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C’erano una volta gli interni milanesi. La fragilità del moderno

From 13.03.2014 to 13.04.2014

In occasione dell’uscita del Giornale Docomomo n°33 dedicato agli allestimenti e gli interni milanesi del moderno, giovedì 13 Marzo 2014 si è tenuto nella nostra sala conferenze un incontro sulla tutela degli interni. Impossibile non iniziare accennando a quel “laboratorio della modernità” sviluppatosi nel contesto milanese a partire dagli anni Trenta: gli allestimenti per le varie Triennali, gli interventi negli spazi museali, fino al lavoro più minuto sugli spazi dell’abitare, sono esperienze che hanno costituito un campo decisivo per la verifica dei principi spaziali messi a punto dalla generazione dei maestri del razionalismo italiano. A partire dalla V Triennale del 1933, non c'è architetto moderno che non si sia confrontato con il tema dell'allestimento o arredo degli interni, giungendo spesso a fondere in un'unica sintesi gli elementi funzionali e quelli formali.

Se dunque da un lato è indubbia l'importanza del tema – sostiene Andrea Canziani, professore di "Architectural preservation" al Politecnico di Milano e segretario generale DOCOMOMO Italia – dall'altra non può che apparire paradossale l'intento di voler conservare qualcosa che, per sua natura, viene concepito come effimero e temporaneo. E' dunque lecita questa possibilità laddove i contenuti culturali di tali progetti assurgono ad un valore più alto, generale e condiviso dalla collettività? Andrea Costa – Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia – ci tiene a sottolineare che il primo passaggio per la tutela è capire cosa si ha di fronte quindi è necessario uno sforzo di comprensione da parte del progettista che oggi deve confrontarsi con un manufatto esistente. La lezione del restauro della Ca' Granda, ad opera di Liliana Grassi, è tutta racchiusa, con straordinaria intelligenza, nell'idea di palinsesto: enfatizzare nel restauro l'eccezionale stratificazione del corpo architettonico, la cui identità è stata mantenuta nel corso dei secoli grazie alla potenza tipologica, esibendo approcci anche molto differenti. Una specie di metafora della stessa città di Milano, dove la modernità non è raggiunta in maniera perentoria, ma sempre nel dialogo con le preesistenze, in un processo di stratificazione che dura ancora oggi.

Su questo dialogo, Federico Ferrari – professore di "Progetto e Storia dell'architettura" al Politecnico di Milano – cita Ernesto Nathan Rogers: “La memoria conferisce alle cose dello spazio la misura del tempo: di tutto quello che è prima di noi. Ma è il tempo dei morti, riuniti in consorzio per ammonirci d'essere vivi come essi sono stati nel loro momento”. La consapevolezza della profondità storica del reale può dunque costituire una terza via rispetto alla volontà di trovare principi universalmente validi per il restauro. E' l'idea del “caso per caso”, dove l'analisi della specificità di ciascun manufatto, del suo contesto e della sua storia può rivelare le scelte progettuali più adatte per la sua tutela. Anche se, probabilmente, la debolezza di questa posizione sta nel delegare alla “performance” individuale il compito di trovare le soluzioni più adeguate per intervenire sul patrimonio architettonico.

 

Angelo Micheli – project manager dello Studio De Lucchi – espone l’intervento progettuale sul Castello, sull’idea da parte del Comune di renderlo un luogo aperto alla città, sia dal punto di vista degli spazi aperti, che delle ricche collezioni custodite al suo interno. Il principio ispiratore del progetto è stato quindi concepire il Castello come un luogo collettivo, come un monumento civile da utilizzare per il passeggio, per l'esplorazione, per il movimento e per lo stare.

 

Amedeo Bellini - professore emerito di "Teoria e storia della tutela e del restauro" al Politecnico di Milano e autore di diversi progetti di conservazione del patrimonio architettonico - espone in sintesi un breve excursus sull'origine e sulla progressiva estensione nel corso degli ultimi tre secoli del concetto di tutela. Oggi, collocati al punto estremo di questo percorso, comprendiamo la natura indefinibile del bene culturale, qualcosa che sfugge ad una definizione univoca. Riprendendo il dibattito sul tema dello spostamento della Pietà Rondanini, Bellini ribalta la questione chiedendo quale sia mai questa necessità di operare lo spostamento di un'opera che, ormai, risulta inscindibile dall'allestimento che la espone. E’ mancato, in questa vicenda, l’idea di un approccio sistemico che concepisce giustamente il bene culturale come qualcosa di complesso e fortemente relazionato al contesto che lo ospita. E’ dunque doppio il “delitto” che si compirebbe con lo spostamento della Pietà: verso l’opera di Michelangelo ma anche verso l’allestimento dei BBPR, universalmente considerato uno dei capolavori della museografia italiana del dopoguerra.

 

La lezione dei BBPR, ai quali fu imposto di inserire la Pietà Rondanini – enigmatica ultima opera non finita di Michelangelo – all'interno di una collezione dell'arte lombarda, è stata quella di adattare il proprio progetto a questa importante variante. Il resto, si sa, è storia: dal più grande dei vincoli,  nacque il più straordinario dei capolavori.
 

Manuele Salvetti

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