From 26.06.2012 to 27.07.2012
Il 19 giugno primo incontro presso l'Urban Center con protagonisti, oltre l’assessore Ada Lucia De Cesaris: Vittorio Gregotti, Federico Oliva, Carlo Gasparrini, Cino Zucchi e Giacomo Borella
A un anno dall’insediamento della nuova Amministrazione, completato il difficile tour de force dedicato all’approvazione del PGT, l’Urban Center del Comune di Milano esprime l’intenzione di porsi come luogo protagonista del dibattito sulla città e sulla qualità urbana, ospitando un primo ciclo di incontri intitolato “Dialoghi su Milano, qualità urbana e città contemporanea”.
La città è specchio delle persone che la abitano. La sua costruzione incrocia temi, attori, interessi e determina diversi e mutevoli equilibri. Anche per questo, le città sono oggi un laboratorio e un’occasione straordinaria d’innovazione e di sviluppo: sociale, politico, economico.
I “Dialoghi su Milano” intendono offrire alla città un’occasione per riflettere sulle trasformazioni urbane, individuando temi, ascoltando testimonianze, suggerendo indirizzi.
Il primo incontro del ciclo, svoltosi il 19 giugno è stato dedicato al tema: “il disegno della città”.
Si sono alternati, introdotti dall’assessore Ada Lucia De Cesaris, Vittorio Gregotti, Federico Oliva, Carlo Gasparrini, Cino Zucchi e Giacomo Borella.
L’assessore Ada Lucia De Cesaris introduce i suoi invitati spiegando quanto, concluso il faticoso percorso di approvazione del PGT, sia in realtà importante parlare di idee per e su Milano, e in generale della città moderna cui ci si riferisce oggi.
Vittorio Gregotti non si considera un urbanista, ma ne può parlare da cittadino, e in questa veste tesse lodi al rammendo compiuto alla precedente versione.
Ora lo strumento deve essere registrato attraverso il nuovo Regolamento Edilizio, oltre che con il Piano dellla Mobilità e con Expo, di cui tiene a non parlare affatto.
Ma soprattutto sarà sostanziale quanto accadrà degli spazi ferroviari dismessi, trattandosi degli ultimi limiti allo sviluppo e all’espansione della città.
Riguardo il tema del disegno urbano suggerisce 3 questioni:
non occuparsi solo di eccezioni, ma di grana fine
evitare imitazioni, che rendono provinciale e noioso ogni paesaggio
concentrarsi e recuperare il disegno degli spazi tra le cose, che è anche ciò che il pubblico vede dalla strada.
Il terreno da cui partire è la storia della città europea. Il tema della durata, che non ha a che vedere con la globalizzazione o con l’immagine mercantile, che fa prevalere la comunicazione delle forme piuttosto che del tessuto urbano.
Evitare bizzarrie, ovvero la competizione tra gli oggetti, l’ideologia della città generica, contro il contesto e la storia: evitare insomma che l’evento prevalga sul tessuto.
La condizione urbana è in continuo mutamento. Ma l’architettura, che ha un costo molto alto e ha bisogno di molto tempo per costruirsi, non sarà mai transeunte. Il lavoro si colloca nel futuro, ma fondato sulla storia.
Bisogna smettere questa forma di “autocolonialismo”sottomesso al gusto globale. E bisogna invece tornare a pensare al vecchio rapporto centro periferia, alla confederazione di villaggi che è oggi la città contemporanea. Eugenio Turri ne “La megalopoli Padana” riconosce questo sistema, e i suoi luoghi segregati. Proprio come Jon Calame e Esther Charlesworth raccontano nel paradosso delle 5 “Devided Cities: Belfast, Beirut, Jerusalem, Mostar, Nicosia”.
Conclude con 5 punti dedicati agli architetti, sorta di profezia che il grande vecchio si concede:
ridurre le contraddizioni tra piano e progetto
studiare il disegno delle periferie
esigere un disegno chiaro delle parti rispetto al contesto
guardare anche all’antropologia oltre la morfologia
smetterla con la pura creatività, che tende a scavalcare gli ostacoli senza risolverli.
