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Maria Vittoria Capitanucci: museo e territorio

From 02.04.2014 to 02.05.2014

Riapriamo la discussione sul 'Restauro del Moderno' facendo due chiacchiere sull’incerto destino del museo Alfa Romeo di Arese con l'autrice del volume dedicato all’opera dei fratelli Latis. In attesa di pubblicare le nuove proposte della proprietà Fiat

Recentemente sullo storico mensile della Domus editore ‘Quattoruote’ sono apparse alcune proposte progettuali riguardo la ristrutturazione del Museo Alfa Romeo di Arese, in cui si spiega che, grazie alla vendita di alcuni dei modelli più prestigiosi ivi conservati per la raccolta dei fondi necessari, sarebbe possibile riaprire il museo in tempo per Expo 2015, pochi chilometri distante, rimettendo finalmente a disposizione del pubblico una collezione unica al mondo.

Ne abbiamo parlato con Maria Vittoria Capitanucci, critico e storico dell’architettura, autrice del volume dedicato all’opera dei fratelli Latis (skira 2007), progettisti del museo e degli uffici limitrofi nel 1974.
Docente incaricato al Politecnico di Milano e autrice di numerosi testi dedicati al professionismo milanese del dopoguerra, oltre che dell’ultima guida sull’architettura contemporanea milanese edita da Skira nel 2012, di cui, ci racconta, a breve in libreria il suo terzo aggiornamento. Non ultimo redattrice stabile de ‘l’architetto’, la nuova rivista digitale del CNA diretta da Pierluigi Mutti.

Perché occuparci di un lavoro in fondo minore dello studio Latis, molto attivo a Milano nel dopoguerra, e in che direzione la sua conservazione può essere di qualche attualità?

Quest’opera, nata a cavallo degli anni ’60 e ’70,  si inserisce in un momento in cui l’architettura industriale era terreno di sperimentazione su più fronti e parlava diversi linguaggi, non è un caso dunque che si proponesse l’accostamento degli uffici ai luoghi della produzione o, addirittura, come in quest’occasione ad un museo, che porta con sé la storia e l’identità del gruppo industriale. Dunque questo progetto ha un valore che va considerato sia nel significato che ha avuto nel suo contesto storico e culturale (un momento eroico ed illuminato per l’industria italiana e i suoi ‘uomini’) sia sul piano prettamente architettonico, magari non superlativo, e nel suo carattere paesaggistico. È un esempio, questo dell’Alfa, emblematico della storia del ‘900 industriale. Un sito, infatti, arricchitosi nel tempo di opere di progettisti di primo piano della storia dell’architettura, a partire da Giulio Minoletti a metà degli anni ’60, a seguire con Antonio Cassi Ramelli, che coinvolse a sua volta l’ing. Vittore Ceretti e i fratelli Vito e Gustavo Latis nella seconda metà degli anni ’70, per concludere con la costruzione degli uffici tecnici da parte di Ignazio Gardella.  Insieme, costoro e i loro interventi, esprimono coralmente lo stato di avanzamento della cultura architettonica di quegli anni, evidenziando il raffinato utilizzo di elementi prefabbricati e del cemento, oltre alle soluzioni progettuali sulla distribuzione e sulla flessibilità degli spazi del lavoro.

In questo senso il museo ha un valore non solo riferito all’edificio in sè, quanto ad un elemento congruente ad un sistema complesso strutturale all’idea moderna di stabilimento. In questo senso Giuseppe Luraghi, presidente dell’Alfa Romeo, già parte del gruppo IRI, si dimostra un visionario colto e pragmatico, letterato ed economista, incarna una committenza illuminata che negli anni sessanta ha espresso forse le sue più alte potenzialità. Alla stregua degli Olivetti, dei Pirelli e di alcuni dei grandi industriali dello scorso secolo, fu un lungimirante conservatore che seppe coniugare l’attività manageriale a quella umanistica. Da semplice impiegato Pirelli agli inizi degli anni ’30, diviene dirigente IRI e per questo dal ’60, con alterne fortune, presidente dell’Alfa Romeo. Ma negli stessi anni fu anche fondatore delle edizioni della Meridiana, e lui stesso scrittore e poeta.

In cosa allora ritroviamo il valore che anche la Soprintendenza, nella sua azione di tutela rispetto alla collezione di automobili, di fatto riconosce nell’allestimento dei fratelli Latis?

