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Richard Meier: costruire con la luce

Dal 19.04.2011 al 20.05.2011

Lunedì 11 aprile The Plan ha ospitato al Politecnico di Milano il famoso architetto americano. Forme pulite, tanto bianco e grande attenzione alla scala umana....

Si potrebbe anche dire che quest’anno, la settimana milanese dedicata al design inizia in pompa magna con due eventi collaterali che, pur non essendo strettamente connessi con il Salone del Mobile, sono temporalmente collocati nella giornate inaugurali di questa incredibile settimana milanese.

Due grandi architetti e due riviste: lunedì 11 aprile The Plan ospita al Politecnico di Milano l’architetto Richard Meier mentre martedì 12 Abitare invita Zaha Hadid in occasione dell’uscita del terzo numero speciale dedicato alle archistar, sempre negli spazi della Facoltà di Architettura e Società.

La lectio magistralis di Richard Meier, invitato dalla rivista The Plan che gli dedica un articolo nel numero, permette alla platea di scoprire i punti di vista e le scelte architettoniche dell’architetto americano.
Introduce Roberto Spagnolo, professore ordinario di progettazione architettonica alla Facoltà di Architettura e Società, ricordando che quand’era studente, in Italia si lavorava poco sulla composizione architettonica e molto sulle politiche urbane. Dall’America proveniva latente un interessante modo di guardare le forme, studiando Le Corbusier con un occhio purificatore, per concentrarsi sulle forme architettoniche semplici e quindi lavorando sull’oggetto.
Era appunto il lavoro che compivano i Five Architects, i famosi Whites: Eisenman, Gwathmey, Hejduk, Meier, Graves. In un certo senso Richard Meier conserva ancora in mano il testimone del gruppo; la celebre frase di Le Corbusier “l'architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi assemblati nella luce” appare quanto mai attuale se si guardano le sue opere. La chiave di lettura che Spagnoli dà del lavoro di Meier è l’uso della luce come materiale, al pari di ferro e vetro.

Segue l’intervento del direttore di The Plan, Nicola Leopardi. Orgoglioso per aver invitato Meier a Milano, invita gli studenti a cogliere il massimo da questa lectio.
L’articolo pubblicato sulla rivista si apre con un’intervista all’architetto con a fianco la Douglas House, straordinario e muto corpo bianco “appeso” fra le montagne a sbalzo sul Lago Michigan. 
Segue un’altra opera fondamentale: il Getty Center a Los Angeles, capolavoro che porta Richard Meier tra l’Olimpo dei grandi. Il Getty è un’architettura spazio-temporale, così come viene definito il Rockfeller Center in “Spazio, tempo e architettura” di S.Gideon.
L’imponente intervento sulle colline californiane riesce a risolvere tutti quei salti di scala che alle volte sfuggono nei grandi interventi, che escono dalla mano di un solo architetto: ciò che è fondamentale è appunto la scala umana, aspetto che Richard Meier riprende più e più volte nel corso della sua presentazione. In questo intervento si può entrare ed uscire dagli edifici senza accorgersene, perché la permeabilità degli spazi permette una connessione tra piazze e spazi distributivi senza brusche interruzioni. 
Provocatoriamente Leonardi conclude l’introduzione con l’appellativo di “architetto dei ricchi”, anche se non dimentica di citare alcuni esempi di edilizia residenziale convenzionata, fra cui il Teachers Village a Newark.


La parola passa quindi a Richard Meier, che descrive moltissimi progetti, offrendo per ognuno una concisi ma eloquenti dettagli.
Il primo che presenta è una residenza unifamiliare costruita in un contesto difficile quale quello di una gated community. La Neugebauer House: costruita a Naples in Florida nel 1996-1998 con le costrizione del regolamento del distretto, che imponeva alle costruzione la copertura classica a due falde. Meier, da subito contrario, propose una copertura a due falde ma capovolta, offrendo al contempo una soluzione innovativa ma pertinente con il clima del luogo. 
Il lavoro sulla torre residenziale raggiunge ottimi risultati con i due edifici al 173-176 di Perry Street (1999-2002) seguiti dal terzo al 165 di Charles Street (2006) a Manhattan, sulle rive dell’Hudson, reinterpretando la lezione miesiana dei Lake Shore Drive Apartments a Chicago del 1951. 

Ma il tema progettuale preferito da Meier è lo spazio museale, secondo le sue parole spazio pubblico e sociale.
Il Museo Burda Collection in Germania, completato nel 2004, estensione di un edificio esistente, diventa occasione per organizzare lo spazio in diversi livelli; spazi vuoti e spazi pieni compongono una facciata astratta, ancora più espressiva di notte, quando la luce interna diventa materiale e il bianco di facciata si fa assente. 
La relazione tra museo e paesaggio è ben evidente nel Museo Arp completato nel 2007 che, collocato sulle colline dinanzi al Reno, richiama le immagini delle grandi architetture classiche immerse nella natura.  

Quando “tocca” ai progetti in territorio italiano, sorge sempre qualche problema; in Italia, secondo Meier, accade sempre tutto molto “slow”, ma poi accade. Il progetto per l’Ara Pacis, monumento nel monumento, cerca di costruire uno spazio pubblico davanti all’edificio, una piazza. Sempre in territorio romano, Meier progetta e costruisce la Chiesa del Giubileo, collaborando con l’azienda bergamasca Italcementi, che brevetta una miscela bianca molto resistente e autopulente; attualmente è in corso il progetto della sede della Brembo a fianco del Kilometro rosso progettato da J. Nouvel.

Dopo avere presentato altri interventi e concorsi, le domande all’architetto sono numerose. 
Comincia il direttore di The Plan con una “domanda da studente”, chiedendo come si faccia a diventare un buon architetto. Servono tante cose - risponde Meier - ma soprattutto è necessario pensare alle conseguenze della progettazione, perché gli edifici influenzano in maniera determinante i comportamenti sociali.
Di seguito non poteva non capitare la domanda sul perché Meier realizzi architetture solo bianche; la risposta di fatto non arriva, ironizzando sul fatto che è l’unica alla quale l’architetto non può rispondere.
Una delle ultime domande indaga sui modelli di riferimento dell’architetto da studente: all’apparenza una domanda molto semplice, ma dalla risposta per niente scontata. Meier risponde che oltre ai tanti maestri – Mies, Aalto, Wright, Kahn - ciò che stato fondamentale è stato viaggiare e soprattutto visitare i progetti e coglierne la scala, ritornando così a quel concetto iniziale espresso anche da Nicola Leonardi. La chiave di lettura è studiare l’architettura e la sua storia mediante un preciso punto di vista, che per Meier è la scala umana, purificando e “pulendo” i volumi per arrivarne all’essenza.
 In conclusione, viene formulata una domanda che non poteva non arrivare: “Architetto, lei che ha lavorato in tutto il mondo, ci dica com’è lavorare in Italia!”. Le differenze, conclude Meier, sono sia positive che negative; le imprese e i tecnici sono qualificati e lavorano bene, ma quello che cambia è la nozione del tempo: c’è un german time, c’è un american time… e per finire c’è un italian time! 


Manuele Salvetti

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