Federico Oliva, da buon urbanista, riconosce nei Piani l’influenza diretta sul disegno della città, soprattutto negli ultimi 2 secoli. Dal piano di Regents Street di John Nash del 1811 ifino al Piano Beruto del 1884: Piani che hanno disegnato in modo preciso e netto le espansioni della città.
Da allora sono cambiati gli strumenti, il tipo di sviluppo, gli attori in gioco. I Piani moderni hanno il merito di aver salvato la città storica, ma i disegni sulle aree di trasformazione non si sono dimostrati mai definitivi.
Ma cosa possono fare i Piani?
Ciò che per esempio ha fatto col nuovo Piano di Milano: proporre mix funzionale, spazi pubblici, controllo delle altezze, dotazioni territoriali, insieme naturalmente alle oramai imprescindibili regole di ecologia urbana: rigenerazione urbana, tutela del suolo, rete ecologica, nel rapporto tra sistema di mobilità e trasformazioni in atto.
La differenza la fa e la farà la gestione urbanistica, ovvero il saper trasformare queste idee in progetti.
La mostruosa complessità normativa che oggi accompagna ogni sistema di regolazione è dovuta proprio alla mancanza di gestione.
Ad Amsterdam la fanno 1.400 architetti, dipendenti del Comune: una soluzione evidentemente improponibile a Milano. Ma è indispensabie rafforzare le strutture della funzione pubblica, quale è quella dell’urbanistica.
Con l’IBA Berlino negli anni ’90 si è realizzata attraverso un Piano Regolatore semplicissimo, e tanti concorsi: input urbanistico e costruzione per progetti. Così anche noi dobbiamo imparare a semplificare.
In futuro ci vedremo impegnati sulle due facce della stessa medaglia: difesa del suolo e rigenerazione urbana. Ma costruire sul costruito costa assai di più che su un prato.
Per questo è necessario incentivare, e farlo più che con premialità volumetriche con sgravi fiscali a favore dell’operatore.
Carlo Gasparrini, dell’università di Napoli, torna al tema del disegno della città, e non necessariamente senza coinvolgere nuovo suolo.
Se la città ottocentesca si è affermata attraverso il disegno dei suoi Piani, non significa che la ricetta sia ancora attuale. Con buona pace di Marco Romano –presente tra il pubblico- e del ‘new urbanism’, che tanto piace e rassicura, che costruisce indifferentemente città o centri commerciali, ma non può essere la strada dell’espansione urbana.
Bisogna invece rovesciare i termini, e ripartire dal landscape, ed in questo modo si capisce che i confini amministrativi non hanno senso, e con essi i Piani limitati a tale porzione di territorio.
Un buon esempio in questo senso, per quanto costoso, è dato da Londra per le Olimpiadi: attraverso la ridefinizione di un parco lungo il fiume come asse portante e connettivo di quartieri prima tra loro conflittuali. Un lavoro di fino, costruito densificando e rimarginando i bordi, completando i tessuti. Un sistema di relazione con quanto già in parte esistente: una visione, 1.000 progetti.
A Napoli si sta cercando di procedere in modo analogo per l’area orientale: un piano del suolo e tanti progetti. Un sistema di reti, un telaio di spazi aperti centrati sulle risorse naturali: eolico, fotovoltaico, bio masse.
Dunque non tanto non consumo di suolo quanto progetto di nuovo suolo.
Cino Zucchi richiama il disegno della città attraverso il sistema delle mappe che, come fece Mirco Zardini anni fa per Zurigo, possono essere tracciate tematicamente, illustrando di volta in volta per esempio: la città degli animali, dei galleristi, dei bambini etc.
Dal suo punto di vista che definisce empirista, il disegno della città necessita di percezione corporea, unita a una certa dose di fascinazione fisica e di contenuto. Oggi si guarda alla città in modo spesso schizofrenico: basta leggere i giornali, dove nella stessa pagina si lodano edifici e archistar e sotto si parla di mamme antismog.