Il museo nel suo allestimento ha sicuramente una maggior libertà di espressione rispetto agli edifici che lo contengono. La vicenda come ho detto si avvia con l’incarico nella seconda metà degli anni ’60 ad  Antonio Cassi Ramelli. Successivamente intervengono Vittore Ceretti e i fratelli Latis, configurando così un lavoro corale, molto probabilmente con una suddivisione di competenze piuttosto precisa. Del resto sono tutti progettisti che afferiscono alla realtà industriale del periodo, con cui ognuno ha molteplici intersecazioni ma che si dedicano anche ad ambito completamente differenti, dei Latis ad esempio consociamo tutti la raffinata costellazione di esempi di ediliazia residenziale borghese nella città, meno le sperimentazioni di edifici religiosi prefabbricati (come Zanuso, Minoletti, Magistretti, etc...) e i numerosi edifici polifunzionali e per il terziario. Lo stesso Ceretti, in una delle chiacchierate che facemmo, mi accennò alle complesse vicissitudini di ‘incarico’ e di scelte progettuali che caratterizzarono la vicenda progettuale del Museo…Certo, se guardiamo i disegni conservati nell’archivio Latis, possiamo vedere con quale passione e profondità di dettaglio vi abbiano di fatto lavorato in prima persona.
E, mentre l’involucro si pone in relazione con il contesto costruito e in costruzione e con un linguaggio concertato tra i vari protagonisti della vicenda, l’allestimento interno, o meglio la concezione spaziale degli interni, ribadisco, ha una grande forza, un impatto e una distribuzione che potrebbe certamente essere oggetto di un rinnovamento contemporaneo senza di fatto doverne scalfire l’identità: i piani sfalsati e la scala che li collega tra loro, il percorso che conduce al centro dell’impluvio,  a trionfo dell’allestimento museale, in cui sono collocati  i 5 pezzi più importanti, posti sopra dei podi dimensionate ad hoc, in costante dialogo tra automobili e lo spazio che le contiene.

Pare si tratti degli stessi modelli che ora la proprietà Fiat vorrebbe vendere per realizzare i denari necessari alla ristrutturazione. Come se per i lavori del Louvre si vendesse la Gioconda, si legge da qualche parte…

... E la soprintendenza infatti, per tempo e con grande lungimiranza, ha posto il vincolo proprio sul patrimonio storico conservato e non soltanto sull’edificio. Ma è chiaro che questo allestimento va considerato tutt’uno con la collezione, la rara grazia di questo museo è proprio in questo inscindibile legame. A mio avviso è una struttura di tale potenza e attualità che si presta ad una azione di rinnovamento proprio nei termini in cui è stato ristrutturato il nuovo museo dell’automobile di Torino, dove l’innesto del recente progetto di Cino Zucchi non sembra stravolgere nei fatti l’edificio originario di Amedeo Albertini, ma ne ha con raffinato acume programmatico enfatizzato i caratteri già interessanti ri-immentendoli nella storia di oggi.

Del resto, e torniamo al punto di partenza, il museo dell’Alfa Romeo è una struttura di grande richiamo internazionale, che aggiunge rendita di posizione ad un distretto in grande rinnovamento, tra Expo, Fiera, e il nuovo polo commerciale e residenziale in via di costruzione sulle altre parti dismesse dell’Alfa…

Credo che proprio qui stia il grande interesse di questo Museo, come da anni stiamo cercando di evidenziare nello studio di quanto soprattutto la cultura architettonica lombarda ha espresso, che potremmo leggere in una sorta di doppio passo, a nostro modo di vedere inscindibile: da una parte il lavoro sulla città, dall’altra sul paesaggio contemporaneo. Studiosi come Tullia Iori e Sergio Poretti, Marzia Marandola, Claudia Conforti, ma lo stesso Carlo Olmo con il suo lungo lavoro su Nervi,  si muovono da tempo per sottolineare con importanti contributi (su Morandi, Musmeci, De Miranda, Favini …ma anche Zanuso, Mangiarotti, Morassutti)  come la storia dell’ingegneria e della ‘concezione strutturale’ sia a tutti gli effetti una storia alta che ha disegnato il nostro paesaggio e la nostra cultura architettonica esattamente come i grandi musei, le abitazioni  e tutta l’edilizia non infrastrutturale. Come la bella mostra “L’architettura del mondo” dello scorso anno alla Triennale, curata da Alberto Ferlenga, ha evidenziato. Il paesaggio è oggi al centro dell’analisi proprio perché restituisce la complessità dell’azione compiuta da questi protagonisti ed insieme allarga gli orizzonti della storia moderna dell’architettura italiana.

Francesco de Agostini

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