente del rapporto che il progetto ha con il corpo sociale che lo usa e con l’estetica che produce.

Enzo Mari non era personaggio facile. E non lo è stato nemmeno per se stesso. Credo che lo si possa definire un designer geniale "suo malgrado". Di lui infatti si potrebbe parlare come di due personaggi distinti, antagonisti e complementari: il designer e il teorico, entrambi si sopportavano e si usavano.

La sua opera di designer, discreta, provocatoria e raffinata percorre il mondo degli oggetti d'uso secondo un criterio rigorosamente non formale e altrettanto rigorosamente logico. La sua attività di teorico fin dagli anni ‘60, smonta invece pezzo per pezzo la compiaciuta immagine che la cultura del design italiano ha di se stessa e del ruolo dei progettisti nello scenario della modernità e all’interno del ciclo di produzione della cultura industriale.

Enzo Mari nasce autodidatta e la sua opera come artista prima, grafico poi e designer alla fine, percorre e contiene tutti questi percorsi paralleli con un atteggiamento didattico e fondativo continuo e ostinato.

Il mestiere del progetto per Enzo Mari è una forma di autoapprendimento e di messa in dubbio continua. Inizia come artista negli anni ’50, partecipando ai gruppi dell’arte programmata che mettevano in scena provocatoriamente un’arte non figurativa, astratta ma logica, capace di formarsi per regole quasi esterne all’intervento manuale dell’artista. Un’arte che si “faceva da sola”, un’arte che negava e scardinava il rapporto sacrale tra artista e società, tra opera e autore. Arte cinetica, arte concettuale, arte programmata, sono solo alcune delle definizioni di questo percorso di smontaggio del convenzionale ruolo dell’arte come forma di rappresentazione.

Questa matrice didascalica, didattica e concettuale rimane alla radice del lavoro di Mari che anche nella grafica e nel design ha messo in atto procedimenti logici che escludono la forma come fine ma la generano rigorosamente come effetto.

La logica di Mari designer è stata quella della tabula rasa; i suoi progetti sembrano ri-solvere ogni volta e per la prima volta un problema, e il carattere di "soluzione" risiede spesso nell' invenzione di un modo inatteso di risolvere un problema vecchio. Che si tratti di un vaso, un cestino, una zuccheriera, un giunto o una sedia, le proposte di Mari hanno dell'inevitabile, si propongono quasi come teoremi tridimensionali; la loro qualità formale vorrebbe essere un mero accidente. In realtà l'attenzione alla forma è per Mari decisiva, una forma però non invadente, non prevalente, semmai conseguente e misurata.

Gli oggetti e le grafiche disegnati per Danese negli anni ’50 e ‘60 esprimono una semplicità fulminante e definitiva. Consapevole che il design è, oltreché uso, percezione ed informazione, Mari ha elaborato “oggetti pensanti”. Manufatti che riflettono sulle forme archetipe come il portaoggetti derivato da una putrella in ferro leggermente piegata, o sui modi di produrre in modo non alienato come nelle ceramiche modulari intrecciate che lasciano all’operaio libertà di esecuzione, o sull’eliminazione ossessiva del superfluo, come nella perfetta zuccheriera con coperchio dove la cerniera si realizza per compenetrazione di due forme stampate ed indipendenti. Questi oggetti raccontano una ricerca paziente della forma come senso e non come arbitrario esercizio decorativo. Non a caso 30 anni fa, volendo mettere in scena la raffinata definitiva semplicità di un utensile, fece una mostra di 26 diverse falci. “Le trovo bellissime” diceva “perché costituiscono un modello di quello che il design dovrebbe essere”.    

Dove invece Mari praticava l'eccesso era nei panni del teorico. Egli non conosceva la mediazione e il compromesso; il suo messaggio era apodittico e globale. L'atto del progettare si caricava nelle sue parole di un significato generale, antropologico, quasi trascendente. Parafrasando Lenin poteva dire "il progetto è sempre rivoluzionario". Coerentemente cercando una sintesi tra progetto e rivoluzione (produttiva), nel 1974 lanciò la “Proposta per una autoprogettazione”. Immaginò ante litteram un design “open source” con progetti inviati in eliocopia, per posta, per costruirsi da soli con legno e chiodi arredi elementari, brutali e bellissimi. Fu travolto dalle richieste e per non trasformare lo studio in un ufficio postale, dovette abbandonare il progetto.

Convinto che il progettare non si impara sui libri, qualche anno fa, a dei giovani che gli chiedevano come diventare designers consigliava rudemente di andare “prima” a lavorare la terra.

Questo ostinato totalitarismo e la fede nel raziocinio creativo(che permettevano a Mari di non prestare molta attenzione ai "fasti" del design italiano), erano la molla che lo faceva ricominciare ogni volta da capo, anche quando intraprendeva implacabile una discussione con un nuovo o vecchio interlocutore sul destino del design, le sue utopie, le sue volgarità e i suoi deboli estetismi. Per fortuna in fondo a questo aggrovigliato cratere riposava attenta l'anima del poeta.


Franco Raggi

21 ottobre 2020

 

 

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