E si interroga: i grandi progetti –fa l’esempio dell’Opera di Amburgo degli architetti Herzog e de Meuron, che da 80 milioni finirà per costarne 500, O Anish Kapoor a Londra con la Orbit Tower, fanno la città?
La città è fatta soprattutto di usi e costumi, e solo quando il suo disegno corrisponde a questi nascono brani molto efficaci. Fa l’esempio dell’area di via Saffi a Milano, o dell’IBA a Berlino.
Bisogna comunque accettare che nella città non esiste più quel genere di omogeneità. E in fondo nella società barbara che ha generato la piazza di Siena non ci vorremmo vivere.
A Milano non serve un Piano di espansione, ma deve crescere:
su se stessa, con attenzione alla città storica ed alle aggressioni ‘ecologiste’
attraverso la sostituzione edilizia
senza il disegno funzionalista delle aree dismesse
con il verde interregionale a far da infrastruttura: da landscape a ecological scape
La Statale, come il Castello, ha generato nuovi assi, il cui genius loci non era culturale, ma una resilienza.
Per questo va riconquistato il valore civico del lavoro dell’architetto –a Madrid Moneo è salutato per strada.
I media hanno fatto molto a creare questo discredito negli architetti. Perchè, come dice Ernst Gombrich, la civiltà è valori impliciti, non espliciti.
Giacomo Borella, dello studio Albori di Milano, più che della città, propone di parlare di disegno nella città. Non sono le grandi aree, ormai risorsa scarsa, relegate agli scali ferroviari e poco altro, ma a fare la città è l’architettura diffusa, fatta di principi alti e pratica bassa, di sensibilità più che di regole, di un laborioso lavoro empirico che è necessario far emergere.
Per capire la città, di volta in volta bisogna saper ascoltare le sue energie, e decidere –ovvero progettare- se assecondarle o contrastarle.
Un esempio in cui si è seguita l’energia -in questo caso del traffico automobilistico- è quello di Pelli Clarke Pelli in Garibaldi-Repubblica, in cui uno dei connotati più monumentali è il nuovo tunnel carraio, di valenza simbolica fortissima: vietato alle bici. Anche se solo in via provvisoria, in quella posizione, accanto alla stazione ferroviaria e ad un nodo di interscambio così importante, è una scelta, afferma, con un senso civico pari a zero.
Altro esempio è il PII della stazione di Affori, descritto da Giacomo pericoloso e intricato, fatto di sottopassaggi e percorsi secondari, non pensati per la fruizione ma solo per la sua astratta funzione. Esempi di energie dunque da contrastare.
Un esempio di cui invece fare tesoro è il sistema di piantumazione a Bagolari che da Largo Marinai d’Italia arriva fin in Loreto: in queste strade, il clima della città è più basso di almeno 2 gradi.
Insomma, è lo sguardo percepito da dentro lo spazio, con i 5 sensi, dal punto di vista dell’architetto da marciapiede, come diceva Mumford, cui bisogna dar risalto. La crisi della città contemporanea coincide con la sparizione dell’architettura minore, ed è sintomatico sentir parlare di architettura se non dell’eccellenza, performante, muscolare.
Terminato così il primo giro Ada Lucia De Cesaris cerca di dare alcune delle risposte alle tante questioni emerse.
Concorda sul fatto che le regole devono essere semplici e complete. Il piano della mobilità è in arrivo, così come il Regolamento Edilizio, che deve senz’altro essere attento a non entrare in risonanza con regole già presenti nelle leggi nazionali.
E’ d'accordo anche di parlare di disegno nella città, sottolineando quanto si senta l’esigenza di normalità.
Alcuni interventi dal pubblico:
Marco Romano tiene a rispondere a Gasparrini. Non si considera infatti fan di Krier, pur considerandolo simpatico ed aggraziato. Cita invece riguardo alla configurazione della città quanto diceva Serlio (nel libro VII del suo trattato, edito nel 1575, n.d.r.): i poveri vivono vicino alle porte, i ricchi vicino alle piazze. Questa è la regola aurea della città, filo conduttore di 1.000 anni di storia. E non è perchè riconosce questo principio, che non si possa considerare uomo di sinistra.
L’arch. Francesco Spadaro racconta invece di come sia sempre stato colpito dal fatto che il sistema delle cascine, così come molta della archeologia industriale, siano esempi sempre attuali, molto più di tanta recente architettura, già in disuso. Perchè?
Perchè la loro regola è di essere costruite per servire, ovvero di essere necessarie. Se oggi la regola è il mercato a fare il disegno della città, saremo seppelliti da tanti boschi verticali.
Vittorio Gregotti ricorda che la città europea vede da sempre mescolarsi tipologie legate al succedersi delle diverse civiltà. Quest’ultima che stiamo attraversando, di matrice globale finanziaria, riconosce come valore l’ansia della bizzarria, lo assurge a elemento strutturale della società: le arti visive e con esse la pubblicità prevalgono.
Si stupisce di dover fare la parte del neo marxista. E un po’ stupisce anche noi, stante anche come e quanto ha costruito in tutti questi anni.
Giacomo Borella puntualizza: sono preoccupato del dileguarsi dell’architettura minore, non tanto della ricerca di normalità.
Se apro il volume di Bernard Rudofsky (Architecture Without Architects. A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture, n.d.r.) non posso definire normale quello che vi trovo. L’architettura popolare porta quasi sempre con se l’appropriatezza, come diceva Spadaro, ma anche una mirabolante inventiva, oltre che il legame con la dimesione necessaria e modesta, dove le città hanno gli spazi di tutti i giorni di qualità, per la stessa ragione.
La continuità dilegua il confine centro / periferia, afferma Cino Zucchi. Il pericolo oggi è l’enclave, la gated city. È necessario mantenere permeabilità attraverso la mixitè, fare luoghi dove la gente è attratta. Disegnare piazze in periferia è difficile perchè la mixitè gli immobiliaristi non la vogliono.
Gasparrini decreta terminata la stagione dei grandi progetti. Il futuro non è solo degli attori forti ma di una molteplicità di progetti all’interno di una visione di insieme. È necessaria una azione di riappropriazione dello spazio pubblico, che passa attraverso inclusività sociale e riqualificazione dello spazio per ricostruire la trama delle relazioni.
Gregotti insiste: siete degli ottimisti, le contraddizioni che ho segnalato dureranno ancora mezzo secolo, oggi sono consentiti solo i rammendi.
Ritessere attraverso gli spazi aperti e pubblici, la dimensione collettiva.
L’assessore Ada Lucia De Cesaris chiude l'incontro portando l’esempio di Santa Giulia, per cui si è lungamente battuta per l’apertura della cosidetta 'promenade'. Ora che si è ottenuta, che è anche molto vissuta, molti chiedono di chiuderla. Lo stesso per il Parco del Portello. E il Sieroterapico. Esiste un equilibrio necessario per riportare la gente in piazza, che non è solo movida, che non può essere repressa e anzi è necessario dare il segnale chiaro che noi i giovani li vogliamo dentro la città.
Anche sugli scali ferroviari stiamo lavorando duro con Trenitalia, che non creda di poterne trattare da ente privato. Prossimamente avvieremo nuovi momenti di ascolto sulle aree degli scali con le zone e la cittadinanza, da cui dovrà nascere un grande disegno unitario.
Naturalmente ce lo auguriamo tutti.
Prossimo incontro dedicato alla "Città delle relazioni", il 4 luglio
alle 16.30 con un secondo appuntamento che vedrà protagoniste ben quattro città (Bologna, Bolzano, Milano, Torino) rappresentate da:
Ilda Curti - Assessore all'Urbanistica Comune di Torino
Lucia De Cesaris - Assessore all'Urbanistica Comune di Milano
Patrizia Gabellini - Assessore all'Urbanistica Comune di Bologna
Maria Chiara Pasquali - Assessore all'Urbanistica Comune di Bolzano
in dialogo con:
Gabriele Pasqui - Direttore Dipartimento architettura e pianificazione Politecnico di Milano
Salvatore Veca - Docente di Filosofia politica Università di Pavia
Francesca Zajczyk - Docente di Sociologia urbana Università Bicocca